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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-719/18

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/10/2020

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), VII COMMISSIONE (CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza in oggetto verte sulla compatibilità con il diritto dell'Unione europea di una disposizione italiana (art. 43, co. 11 del Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici, TUSMAR, c.d. "legge Gasparri") che ha l'effetto di impedire a una società registrata in un altro Stato membro - i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore - di conseguire nel "sistema integrato delle comunicazioni" (SIC) ricavi superiori al 10% di quelli complessivi del sistema medesimo. La domanda di pronuncia pregiudiziale era stata avanzata dal Tribunale amministrativo del Lazio in sede di decisione sul ricorso proposto da Vivendi contro l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM). Nel 2016, infatti, la società francese Vivendi SA, attiva nel settore dei media e nella creazione e distribuzione di contenuti audiovisivi, aveva stipulato un contratto di partnership strategica con Mediaset e Reti Televisive Italiane SpA, società italiane del medesimo settore controllate dal gruppo Fininvest 1, mediante il quale Vivendi ha acquisito il 3,5% del capitale sociale di Mediaset e il 100% di quello di Mediaset Premium SpA, cedendo in cambio a Mediaset il 3,5% del proprio capitale sociale; in seguito tuttavia, a causa di contrasti sull'esecuzione di tale contratto, Vivendi ha avviato una campagna di acquisizione ostile di azioni di Mediaset, giungendo ad acquisirne il 28,8% del capitale sociale, pari al 29,94% dei diritti di voto. Mediaset ha denunciato Vivendi dinanzi all'AGCOM, accusandola di aver violato la citata disposizione italiana che, allo scopo di salvaguardare il pluralismo dell'informazione, vieta a qualsiasi società i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, anche tramite società controllate o collegate, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel «sistema integrato delle comunicazioni» (SIC) ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo in Italia. Era il caso della società Vivendi, che occupava già una posizione rilevante nel settore italiano delle comunicazioni elettroniche, in virtù del controllo esercitato su Telecom Italia SpA (TIM). Con delibera del 18 aprile 2017 l'AGCOM ha accertato che Vivendi, acquisendo le predette partecipazioni in Mediaset, aveva violato tale disposizione italiana e le ha ordinato di porre fine a tale violazione. Pur ottemperando all'ordine dell'AGCOM, trasferendo ad una società terza la titolarità del 19,19% delle azioni di Mediaset, Vivendi ha adito il TAR Lazio chiedendo l'annullamento di tale delibera. Il TAR ha dunque sospeso il procedimento e domandato alla Corte di giustizia di chiarire la portata dei principi di libertà di stabilimento (art. 49 TFUE), libera prestazione dei servizi (art. 56 TFUE) e libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE) rispetto alla disciplina sottesa alla decisione di AGCOM. La Corte di Giustizia procede in primo luogo dalla riconduzione della vicenda in esame al diritto di stabilimento, in quanto l'acquisizione di partecipazioni minoritarie che consentono di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di una società e di determinarne le attività esula dall'ambito di applicazione della disciplina sulla libera circolazione dei capitali (ex art 63 TFUE), che secondo una giurisprudenza costante del giudice europeo riguarda acquisizioni di partecipazioni effettuate al solo scopo di realizzare un investimento finanziario, senza intenzione di influire sulla gestione e sul controllo dell'impresa interessata. Dunque la Corte si sofferma sulla possibilità di valutare la normativa nazionale, che limita il diritto di acquisire una simile partecipazione nel sistema integrato delle comunicazioni, quale una restrizione della libertà di stabilimento vietata dal Trattato: la Corte ribadisce, infatti, che l'articolo 49 TFUE osta a qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l'esercizio, da parte dei cittadini dell'Unione, della libertà di stabilimento sancita dal TFUE. Tale appare la disposizione italiana che vieta a Vivendi di mantenere le partecipazioni acquisite in Mediaset o detenute in Telecom Italia, obbligandola quindi a porre fine a tali partecipazioni, nell'una o nell'altra di tali imprese, nella misura in cui eccedevano le soglie previste. La Corte osserva tuttavia che una restrizione siffatta alla libertà di stabilimento può, in linea di principio, essere giustificata da un motivo imperativo di interesse generale, quale la tutela del pluralismo dell'informazione e dei media, per l'importanza che riveste in una società democratica e pluralista, purché però la misura nazionale restrittiva sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo. La normativa italiana deve pertanto essere sottoposta a un giudizio di proporzionalità per verificare se sia atta e necessaria al perseguimento del pluralismo dei media, e se quest'ultimo scopo non potrebbe essere raggiunto attraverso divieti o limitazioni di minore portata o che colpiscano in minor misura l'esercizio della libertà di stabilimento. L'onere di dimostrare che detta disposizione sia conforme al principio di proporzionalità rimane in capo alle autorità nazionali. Ebbene la Corte, richiamando una propria precedente sentenza (del 13 giugno 2019 nella causa C-193/18), in cui si stabilisce una chiara distinzione tra produzione e trasmissione di contenuti, osserva che le imprese, operanti nel settore delle comunicazioni elettroniche, che esercitano un controllo sulla trasmissione dei contenuti audiovisivi, non necessariamente esercitano un controllo sulla produzione di tali contenuti e rileva che la disposizione italiana non fa riferimento né si applica specificamente ai collegamenti tra la produzione e la trasmissione dei contenuti, ponendo invece un divieto assoluto ai soggetti i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo. Né il fatto di conseguire o meno ricavi equivalenti al 10% dei ricavi complessivi del SIC appare di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media. La Corte rileva, inoltre, che la norma italiana definisce in modo troppo restrittivo il perimetro del settore delle comunicazioni elettroniche, escludendo ingiustificatamente mercati che rivestono un'importanza crescente per la trasmissione di informazioni, come i servizi al dettaglio di telefonia mobile o altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet, nonché i servizi di radiodiffusione satellitare, divenuti la principale via di accesso ai media: ciò determina una sopravvalutazione del potere di mercato detenuto da un'impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche e, simultaneamente, diminuisce le sue possibilità di partecipare al settore dei media audiovisivi, rendendo in tal modo più difficile il suo insediamento in Italia. Infine, la Corte constata che nell'ambito del calcolo dei ricavi realizzati da un'impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche o nel SIC, equiparare la situazione di una «società controllata» a quella di una «società collegata», non appare conciliabile con l'obiettivo perseguito dalla disposizione in questione: infatti, giacché il collegamento è presunto dalla titolarità di almeno un quinto dei diritti di voto nell'assemblea della società collegata (ex art. 2359, co. 3 c.c.), tale circostanza non vale di per sé a dimostrare che la prima società possa concretamente esercitare sulla seconda un'influenza tale da pregiudicare il pluralismo dei media e dell'informazione. La Corte ne conclude che la disposizione italiana, fissando una limitazione generale ed astratta fondata su soglie che non consentono di determinare se e in quale misura un'impresa possa effettivamente influire sul contenuto dei media, non presenta un nesso sufficiente con l'esigenza di prevenire il rischio di compromissione del pluralismo dei media. In definitiva, nella misura in cui risulta inidonea a conseguire l'obiettivo di interesse generale di tutela del pluralismo dell'informazione, la normativa italiana è incompatibile con il diritto di stabilimento sancito dall'art. 49 TFUE.

  • C-686/18

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    Assegnata in data: 02/09/2020

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza della CGUE verte sull’interpretazione dell’articolo 29 del Regolamento (UE) n. 575/2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, nel combinato disposto con l’articolo 10 del Regolamento delegato (UE) n. 241/2014: in particolare, la Corte si pronuncia sulla compatibilità con dette norme europee di una disciplina nazionale, quale quella dettata dall’art. 28 TUB (d. lgs. 385/1993) come attuato dalla Banca d’Italia con il 9º aggiornamento della circolare n. 285/2013, che consente alle banche popolari o alle banche di credito cooperativo di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, in considerazione della propria situazione prudenziale, il rimborso delle azioni e degli strumenti di capitale nei casi di recesso, esclusione o morte del socio, al fine di assicurare che gli strumenti di capitale emessi da tali banche siano considerati strumenti di capitale primario di classe 1. Tali strumenti sono infatti parte di quella quota di fondi propri della banca, denominata capitale di classe 1, che le consente di proseguire le sue attività e ne mantiene la solvibilità. La sentenza si esprime inoltre sulla possibilità di qualificare una normativa nazionale che detta restrizioni al diritto al rimborso delle azioni quale una limitazione (ex art. 52 Carta dei diritti fondamentali dell’UE-CDFUE) dei diritti di libera intrapresa e di proprietà, protetti rispettivamente dagli articoli 16 e 17 CDFUE. Infine la pronuncia chiarisce se l’interpretazione degli art. 63 e ss. TFUE, i quali disciplinano la libertà di movimento dei capitali, osti all’introduzione da parte degli Stati membri di una normativa che fissa una soglia di attivo per l’esercizio di attività bancarie da parte di banche popolari stabilite in tale Stato membro e costituite in forma di società cooperative per azioni a responsabilità limitata, al di sopra della quale tali banche sono obbligate a trasformarsi in società per azioni, a ridurre l’attivo al di sotto di detta soglia o a procedere alla loro liquidazione: la Corte risponde, nello specifico, alla domanda pregiudiziale posta dal Consiglio di Stato attorno alla compatibilità con il diritto dell’UE dell’art. 29 del decreto legislativo n. 385/1993 (TUB), il quale dispone che l’attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro e impone, in caso di superamento di tale soglia, la trasformazione in spa o la liquidazione della società. Non ricevibile è stata invece ritenuta la questione, posta dal giudice nazionale, circa la compatibilità di detta soglia con la disciplina in materia di aiuti di stato dettata dagli artt. 107 TFUE e ss., per l’impossibilità di individuare un collegamento sufficiente tra tali disposizioni del diritto dell’UE e la normativa nazionale. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE è stato operato dal Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in sede di appello sul fondamento dei ricorsi proposti da alcuni cittadini insieme ad Adusbef e Federconcusmatori avverso il 9º aggiornamento della circolare n. 285/2013 di Banca d’Italia che ha consentito alle banche popolari di limitare o rinviare il rimborso delle azioni, in occasione della trasformazione in spa, deliberata (art. 29, co. 2-ter TUB) in ottemperanza all’art. 1, co. 2 d.l. n. 3/2015 conseguentemente al superamento della soglia di attivo compatibile con la forma societaria di soc. coop. per azioni, fissata dalla legge in 8 miliardi di euro. La Corte ha pertanto evidenziato che risulta dal dato testuale dell’art. 29 del regolamento 575/2013 la facoltà delle banche popolari e di credito cooperativo di rinviare il rimborso degli strumenti di capitale e di limitarne l’importo per un periodo illimitato, vale a dire per tutto il tempo e nella misura in cui ciò sia necessario alla luce della loro situazione prudenziale, considerando in particolare la situazione generale in termini finanziari, di liquidità e di solvibilità nonché l’importo del capitale primario di classe 1 rispetto al capitale complessivo: pertanto l’articolo 29 del regolamento n. 575/2013 e l’articolo 10 del regolamento delegato n. 241/2014 non ostano alla normativa di uno Stato membro che consente a dette banche di rinviare per un periodo illimitato il rimborso delle azioni del socio recedente, laddove ciò sia necessario ad assicurare che gli strumenti di capitale emessi da tali banche siano considerati strumenti di capitale primario di classe 1. Inoltre la Corte ha riconosciuto che una normativa nazionale quale quella introdotta nell’ordinamento italiano, benché costituisca una limitazione del diritto di proprietà (art. 17 CDFUE) e, potenzialmente, del diritto di impresa (art. 16 CDFUE) del socio recedente, deve essere considerata legittima. La giurisprudenza della Corte è infatti costante nell’affermare che la libertà di impresa non costituisce una prerogativa assoluta, essendo soggetta a un ampio ventaglio di interventi dei poteri pubblici atti a stabilire, nell’interesse generale, limiti all’esercizio dell’attività economica, né la tutela del diritto di proprietà può prevalere su restrizioni, proporzionate e necessarie, che perseguono obiettivi di interesse generale. Giacché dunque la normativa in questione risponde effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione (ai sensi dell’art. 52 CDFUE), in quanto è volta a perseguire la stabilità del sistema bancario e finanziario prevenendo un rischio sistemico, mediante l’adeguamento tra la forma giuridica e le dimensioni delle banche popolari, nonché il rispetto delle regole prudenziali dell’Unione che disciplinano l’esercizio dell’attività bancaria, la limitazione che apporta alla libertà di impresa e al diritto di proprietà appare pienamente legittima. L’argomento della Corte è tale per cui la prevenzione del rischio sistemico rappresenta un motivo sufficiente di giustificazione per misure nazionali che restringano la libera iniziativa economica e il diritto di proprietà. Dal momento che, infatti, la restrizione del diritto di rimborso da parte della banca popolare è finalizzata ad assicurare la computabilità degli strumenti di capitale da essa emessi come strumenti di capitale primario di classe 1, la Corte ritiene che una simile normativa, lungi dal compromettere il contenuto essenziale dei diritti di proprietà e di iniziativa economica, consente di arginare la circostanza che l’investimento nel capitale primario di una banca sia improvvisamente ritirato e, in tal modo, di evitare di esporre detta banca nonché l’intero settore bancario a un’instabilità prudenziale. In effetti, come ha sottolineato il giudice di Lussemburgo, le banche sono spesso interconnesse e molte di loro esercitano le loro attività a livello internazionale, quindi la grave difficoltà di una o più banche rischia di propagarsi rapidamente alle altre e ciò rischia a sua volta di produrre ricadute negative in altri settori dell’economia Pertanto tale limitazione risulta compatibile con il diritto dell’Unione europea, purché sia conforme al principio di proporzionalità, ovverosia se non eccede quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale delle banche interessate, con riferimento particolare alla loro liquidità e solvibilità. Analogamente, la CGUE ha stabilito che l’art. 63 TFUE deve essere interpretato nel senso che una misura nazionale, quale quella italiana, che fissa una soglia di attivo per l’esercizio dell’attività bancaria da parte delle banche popolari, sebbene possa limitare l’importanza dell’attività economica esercitata da tali banche e, perciò, dissuadere gli investitori nell’acquisizione di partecipazioni, costituisce una restrizione ai movimenti di capitali tra Stati membri giustificata in ragione del perseguimento di obiettivi di interesse generale, a condizione che la soglia di attivo fissata da tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione di tali obiettivi e non ecceda quanto necessario per il loro raggiungimento.
  • C-496/19

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    Assegnata in data: 02/09/2020

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione dell’articolo 78 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario. Il procedimento principale è sorto a seguito del rigetto, da parte dell’Ufficio doganale di Salerno, di due domande presentate da Antonio Capaldo S.p.A al fine di ottenere, da un lato, la revisione delle sue dichiarazioni in dogana e, dall’altro, il rimborso delle somme che, a suo avviso, non avrebbe dovuto versare a titolo di dazi doganali e di imposta sul valore aggiunto se fosse stato attribuito il codice tariffario proposto dalla parte ricorrente. Nel corso del 2011, la ricorrente ha importato merci dalla Cina chiedendo che fosse rivisto il regime tariffario delle aliquote in senso più favorevole. Tale richiesta è stata rigettata. La ricorrente quindi ha presentato appello avverso tale decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania che ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale con cui si chiede se l’articolo 78 del codice doganale debba essere interpretato nel senso che esso osta a un’eventuale revisione della dichiarazione in dogana qualora la merce sia stata sottoposta, in occasione di una precedente importazione e senza contestazione, a una verifica fisica che abbia confermato la sua classificazione doganale. Nella sua sentenza la Corte afferma che l’articolo 78 del codice doganale non contiene alcuna limitazione né per quanto riguarda la possibilità per l’autorità doganale di reiterare una revisione o un controllo a posteriori (paragrafi 1 e 2), né in relazione all’adozione, da parte di tale autorità, delle misure necessarie per regolarizzare la situazione (paragrafo 3). Per questi motivi, la Corte dichiara che l’articolo 78 del regolamento (CEE) n. 2913/92 deve essere interpretato nel senso che esso non osta all’avvio della procedura di revisione della dichiarazione in dogana da esso prevista, anche qualora la merce di cui trattasi sia stata sottoposta, in occasione di una precedente importazione e senza contestazione, a una verifica fisica che abbia confermato la sua classificazione doganale.
  • C-411/19

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    Assegnata in data: 02/09/2020

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 6 della Direttiva 92/43/CEE, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche. La domanda è stata presentata in merito alla legittimità della delibera del 1 dicembre 2017, con la quale il Consiglio dei Ministri ha adottato il provvedimento di compatibilità ambientale del progetto preliminare di collegamento stradale a nord di Roma (Italia), secondo il «tracciato verde», tra Monte Romano Est (Italia) e Tarquinia Sud (Italia), e della delibera del 28 febbraio 2018, con la quale il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) ha approvato tale progetto preliminare. Il progetto preliminare era stato oggetto di un parere negativo della commissione del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare preposta alla valutazione ambientale, con la motivazione della mancanza di uno studio approfondito dell’incidenza ambientale e del coinvolgimento di un sito di importanza comunitaria, inserito nella rete di aree protette Natura 2000, la zona “Fiume Mignone (basso corso)”. Secondo la Corte di Giustizia, la normativa dello Stato membro che consente di superare il parere negativo dell’autorità competente in materia ambientale, in merito alla realizzazione di un’opera infrastrutturale, di rilevante interesse nazionale e che coinvolga un’area naturale protetta, è compatibile con il diritto europeo e in particolare con la citata direttiva 92/43/CEE. In particolare, la sesta sezione della Corte ha dichiarato che: 1) l’articolo 6 della direttiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali della flora e della fauna selvatiche, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che consente la prosecuzione, per imperativi motivi di interesse pubblico, della procedura di autorizzazione di un piano o di un progetto la cui incidenza su una zona speciale di conservazione non possa essere mitigata e sul quale l’autorità pubblica competente abbia già espresso parere negativo, a meno che non esista una soluzione alternativa che comporta minori inconvenienti per l’integrità della zona interessata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare; 2) qualora un piano o un progetto abbia formato oggetto, in applicazione dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43, di una valutazione negativa quanto alla sua incidenza su una zona speciale di conservazione e lo Stato membro interessato abbia comunque deciso, ai sensi del paragrafo 4 di detto articolo, di realizzarlo per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, l’articolo 6 di tale direttiva deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente che detto piano o progetto, dopo la sua valutazione negativa ai sensi del paragrafo 3 di detto articolo e prima della sua adozione definitiva in applicazione del paragrafo 4 del medesimo, sia completato con misure di mitigazione della sua incidenza su tale zona e che la valutazione di detta incidenza venga proseguita. L’articolo 6 della direttiva 92/43 non osta invece, nella stessa ipotesi, a una normativa che consente di definire le misure di compensazione nell’ambito della medesima decisione, purchè siano soddisfatte anche le altre condizioni di attuazione dell’articolo 6, paragrafo 4, di tale direttiva; 3) la direttiva 92/43 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che prevede che il soggetto proponente realizzi uno studio sull’incidenza del piano o del progetto di cui trattasi sulla zona speciale di conservazione interessata, sulla base del quale l’autorità competente procede alla valutazione di tale incidenza. Tale direttiva osta invece a una normativa nazionale che consente di demandare al soggetto proponente di recepire, nel piano o nel progetto definitivo, prescrizioni, osservazioni e raccomandazioni di carattere paesaggistico e ambientale dopo che quest’ultimo abbia formato oggetto di una valutazione negativa da parte dell’autorità competente, senza che il piano o il progetto così modificato debba costituire oggetto di una nuova valutazione da parte di tale autorità; 4) La direttiva 92/43 dev’essere interpretata nel senso che essa, pur lasciando agli Stati membri il compito di designare l’autorità competente a valutare l’incidenza di un piano o di un progetto su una zona speciale di conservazione nel rispetto dei criteri enunciati dalla giurisprudenza della Corte, osta invece a che una qualsivoglia autorità prosegua o completi tale valutazione, una volta che quest’ultima sia stata realizzata.
  • C-28/19

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    Assegnata in data: 12/05/2020

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione del regolamento (CE) n. 1008/2008, recante norme comuni per la prestazione di servizi aerei, con riguardo all’applicazione di supplementi di prezzo e relativa imposizione dell’Iva, e oneri di web check-in. Nel 2011, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust (Italia) (AGCM) ha contestato a Ryanair di aver pubblicato sul proprio sito Internet dei prezzi del servizio aereo che non indicavano, sin dalla loro prima visualizzazione, i seguenti elementi: 1) l’importo dell’IVA per i voli nazionali, 2) gli oneri di web check-in e 3) le tariffe applicate in caso di pagamento con una carta di credito diversa da quella prescelta da Ryanair. L’AGCM ha ritenuto tali elementi del prezzo inevitabili e prevedibili e che il consumatore ne dovesse essere informato sin dalla prima indicazione del prezzo, ossia ancor prima del processo di prenotazione e ha pertanto irrogato ammende a Ryanair per pratica commerciale sleale. Ryanair ha adito il giudice amministrativo italiano per ottenere l’annullamento della decisione dell’AGCM. Il ricorso è stato respinto in primo grado, quindi Ryanair ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato italiano. Quest’ultimo ha chiesto alla Corte di giustizia se, alla luce del citato regolamento sulla prestazione dei servizi aerei, gli elementi di prezzo di cui trattasi siano inevitabili e prevedibili e debbano pertanto essere inclusi nella pubblicazione dell’offerta iniziale. Con la sentenza in oggetto la Corte di giustizia dell’UE ha richiamato la propria giurisprudenza, ovvero le sentenze del 6 luglio 2017, causa C-290/16, Air Berlin; del 18 settembre 2014, causa C-487/12, Vueling Airlines; e del 19 luglio 2012, causa C-112/11, ebookers.com Deutschland. Secondo le sentenze ricordate un vettore aereo ha l’obbligo di far figurare nelle sue offerte on line, sin dalla prima indicazione del prezzo (ossia nell’offerta iniziale) la tariffa passeggeri nonché, separatamente, le tasse, i diritti ed i supplementi inevitabili e prevedibili. Per contro, è soltanto all’inizio del processo di prenotazione che esso deve comunicare i supplementi di prezzo opzionali in modo chiaro e trasparente. Per quanto riguarda gli oneri di web check-in, la Corte ritiene che, quando sussiste almeno un’opzione di check-in gratuito (come il check-in effettuato in aeroporto), tali oneri debbano essere qualificati come supplementi di prezzo opzionali e, pertanto, non debbano necessariamente essere indicati nell’offerta iniziale. Ove invece il vettore aereo proponga una o più modalità di check-in a pagamento – esclusa, quindi, qualsiasi modalità di check-in gratuito – gli oneri di web check-in devono essere considerati come elementi di prezzo inevitabili e prevedibili che devono essere visualizzati nell’offerta iniziale. Per quanto concerne l’IVA applicata ai supplementi facoltativi per i voli nazionali, la Corte afferma che si tratta di un supplemento di prezzo opzionale, al contrario dell’IVA applicata alle tariffe dei voli nazionali, la quale deve essere indicata nell’offerta iniziale. Infine, la Corte rileva che la tariffa applicata per il pagamento con carta di credito diversa da quella prescelta dal vettore aereo costituisce un elemento di prezzo inevitabile e prevedibile che deve quindi essere visualizzato nell’offerta iniziale. Se il carattere prevedibile di tale tariffa è riconducibile alla politica del vettore aereo in materia di modalità di pagamento, il suo carattere inevitabile trova piuttosto una spiegazione nel fatto che l’apparente scelta lasciata ai consumatori (utilizzare o meno la carta di credito prescelta dal vettore aereo) dipende in realtà da una condizione imposta dallo stesso vettore, con la conseguenza che la gratuità del servizio di cui trattasi è riservata a beneficio di una cerchia ristretta di consumatori privilegiati, mentre gli altri consumatori devono o rinunciare alla gratuità di tale servizio o rinunciare a una conclusione del loro acquisto nell’immediato ed effettuare operazioni potenzialmente costose per poter soddisfare la condizione richiesta, con il rischio, una volta effettuate dette operazioni, di non poter più beneficiare dell’offerta o di non poterne più beneficiare al prezzo inizialmente indicato.
  • C-395/18

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    Assegnata in data: 01/04/2020

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull'interpretazione della direttiva 2014/24/UE, con particolare riferimento all'applicazione delle disposizioni in materia di motivi di esclusione di un operatore economico dalle procedure di appalto. Vengono in considerazione, inoltre, il Codice italiano dei contratti pubblici (decreto legislativo del 18 aprile 2016, n. 50) e legge del 12 marzo 1999, n. 68 – Norme per il diritto al lavoro dei disabili.

    Il procedimento principale è sorto a seguito dell'esclusione da parte della Consip, in qualità di amministrazione aggiudicatrice, della TIM a una procedura di appalto dopoché la prima ha constatato che uno dei tre subappaltatori dei quali la TIM intendeva avvalersi in caso di aggiudicazione di appalto relativo alla fornitura di un sistema di comunicazione ottica era risultato non in regola con le norme sull'accesso al lavoro dei disabili. Il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se la direttiva 2014/24 e il principio di proporzionalità ostino ad una normativa nazionale, in virtù della quale l'amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad escludere automaticamente un operatore economico dalla procedura di aggiudicazione di appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell'offerta di tale operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dall'articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva, tra i quali il mancato rispetto (ai sensi dell'articolo 18, paragrafo 2) di obblighi applicabili in materia di diritto ambientale, sociale, e del lavoro stabiliti dal diritto dell'Unione, dal diritto nazionale, dai contratti collettivi e da determinate disposizioni a livello internazionale.

    Secondo la Corte di giustizia dell'UE, anzitutto, l'articolo 57 non ha come obiettivo una uniformità di applicazione dei motivi di esclusione ivi indicati a livello dell'Unione, nella misura in cui gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare tali motivi o di integrarli nella normativa nazionale con un grado di rigore che può variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. Gli Stati membri dispongono dunque di un sicuro margine di discrezionalità nella determinazione delle condizioni di applicazione dei motivi di esclusione facoltativi. Inoltre, la necessità di assicurare in modo adeguato il rispetto degli obblighi previsti dall'articolo 18, paragrafo 2, della direttiva 2014/24 deve permettere agli Stati membri, in sede di determinazione delle condizioni di applicazione del motivo di esclusione previsto dall'articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva, di ritenere che l'autore della violazione possa essere non soltanto l'operatore economico che ha presentato l'offerta, ma anche i subappaltatori dei quali quest'ultimo intenda avvalersi; l'amministrazione aggiudicatrice può infatti legittimamente pretendere di attribuire l'appalto soltanto agli operatori economici che, sin dalla fase di procedura di affidamento dell'appalto, dimostrino la propria capacità di assicurare in modo adeguato, nel corso dell'esecuzione dell'appalto, il rispetto degli obblighi suddetti, eventualmente avvalendosi di subappaltatori a loro volta rispettosi degli obblighi in questione. Ne consegue che gli Stati membri possono prevedere, ai fini dell'applicazione dell'articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, che l'amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l'obbligo, di escludere l'operatore economico che ha presentato l'offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell'appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell'offerta di tale operatore venga constatata una violazione degli obblighi previsti dall'articolo 18 paragrafo 2, di detta direttiva.

    La Corte tuttavia precisa che, nell'applicare i motivi di esclusione facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici devono prestare particolare attenzione al principio di proporzionalità, prendendo segnatamente in considerazione il carattere lieve delle irregolarità commesse o il ripetersi di irregolarità lievi. Tale attenzione deve essere ancor più elevata qualora l'esclusione prevista dalla normativa nazionale colpisca l'operatore economico che ha presentato l'offerta per una violazione commessa non da lui direttamente, bensì da un soggetto estraneo alla sua impresa, per il controllo del quale detto operatore può non disporre di tutta l'autorità richiesta e di tutti i mezzi necessari. La necessità di rispettare il principio di proporzionalità risulta rispecchiata in particolare all'articolo 57, paragrafo 6, primo comma, della direttiva 2014/24, in virtù del quale un operatore economico passibile di esclusione da una procedura di appalto per una violazione constatata nei confronti di un subappaltatore indicato nell'offerta, può fornire le prove al fine di attestare che le misure da esso prese sono sufficienti per dimostrare la sua affidabilità malgrado l'esistenza di detto motivo di esclusione.

    L'articolo 57, paragrafo 6, primo comma, della direttiva 2014/24 precisa che, se tali prove sono ritenute sufficienti, l'operatore economico in questione non deve essere escluso dalla procedura di aggiudicazione dell'appalto. Tale disposizione introduce dunque un meccanismo di misure correttive (selfcleaning) che sottolinea l'importanza attribuita all'affidabilità dell'operatore economico.

    Da tale argomento discende, in sintesi, che una normativa nazionale in discussione nel procedimento principale che preveda in modo generale e astratto l'esclusione automatica dell'operatore economico (che, in altre parole, non consenta all'amministrazione aggiudicatrice di tenere conto, ai fini della valutazione della situazione, di una serie di fattori pertinenti, come i mezzi di cui l'operatore economico che ha presentato l'offerta disponeva per verificare l'esistenza di una violazione in capo ai subappaltatori, o la presenza di un'indicazione, nella sua offerta, della propria capacità di eseguire l'appalto senza avvalersi necessariamente del subappaltatore in questione) viola il principio di proporzionalità, imponendo alle amministrazioni aggiudicatrici di procedere automaticamente a tale esclusione a causa della violazione commessa da un subappaltatore, ed eccedendo così il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri, a norma dell'articolo 57, paragrafo 7, della direttiva 2014/24.

    La Corte statuisce pertanto: l'articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l'amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l'obbligo, di escludere l'operatore economico che ha presentato l'offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell'appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell'offerta di detto operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata; per contro, tale disposizione, letta in combinato disposto con l'articolo 57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il carattere automatico di tale esclusione.

  • C-414/18

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 29/01/2020

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia è chiamata in via pregiudiziale ad interpretare l’articolo 5, paragrafo 1, lettere a) ed f), del regolamento delegato (UE) 2015/63 della Commissione, che integra la direttiva 2014/59/UE (che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione delle crisi degli enti creditizi e delle imprese di investimento) per quanto riguarda i contributi ex ante ai meccanismi di finanziamento della risoluzione. Ai sensi dell’articolo 103, paragrafo 2, della direttiva 2014/59/UE i contributi ex ante di ciascun ente (che sono corretti secondo determinati criteri adottati in funzione del profilo di rischio dell’ente) sono calcolati in percentuale dell’ammontare delle sue passività (esclusi i fondi propri) meno i depositi protetti in relazione alle passività aggregate (esclusi i fondi propri) meno i depositi protetti di tutti gli enti autorizzati nel territorio dello Stato membro. Tali contributi, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento delegato (UE) 2015/63 sono calcolati escludendo, tra l’altro, le passività seguenti: lettera a): passività infragruppo derivanti da operazioni condotte dall'ente con un altro ente appartenente allo stesso gruppo, a condizione che sia soddisfatta ciascuna delle condizioni seguenti: i) ciascun ente è stabilito nell'Unione; ii) ciascun ente è incluso integralmente nella stessa vigilanza su base consolidata a norma degli articoli da 6 a 17 del regolamento (UE) n. 575/2013 ed è sottoposto a adeguate procedure centralizzate di valutazione, misurazione e controllo del rischio; iii) non vi sono e non sono previsti rilevanti impedimenti di fatto o di diritto che ostacolino il tempestivo rimborso della passività alla scadenza; lettera f): in caso di ente che gestisce prestiti agevolati, passività dell'ente intermediario verso l'istituto di credito agevolato d'origine o altro istituto di credito agevolato ovvero verso altro ente intermediario, e passività dell'istituto di credito agevolato verso i suoi finanziatori, nella misura in cui l'importo di tali passività trova corrispondenza nei prestiti agevolati concessi dall'ente. La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che oppone la Iccrea Banca SpA Istituto Centrale del Credito Cooperativo alla Banca d’Italia, in merito a varie decisioni e note di quest’ultima relative al pagamento di contributi al Fondo nazionale di risoluzione italiano e al Fondo di risoluzione unico (Single Resolution Fund - SRF). Iccrea Banca è una banca che è posta al vertice di una rete di aziende di credito e che ha come obiettivo di dare supporto all’operatività, tra l’altro, delle banche di credito cooperativo in Italia. Ha costituito un gruppo al quale hanno aderito circa 190 banche di credito cooperativo, allo scopo esclusivo di partecipare alle operazioni di rifinanziamento a lungo termine mirate, messe in atto dalla BCE. Con decisioni adottate tra il 2015 e il 2017 la Banca d’Italia ha richiesto a Iccrea Banca il pagamento di contributi ordinari, straordinari e addizionali al Fondo nazionale di risoluzione italiano; inoltre, con nota del 3 maggio 2016 ha richiesto a Iccrea Banca il pagamento di un contributo ex ante al Fondo di risoluzione unico per l’anno 2016 stabilito da una decisione del Comitato di risoluzione unico (Single Resolution Board – SRB) del 15 aprile 2016 e con nota del 27 maggio 2016 ha apportato una correzione all’importo di quest’ultimo contributo, in applicazione di una decisione del SRB del 20 maggio 2016. Avverso le suddette decisioni e note, Iccrea Banca ha proposto ricorso dinanzi al giudice del rinvio; il ricorso mira, altresì, alla determinazione della modalità appropriata di calcolo delle somme effettivamente dovute da Iccrea Banca, nonché al rimborso delle somme che quest’ultima considera come indebitamente pagate. Iccrea Banca sostiene che la Banca d’Italia si è fondata su un’erronea interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento delegato 2015/63. Essa avrebbe infatti preso in considerazione, ai fini del calcolo dei contributi in questione nel procedimento principale, le passività connesse ai rapporti tra Iccrea Banca e talune banche di credito cooperativo, quando invece le stesse avrebbero dovuto essere escluse da tale calcolo in virtù di un’applicazione, in via analogica, delle disposizioni del suddetto regolamento delegato relative alle passività infragruppo o agli enti creditizi che gestiscono prestiti agevolati. Tale erronea interpretazione avrebbe altresì portato la Banca d’Italia a non cogliere la peculiarità del sistema integrato nel quale opererebbe Iccrea Banca ed avrebbe così causato un errore nel calcolo del contributo ex ante al SRF per l’anno 2016. Il TAR Lazio ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: - se l’articolo 5, paragrafo 1, in particolare alle lettere a) ed f), del regolamento delegato 2015/63 osti ad un’applicazione del regime previsto delle passività infragruppo anche nel caso di gruppo “di fatto” o, comunque, nel caso di interconnessioni esistenti tra un ente ed altre banche di un medesimo sistema; - se invece il trattamento di favore riservato alle passività agevolate nel medesimo articolo 5 possa trovare applicazione, per via analogica, anche alle passività di una banca cosiddetta “di secondo livello” verso le altre banche del sistema (del Credito Cooperativo) o se quest’ultima caratteristica di un ente, concretamente operante come istituto centrale all’interno di una compagine interconnessa ed integrata di piccole banche, anche nei rapporti con la BCE e con il mercato finanziario, debba comunque condurre, in base alla disciplina vigente, a qualche correttivo nella prospettazione dei dati finanziari da parte dell’Autorità nazionale di risoluzione agli organismi [dell’Unione] e nella determinazione dei contributi dovuti dall’ente al Fondo di risoluzione in forza delle sue effettive passività e del suo concreto profilo [di] rischio. Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, la Corte sostiene che non spetta al giudice del rinvio valutare, nella causa di cui al procedimento principale, la compatibilità di decisioni della Banca d’Italia con le norme disciplinanti il calcolo dei contributi ex ante al SRF, dato che detto giudice non può, in virtù del diritto dell’Unione, né pronunciarsi sugli atti della Banca d’Italia che preparano tale calcolo, né impedire la riscossione, a carico di Iccrea Banca, di un contributo corrispondente all’importo determinato mediante atti del SRB la cui invalidità non è stata accertata, con conseguente irricevibilità della questione sollevata per gli aspetti che si riferiscono specificamente al calcolo dei contributi ex ante al SRF, mentre la questione è ritenuta ricevibile là dove si riferisce al calcolo dei contributi ordinari, straordinari e addizionali al Fondo nazionale di risoluzione italiano. Per la parte ricevibile la Corte risponde alla questione sottolineando in particolare che: • le relazioni tra enti creditizi come quelle evocate dal giudice del rinvio, intercorrenti tra una banca di secondo livello e i suoi partner e consistenti nella fornitura di servizi di vario tipo da parte di tale banca di secondo livello, non possono essere considerate idonee a dimostrare l’esistenza di un gruppo in seno al quale possano esistere delle «passività infragruppo», ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera a), del regolamento delegato 2015/63. • il semplice fatto che delle banche cooperative facciano parte di una compagine, quale quella di cui al procedimento principale, non è idoneo a dimostrare che la banca di secondo livello appartenente a tale gruppo possa essere considerata come un ente creditizio che gestisce prestiti agevolati, il che è sufficiente per escludere che una parte delle sue passività possa soddisfare i requisiti enunciati all’articolo 5, paragrafo 1, lettera f), del regolamento delegato 2015/63; • sebbene il giudice del rinvio prospetti che l’articolo 5, paragrafo 1, lettere a) ed f), del suddetto regolamento delegato debba essere interpretato nel senso che può essere applicato a situazioni che sono assimilabili a quelle prese in considerazione da tale articolo, quand’anche dette situazioni non soddisfino la totalità delle condizioni enunciate nelle disposizioni sopra citate, occorre constatare che un’interpretazione siffatta è incompatibile con il testo di tali disposizioni. Per gli argomenti sopra descritti, la Corte ha risolto la questione pregiudiziale stabilendo che l’articolo 103, paragrafo 2, della direttiva 2014/59 e l’articolo 5, paragrafo 1, lettere a) ed f), del regolamento delegato 2015/63 devono essere interpretati nel senso che le passività risultanti da operazioni concluse tra una banca di secondo livello e i membri di una compagine, che detta banca forma insieme a banche cooperative cui fornisce servizi di vario tipo senza avere il controllo delle stesse, e non comprendenti prestiti concessi su base non concorrenziale e senza scopo di lucro non sono escluse dal calcolo dei contributi ad un fondo nazionale di risoluzione contemplati dal citato articolo 103, paragrafo 2.
  • C-63/18

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    Assegnata in data: 30/10/2019

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha dichiarato che la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24 novembre 2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30 per cento la parte dell'appalto che l'offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
  • C-54/18

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 19/06/2019

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha dichiarato che la direttiva 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non osta a una normativa nazionale che prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di decadenza, entro un termine di trenta giorni a decorrere dalla loro comunicazione agli interessati, a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione sui motivi pertinenti tale da garantire che gli interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell'Unione dagli stessi lamentata. La Corte ha, altresì, dichiarato che la direttiva non osta a una normativa nazionale che prevede che, in mancanza di ricorso contro i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione degli offerenti alla partecipazione alle procedure di appalto pubblico entro un termine di decadenza di trenta giorni dalla loro comunicazione, agli interessati sia preclusa la facoltà di eccepire l'illegittimità di tali provvedimenti nell'ambito di ricorsi diretti contro gli atti successivi, in particolare avverso le decisioni di aggiudicazione, purché tale decadenza sia opponibile agli interessati solo a condizione che essi siano venuti o potessero venire a conoscenza, tramite detta comunicazione, dell'illegittimità dagli stessi lamentata.
  • C-712/17

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 11/06/2019

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha dichiarato che, in una situazione in cui vendite fittizie di energia elettrica effettuate in modo circolare tra gli stessi operatori e per gli stessi importi non hanno causato perdite di gettito fiscale, la direttiva 2006/112/CE, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, letta alla luce dei princìpi di neutralità e di proporzionalità, non osta a una normativa nazionale che esclude la detrazione dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) relativa a operazioni fittizie, imponendo al contempo ai soggetti che indicano l'IVA in una fattura di assolvere tale imposta, anche per un'operazione inesistente, purché il diritto nazionale consenta di rettificare il debito d'imposta risultante da tale obbligo qualora l'emittente della fattura, che non era in buona fede, abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale, mentre i princìpi di proporzionalità e di neutralità dell'IVA, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ostano a una norma di diritto nazionale in forza della quale la detrazione illegale dell'IVA è punita con una sanzione pari all'importo della detrazione effettuata

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