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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-573/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/06/2022

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha statuito che la Repubblica italiana, non avendo provveduto affinché non fosse superato, in modo sistematico e continuato, il valore limite annuale fissato per il biossido di azoto (NO2),

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2018 incluso, nelle zone IT0118 (agglomerato di Torino); IT0306 (agglomerato di Milano); IT0307 (agglomerato di Bergamo); IT0308 (agglomerato di Brescia); IT0711 (Comune di Genova); IT0906 (agglomerato di Firenze) e IT1215 (agglomerato di Roma);

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2017 incluso, nella zona IT0309 (zona A – pianura ad elevata urbanizzazione);

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2012 e a partire dall'anno 2014 fino al 2018 incluso, nella zona IT1912 (agglomerato di Catania), nonché

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2012 e a partire dall'anno 2014 fino al 2017 incluso, nella zona IT1914 (zone industriali),

    è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del combinato disposto dell'articolo 13, paragrafo 1, e dell'allegato XI della direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa alla qualità dell'aria ambiente e per un'aria più pulita in Europa, e, non avendo adottato, a partire dall'11 giugno 2010, misure appropriate per garantire il rispetto del valore limite annuale fissato per il NO2 in tutte le suddette zone e, in particolare, non avendo provveduto affinché i piani per la qualità dell'aria prevedessero misure appropriate affinché il periodo di superamento di detto valore limite fosse il più breve possibile, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'articolo 23, paragrafo 1, di tale direttiva, letto da solo e in combinato disposto con l'allegato XV, punto A, di quest'ultima.

    La Corte ha altesì condannato la Repubblica italiana alle spese.

  • C-33/21

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/06/2022

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La controversia da cui ha origine la questione pregiudiale deriva da un'ispezione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), all'esito della quale l'istituto  ha ritenuto che 219 dipendenti della Ryanair, assegnati all'aeroporto di Orio al Serio presso Bergamo (Italia), esercitassero un'attività di lavoro dipendente sul territorio italiano e che, in applicazione del diritto italiano e del regolamento n. 1408/71, dovessero essere assicurati presso l'INPS per il periodo compreso tra il giugno 2006 e il febbraio 2010.

    L'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha ritenuto altresì che, in forza del diritto italiano, gli stessi dipendenti dovessero essere assicurati presso l'INAIL, per il periodo compreso tra il 25 gennaio 2008 e il 25 gennaio 2013, per i rischi connessi al lavoro non aereo in quanto impiegati, secondo detto istituto, presso la base di servizio della Ryanair situata nell'aeroporto di Orio al Serio.

    L'INPS e l'INAIL hanno chiesto pertanto alla Ryanair il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi relativi a tali periodi, circostanza che quest'ultima ha contestato dinanzi ai giudici italiani. Il giudice italiano d'appello ha esaminato i certificati E101 rilasciati dall'istituzione irlandese competente, attestanti che la legislazione previdenziale irlandese era applicabile ai dipendenti ivi indicati.

    Questi certificati, tuttavia, non coprivano tutti i 219 dipendenti della Ryanair assegnati all'aeroporto di Orio al Serio per tutti i periodi interessati. Esso ne ha concluso che, per quanto riguarda i dipendenti per i quali non era accertata l'esistenza di un certificato E101, occorreva determinare la legislazione previdenziale applicabile. Poiché detto giudice ha ritenuto che la legislazione previdenziale italiana non fosse applicabile, l'INPS e l'INAIL hanno proposto ricorso in cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia).

    La Corte suprema di cassazione italiana ha quindi chiesto alla  Corte di giustizia dell'UE di accertare quale sia, conformemente alle disposizioni pertinenti del regolamento n. 1408/71 e del regolamento n. 883/2004, la normativa previdenziale applicabile al personale di volo di una compagnia aerea (stabilita in uno Stato membro) che non è coperto da certificati E101 e che lavora per un periodo di 45 minuti al giorno in un locale destinato ad accogliere l'equipaggio, denominato «crew room», di cui detta compagnia aerea dispone nel territorio di un altro Stato membro nel quale detto personale di volo risiede e che, per il resto del tempo lavorativo, si trova a bordo degli aeromobili di questa compagnia aerea. 

    La Corte di giustizia dell'UE ricorda il principio secondo il quale una persona che fa parte del personale navigante di una compagnia aerea che effettua voli internazionali e che dipende da una succursale o da una rappresentanza permanente della compagnia in questione, nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale essa ha la propria sede, è soggetta alla legislazione dello Stato membro nel cui territorio tale succursale o detta rappresentanza permanente si trova.

    La Corte ritiene altresì che il locale destinato ad accogliere l'equipaggio della Ryanair («crew room»), situato presso l'aeroporto d'Orio al Serio, costituisca una succursale o una rappresentanza permanente in cui i dipendenti della Ryanair assegnati all'aeroporto d'Orio al Serio non coperti dai certificati E101 erano occupati durante i periodi considerati, di modo che questi ultimi sono soggetti, in forza del regolamento n. 1408/71, alla legislazione previdenziale italiana. 

    La Corte ricorda, inoltre, il principio secondo il quale la persona che di norma esercita un'attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta alla legislazione dello Stato membro di residenza, qualora essa eserciti una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro.

    Di conseguenza, la Corte ritiene  che il locale destinato ad accogliere l'equipaggio della Ryanair di stanza presso l'aeroporto d'Orio al Serio costituisca una base di servizio, di modo che i dipendenti della Ryanair non coperti dai certificati E101 ivi assegnati sono soggetti, in forza del regolamento n. 883/2004, alla legislazione previdenziale italiana.

    In conclusione, la Corte dichiara che, fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio, la legislazione previdenziale applicabile durante i periodi in questione ai dipendenti della Ryanair assegnati all'aeroporto d'Orio al Serio non coperti da certificati E101 è quella italiana.

  • C-210/20

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/07/2021

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull'interpretazione della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, in materia di appalti pubblici, alla luce del principio generale di proporzionalità. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata proposta dal Consiglio di Stato alla CGUE nell'ambito di una controversia tra, da un lato, la Rad Service Srl Unipersonale, la Cosmo Ambiente Srl e la Cosmo Scavi Srl, riunite in seno al raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) Rad Service (in prosieguo: l'«RTI Rad Service») e, dall'altro, la Del Debbio SpA, il Gruppo Sei Srl, la Ciclat Val di Cecina Soc. Coop. (in prosieguo: l'«RTI Del Debbio») nonché il raggruppamento temporaneo di imprese costituito dalla DAF Costruzioni Stradali Srl, la GARC SpA e l'Edil Moter Srl (in prosieguo: l'«RTI Daf»), in merito alla decisione dell'Azienda Unità Sanitaria Locale Toscana Centro (Italia) di escludere l'RTI Del Debbio da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori.

    L'esclusione dell'RTI Del Debbio è stata motivata dalla presentazione di una dichiarazione dell'impresa ausiliaria che non menzionava un patteggiamento, vale a dire una sentenza di applicazione della pena su richiesta congiunta delle parti, pronunciata nei confronti del titolare e rappresentante legale dell'impresa il 14 giugno 2013 e passata in giudicato l'11 settembre 2013. Il giudice del Lussemburgo ricorda che, in diritto italiano, il patteggiamento sarebbe espressamente equiparato, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, ad una sentenza di condanna relativa al reato di lesioni colpose, commesso in violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. L'amministrazione aggiudicatrice ha pertanto ritenuto che l'impresa ausiliaria avesse fornito una dichiarazione falsa e non veritiera alla domanda contenuta nel DGUE, diretta a stabilire se essa si fosse resa responsabile di gravi illeciti professionali, di cui all'articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici. Di conseguenza, l'amministrazione aggiudicatrice ha ritenuto che l'RTI Del Debbio dovesse essere automaticamente escluso dalla procedura, ai sensi dell'articolo 80, comma 5, lettera f-bis), e dell'articolo 89, comma 1, del medesimo Codice. Dopo che il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana (Italia) ha annullato, tramite due sentenze, l'esclusione dell'RTI Del Debbio e dell'RTI Daf, l'RTI RAD Service ha impugnato tali sentenze dinanzi al giudice del rinvio, ossia il Consiglio di Stato (Italia).

    In tale contesto, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l'articolo 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con l'articolo 57, paragrafo 4, lettera h), e paragrafo 6, di tale direttiva e alla luce del principio di proporzionalità, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in forza della quale l'amministrazione aggiudicatrice deve automaticamente escludere un offerente da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora un'impresa ausiliaria, sulla cui capacità esso intende fare affidamento, abbia reso una dichiarazione non veritiera quanto all'esistenza di condanne penali passate in giudicato, senza poter imporre o, quantomeno, senza poter permettere, in siffatta ipotesi, a tale offerente di sostituire detto soggetto, contrariamente a quanto previsto nelle altre ipotesi in cui i soggetti sulle cui capacità si affida l'offerente non soddisfano un criterio pertinente di selezione o nei confronti dei quali sussistono motivi di esclusione obbligatori.

    Secondo la Corte, anzitutto, ai sensi dell'articolo 63, paragrafo 1, secondo comma, terza frase, della direttiva 2014/24, l'amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro cui appartiene a imporre che l'operatore economico interessato sostituisca il soggetto sulla cui capacità esso intende fare affidamento, ma nei confronti del quale sussistono motivi di esclusione non obbligatori. Dalla formulazione di quest'ultima frase emerge quindi che, sebbene gli Stati membri possano prevedere che, in un'ipotesi del genere, l'amministrazione aggiudicatrice sia tenuta ad imporre una siffatta sostituzione a tale operatore economico, essi non possono, per contro, privare detta amministrazione aggiudicatrice della facoltà di esigere, di propria iniziativa, una siffatta sostituzione. Gli Stati membri dispongono infatti solo della possibilità di sostituire tale facoltà con un obbligo, per l'amministrazione aggiudicatrice, di procedere a una siffatta sostituzione. La Corte ritiene che una tale interpretazione contribuisce a garantire il rispetto del principio di proporzionalità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, in forza del quale le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell'ambito dell'attuazione delle disposizioni di detta direttiva non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da quest'ultima.

    La Corte aggiunge che conformemente all'articolo 57, paragrafo 6, quarto comma, della direttiva 2014/24, un operatore economico escluso con sentenza definitiva dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti o di attribuzione di concessioni non è certamente autorizzato, nel corso del periodo di esclusione fissato da tale sentenza negli Stati membri in cui la sentenza produce i suoi effetti, ad avvalersi delle misure correttive da esso adottate a seguito di tale sentenza e, di conseguenza, a evitare l'esclusione se tali prove sono giudicate sufficienti; tuttavia, quando una sentenza definitiva esclude dalla partecipazione a procedure di aggiudicazione di appalti o di attribuzione di concessioni un soggetto sulle cui capacità l'offerente intende fare affidamento, l'offerente deve poter, in tal caso, essere autorizzato dall'amministrazione aggiudicatrice a procedere alla sostituzione di tale soggetto.

    Infine la Corte rammenta il considerando 101 della direttiva citata, ai sensi del quale, nell'applicare motivi di esclusione facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici devono prestare particolare attenzione al principio di proporzionalità; tale attenzione deve essere ancora più elevata qualora l'esclusione prevista dalla normativa nazionale colpisca l'offerente non per una violazione ad esso imputabile, bensì per una violazione commessa da un soggetto sulle cui capacità egli intende fare affidamento e nei confronti del quale non dispone di alcun potere di controllo.

    La Corte precisa che, nel caso di specie, se il giudice del rinvio confermasse l'affermazione dell'RTI Del Debbio secondo cui la condanna penale del dirigente dell'impresa ausiliaria sulle cui capacità esso aveva inteso fare affidamento non figurava nell'estratto del casellario giudiziale consultabile dai soggetti privati, cosicché la normativa italiana non consentiva all'RTI Del Debbio di venire a conoscenza di tale condanna, non gli si potrebbe addebitare una mancanza di diligenza; di conseguenza, in tali circostanze, sarebbe contrario al principio di proporzionalità, enunciato all'articolo 18, paragrafo 1, della direttiva 2014/24, impedire la sostituzione del soggetto interessato da una causa di esclusione.

    In definitiva la Corte ha risposto alla questione sollevata dichiarando che l'articolo 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con l'articolo 57, paragrafo 4, lettera h), di tale direttiva e alla luce del principio di proporzionalità, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in forza della quale l'amministrazione aggiudicatrice deve automaticamente escludere un offerente da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora un'impresa ausiliaria, sulle cui capacità esso intende fare affidamento, abbia reso una dichiarazione non veritiera quanto all'esistenza di condanne penali passate in giudicato, senza poter imporre o quantomeno permettere, in siffatta ipotesi, a tale offerente di sostituire detto soggetto.

  • C-128/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 16/06/2021

    Commissione: XII COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI), XIII COMMISSIONE (AGRICOLTURA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale, che verte sull'interpretazione degli articoli 107 e 108 del TFUE, è stata presentata con ordinanza dalla Corte suprema di cassazione italiana il 14 novembre 2018 nell'ambito della controversia tra l'Azienda provinciale sanitaria di Catania e l'Assessorato della Salute della Regione Siciliana in merito a una domanda di condanna della prima al pagamento di un'indennità a favore di un allevatore costretto ad abbattere animali affetti da malattie infettive.

    L'allevatore aveva presentato dinanzi al Tribunale di Catania una domanda diretta ad ottenere la condanna dell'Azienda provinciale sanitaria a versargli una somma (11.930,08 euro) a titolo di indennità, come previsto dall'articolo 1 della legge regionale n.12/1989. Tale indennità è finanziata dall'articolo 25, comma 16, della legge regionale n.19/2005, a favore degli operatori del settore zootecnico costretti ad abbattere bestiame affetto da malattie infettive.

    Il Tribunale di Catania ha accolto tale domanda con decreto ingiuntivo n. 81/08. L'azienda sanitaria ne ha quindi chiesto e ottenuto l'annullamento.

    Successivamente l'allevatore ha presentato ulteriore ricorso, a seguito del quale la Corte d'appello di Catania ha riformato la sentenza di annullamento respingendo l'argomento dell'Azienda sanitaria secondo cui la misura prevista dalla legge regionale costituiva un aiuto di Stato a cui non poteva essere data esecuzione fino a quando la Commissione non l'avesse dichiarato compatibile con il mercato interno. La Corte d'appello di Catania rilevava che la Commissione europea aveva autorizzato (con decisione C(2002)4786 dell'11 dicembre 2002)  le disposizioni delle leggi regionali che, fino al 1997, avevano finanziato l'indennità di cui al procedimento principale  in quanto misura di aiuto di Stato compatibile con il mercato interno, ovvero l'articolo 11 della legge regionale n. 40/1997 e l'articolo 7 della legge regionale n. 22/1999. La Corte d'appello di Catania considerava che l'accertamento di compatibilità con il mercato interno delle misure del 1997 e del 1999, effettuato dalla Commissione nella decisione del 2002, si estendeva alla misura del 2005, che finanziava tale indennità.

     La Corte suprema di cassazione, giudice del rinvio, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dall'Azienda sanitaria avverso la sentenza della Corte d'appello di Catania, chiede se la misura del 2005 costituisca un aiuto di Stato ai sensi dell'articolo 107, paragrafo 1, del TFUE e, in caso affermativo, se sia compatibile con gli articoli 107 e 108 TFUE.

    Quindi, la Corte di Cassazione pone una seconda questione chiedendo se l'articolo 108, paragrafo 3, TFUE debba essere interpretato nel senso che una misura istituita da uno Stato membro, destinata a finanziare, per un periodo di più anni e per un importo di EUR 20 milioni, da un lato, un'indennità a favore degli allevatori costretti ad abbattere animali affetti da malattie infettive e, dall'altro, il compenso dovuto ai veterinari liberi professionisti che hanno partecipato alle misure di risanamento, debba essere assoggettata alla procedura di controllo preventivo prevista da tale disposizione, anche nell'ipotesi in cui la Commissione abbia autorizzato misure simili.

    La Corte di giustizia europea ha risposto alla seconda questione, ritenendo di non dover esaminare la prima alla luce di tale risposta, stabilendo che l'articolo 108, paragrafo 3 TFUE dev'essere interpretato nel senso che una misura istituita da uno Stato membro, destinata a finanziare, per un periodo di più anni e per un importo di 20 milioni di euro, da un lato, un'indennità a favore degli allevatori costretti ad abbattere animali affetti da malattie infettive e, dall'altro, il compenso dovuto ai veterinari liberi professionisti che hanno partecipato alle misure di risanamento, dev'essere assoggettata alla procedura di controllo preventivo prevista da tale disposizione, qualora tale misura non sia coperta da una decisione di autorizzazione della Commissione europea, salvo che essa soddisfi le condizioni previste dal regolamento (UE) n. 702/2014 della Commissione, del 25 giugno 2014, che dichiara compatibili con il mercato interno, in applicazione degli articoli 107 e 108 del TFUE, alcune categorie di aiuti nei settori agricolo e forestale e nelle zone rurali e che abroga il regolamento della Commissione (CE) n. 1857/2006, o le condizioni previste dal regolamento (UE) n. 1408/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 [TFUE] agli aiuti «de minimis» nel settore agricolo.

  • C-798/18

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 12/05/2021

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    Le domande sono state presentate nell'ambito di controversie sorte tra, da un lato, nella causa C 798/18, la Federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche (Anie) nonché 159 imprese che producono energia elettrica da impianti fotovoltaici e, nella causa C 799/18, l'Athesia Energy Srl nonché altre 15 imprese operanti nello stesso settore e, dall'altro lato, il Ministero dello Sviluppo economico (Italia) e il Gestore dei servizi energetici (GSE) SpA, in merito all'annullamento dei decreti attuativi delle disposizioni legislative nazionali che prevedono una revisione delle tariffe incentivanti per la produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici e delle relative modalità di pagamento.

    Il regime italiano di incentivi alla produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici è stato infatti modificato dall'articolo 26 del decreto-legge n. 91/2014 (cd. Spalma-incentivi), attuato con decreti ministeriali del 16 e del 17 ottobre 2014, di cui i ricorrenti nei procedimenti principali chiedono l'annullamento dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Italia).

    Il giudice del rinvio ritiene che detto articolo 26 possa essere contrario al diritto dell'Unione, avendo ridotto le tariffe e modificato le modalità di pagamento di incentivi già assegnati e confermati mediante convenzioni concluse individualmente dal GSE con i gestori degli impianti fotovoltaici, che indicano le tariffe incentivanti concrete e le modalità specifiche del loro pagamento per un periodo di 20 anni.

    La Corte rileva che le convenzioni tra i gestori di impianti fotovoltaici interessati e il GSE erano concluse sulla base di "contratti-tipo" che non assegnavano di per sé incentivi agli impianti stessi, ma fissavano unicamente le modalità della loro erogazione, e che, per le convenzioni concluse dopo il 31 dicembre 2012, il GSE si riservava il diritto di modificare unilateralmente le condizioni di queste ultime a seguito di eventuali sviluppi normativi. Detti elementi costituivano, quindi, un'indicazione sufficientemente chiara per gli operatori economici nel senso che gli incentivi in questione potevano essere modificati o soppressi.

    La Corte aggiunge inoltre che le misure previste dall'articolo 26, commi 2 e 3, del decreto- legge n. 91/2014 non incidono sugli incentivi già erogati, ma sono applicabili a decorrere dall'entrata di tale decreto-legge e unicamente agli incentivi previsti, ma non ancora dovuti.

    La Corte, pertanto, dichiara che, fatte salve le verifiche che spetta al giudice del rinvio effettuare tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti, l'articolo 3, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2009/28 e gli articoli 16 e 17 della Carta, letti alla luce dei principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede la riduzione o il rinvio del pagamento degli incentivi per l'energia prodotta dagli impianti solari fotovoltaici, incentivi precedentemente concessi mediante decisioni amministrative e confermati da apposite convenzioni concluse tra gli operatori di tali impianti e una società pubblica, qualora tale normativa riguardi gli incentivi già previsti, ma non ancora dovuti.

  • C-617/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 12/05/2021

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 3, lettera e), e dell'allegato I della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nell'UE e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio (GU 2003, L 275, pag. 32), come modificata dalla direttiva 2009/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009 (GU 2009, L 140, pag. 63) (in prosieguo: la «direttiva 2003/87»).

    Il ricorso è stato proposto nell'ambito di una controversia tra la Granarolo SpA e il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (Italia), il Ministero dello Sviluppo economico (Italia) e il Comitato nazionale per la gestione della direttiva 2003/87/CE e per il supporto nella gestione delle attività di progetto del Protocollo di Kyoto (Italia) ("Comitato ETS"), a seguito del rigetto di una domanda di aggiornamento dell'autorizzazione ad emettere gas a effetto serra detenuta dalla Granarolo per uno dei suoi impianti rientrante nel sistema dell'Unione europea per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra ("ETS"). La società Granarolo possiede a Pasturago di Vernate (Italia) uno stabilimento produttivo dotato tra l'altro di una centrale termica per la produzione del calore necessario ai suoi processi di trasformazione. A titolo di tale centrale termica, la Granarolo deteneva, conformemente a quanto prescritto dall'articolo 4 della direttiva 2003/87, un'autorizzazione ad emettere gas a effetto serra derivanti dalla combustione di carburanti in impianti di potenza termica nominale totale superiore a 20 MW. In virtù del diritto nazionale, era soggetta, per tale impianto, al regime dei «piccoli emettitori» ai fini del monitoraggio e del controllo delle emissioni di CO2. Nel 2013, la Granarolo costruiva, nei suoi stabilimenti, un'unità di cogenerazione di energia elettrica e calore, per la produzione di alimenti, di potenza termica nominale totale inferiore a 20 MW ottenendo dal Comitato ETS l'aggiornamento della propria autorizzazione ad emettere gas a effetto serra, ai sensi dell'articolo 7 della predetta direttiva. Nel 2017, la Granarolo cedeva la propria unità di cogenerazione alla E.ON Connecting Energies Italia Srl, società specializzata nel settore energetico (E.ON), concludendo con quest'ultima un contratto di fornitura di energia elettrica e calore. A seguito di tale cessione, la Granarolo chiedeva al Comitato ETS un aggiornamento della sua autorizzazione ad emettere gas a effetto serra, ritenendo che le emissioni relative all'unità di cogenerazione, non più sotto la sua gestione, dovessero essere scorporate dall'ammontare delle sue emissioni di CO2. Con decisione del 6 giugno 2018, il Comitato ETS respingeva la sua domanda, pertanto la Granarolo proponeva dinanzi al giudice del rinvio un ricorso in annullamento di tale rigetto asserendo che il Comitato ETS non avrebbe tenuto conto nell'adozione della decisione di rigetto delle prescrizioni della direttiva 2003/87 e asserendo altresì che lo stabilimento produttivo e l'unità di cogenerazione non possono essere considerati, solo perché connessi ai fini della fornitura di energia, come un unico impianto essendo strutturalmente e funzionalmente autonomi. La E.ON è intervenuta a sostegno della Granarolo nell'ambito del relativo procedimento. La Corte conclude dichiarando che l'articolo 3, lettere e) e f), della direttiva 2003/87, in combinato disposto con i punti 2 e 3 dell'allegato I di quest'ultima, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che il proprietario di uno stabilimento produttivo dotato di una centrale termica la cui attività rientra nell'ambito di applicazione di tale allegato I possa ottenere un aggiornamento della sua autorizzazione ad emettere gas a effetto serra, ai sensi dell'articolo 7 di tale direttiva, se ha ceduto un'unità di cogenerazione situata nello stesso sito industriale di tale stabilimento ed esercente un'attività con una capacità inferiore alla soglia stabilita in detto allegato I ad un'impresa specializzata nel settore dell'energia, concludendo con tale impresa un contratto che prevede, in particolare, la fornitura a detto stabilimento dell'energia prodotta da tale unità di cogenerazione, sempre che la centrale termica e l'unità di cogenerazione non costituiscano un solo ed unico impianto, ai sensi dell'articolo 3, lettera e), di detta direttiva, e che, in ogni caso, il proprietario dello stabilimento produttivo non sia più il gestore dell'unità di cogenerazione, ai sensi dell'articolo 3, lettera f), della medesima direttiva.

  • C-303/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 17/12/2020

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione dell’art. 11, par. 1, lett. d della direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo: in particolare, la Corte valuta la compatibilità tra il diritto ivi sancito del soggiornante di lungo periodo allo stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale e una disciplina nazionale, quale quella italiana, risultante dal combinato disposto dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988 e dell’art. 9, c. 12, lett. c, d. lgs. 286/1998 (TU immigrazione), la quale, ai fini della determinazione del diritto all’assegno per il nucleo familiare, esclude dal computo dei componenti del nucleo del soggiornante di lungo periodo i familiari che non risiedono nel territorio nazionale, bensì in un paese terzo, allorché invece vengono presi in considerazione i familiari dei cittadini italiani anche se residenti in un paese terzo. La pronuncia risponde infatti al quesito pregiudiziale sollevato dalla Corte di Cassazione, la quale è stata chiamata a decidere sulla legittimità del rigetto opposto da INPS alla domanda di assegno per il nucleo familiare presentata da VR, cittadino di paese terzo, occupato in Italia e titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata dal 2010, i cui familiari avevano risieduto, per la durata del periodo di riferimento, nel proprio paese d’origine. Il rigetto di INPS discendeva dall’applicazione dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, ai sensi del quale « Non fanno parte del nucleo familiare… il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia». D’altra parte, il TU immigrazione, all’art. 9, c. 12, lett. c, stabilisce che il cittadino di un paese terzo titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata usufruisce delle prestazioni di previdenza sociale e di assistenza sociale, «salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale». La Corte di Cassazione si trovava pertanto nella necessità di valutare se la legislazione italiana suddetta realizzasse una deroga al principio della parità di trattamento tra cittadino italiano e cittadino di paese terzo regolarmente soggiornante in Italia compatibile con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE. La Corte procede, innanzitutto, dal ricordare che l’articolo 11, par. 1, lett. d, della direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di far beneficiare i soggiornanti di lungo periodo dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda, in particolare, le prestazioni sociali previste dalla legislazione nazionale. Nondimeno, ai sensi dell’articolo 11, par. 2, di detta direttiva, gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni sociali, ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui viene chiesta la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel loro territorio. Altresì, ai sensi del paragrafo 4 del medesimo articolo, gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali. Tali deroghe possono però essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse. A tal proposito, la Corte ritiene, in virtù delle risultanze del fascicolo di causa e di quanto è stato confermato in udienza dalla Repubblica italiana, che quest’ultima non abbia espresso l’intenzione di avvalersi di una simile deroga in sede di recepimento della direttiva 2003/109 nel diritto nazionale. Pertanto, la Corte nega che l’esclusione del soggiornante di lungo periodo i cui familiari non risiedono nel territorio italiano dall’accesso all’assegno per il nucleo familiare, che deriva dall’applicazione dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, possa essere ricondotta alle ipotesi di legittima deroga al principio della parità di trattamento previste dall’art. 11 della suddetta direttiva. La Corte afferma che, sebbene l’esclusione dal versamento dell’assegno per il nucleo familiare dipenda esclusivamente dall’omessa considerazione dei familiari non residenti nel territorio della Repubblica italiana che incide sull’entità dell’importo, rendendo quest’ultimo pari a zero, ciò integra nondimeno una disparità di trattamento tra i titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata e i cittadini italiani proibita dall’articolo 11, par. 1, lett. d, della direttiva 2003/109/CE. D’altra parte, secondo la Corte, tale difformità nell’accesso alle prestazioni sociali non potrebbe giustificarsi con riferimento al fatto che i soggiornanti di lungo periodo e i cittadini dello Stato membro ospitante si troverebbero in una situazione diversa a causa dei loro rispettivi legami con tale Stato, essendo tale giustificazione contraria alla ratio dell’articolo 11. Secondo una giurisprudenza costante della Corte di giustizia, neanche le eventuali difficoltà di controllo sulla situazione dei beneficiari per quanto riguarda le condizioni di concessione dell’assegno per il nucleo familiare qualora i familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato, eccepite dall’INPS e dal governo italiano, possono giustificare una disparità di trattamento. Infine la Corte ritiene infondata l’affermazione secondo cui l’esclusione dall’assegno per il nucleo familiare del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nel territorio dello Stato membro interessato sarebbe conforme all’obiettivo di integrazione, inteso come effettiva presenza sul territorio, dal momento che, invece, l’obiettivo di favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi è perseguito dalla direttiva garantendo loro un trattamento equo in virtù della previsione di un insieme comune di diritti, che si fonda sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. In definitiva, la Corte dichiara che l’articolo 11, par. 1, lett. d, della direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari del soggiornante di lungo periodo che risiedano non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in un paese terzo, qualora tale Stato membro non abbia espresso, in sede di recepimento di detta direttiva nel diritto nazionale, la propria intenzione di avvalersi della deroga alla parità di trattamento consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, della medesima direttiva.
  • C-302/19

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    Assegnata in data: 17/12/2020

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione dell’art. 12, par. 1, lett. e della direttiva 2011/98/UE, la quale stabilisce un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro: in particolare, la Corte verifica la compatibilità con il principio di parità di trattamento ivi sancito di una disciplina nazionale, quale quella risultante dall’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, la quale, ai fini della determinazione del diritto all’assegno per il nucleo familiare, esclude dal computo dei componenti del nucleo del cittadino di paese terzo titolare di permesso unico i familiari che non risiedono nel territorio nazionale, bensì in un paese terzo, allorché invece vengono presi in considerazione i familiari dei cittadini italiani anche se residenti in un paese terzo. La pronuncia risponde infatti al quesito pregiudiziale sollevato dalla Corte di Cassazione, la quale è stata chiamata a decidere sulla correttezza (o meno) dell’applicazione dell’art. 12, direttiva 2011/98/UE data dalla Corte di Appello di Torino nel negare la legittimità del rigetto opposto da INPS alla domanda di assegno per il nucleo familiare presentata da WS, cittadino di paese terzo titolare dapprima di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato e poi di un permesso unico, i cui familiari avevano risieduto, per la durata del periodo di riferimento, nel proprio paese d’origine. Il rigetto di INPS discendeva dall’applicazione dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, ai sensi del quale « Non fanno parte del nucleo familiare… il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia.» La Corte di Cassazione si trovava pertanto nella necessità di valutare se la legislazione italiana suddetta realizzasse una disparità di trattamento, proibita dal diritto dell’Unione, tra cittadino italiano e cittadino di paese terzo regolarmente soggiornante in Italia rispetto all’accesso a una prestazione di natura previdenziale, quale l’assegno per il nucleo familiare. La Corte procede, innanzitutto, dal ricordare che la direttiva 2011/98/UE impone agli Stati membri di far beneficiare della parità di trattamento, per quanto concerne i settori della sicurezza sociale, come definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004, i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale. In questo senso, la Corte ribadisce che, pur spettando a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale nonché l’importo di tali prestazioni e il periodo per il quale sono concesse, nell’esercitare tale facoltà, gli Stati membri devono conformarsi al diritto dell’Unione e, dunque, assicurare il principio della parità di trattamento stabilito dall’art. 12 di detta direttiva. L’applicazione dell’art. 12, direttiva 2011/98/UE alla vicenda in esame dipende tuttavia dalla possibilità di ricondurre l’assegno per il nucleo familiare, di cui al d. l. 69/1988, a uno dei settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004: ebbene, giacché il giudice del rinvio ha riconosciuto la natura previdenziale di tale prestazione, in quanto costituisce un’integrazione economica di cui beneficiano tutti i prestatori di lavoro che svolgono la loro attività sul territorio italiano, purché abbiano un nucleo familiare che produce redditi non superiori ad una determinata soglia, e giacché tale prestazione ha come beneficiari i familiari stessi del lavoratore, il cui numero rileva altresì per la definizione del quantum dell’assegno, si deve riconoscere che l’assegno per il nucleo familiare ricade sotto l’art. 3, lett. j del regolamento (CE) n. 883/2004, quale “prestazione familiare”. La pronuncia della Corte chiarisce, dunque, che non risulta da alcuna delle disposizioni della direttiva 2011/98, una possibilità per gli Stati membri di escludere dal diritto alla parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale il lavoratore titolare di un permesso unico i cui familiari risiedono in un paese terzo. Al contrario, risulta che un tale lavoratore deve beneficiare del diritto alla parità di trattamento. Né possono indurre, secondo la Corte, a una conclusione opposta i considerando 20 e 24 contenuti nel preambolo della medesima direttiva e menzionati dal giudice del rinvio, giacché il preambolo non ha alcun valore giuridico vincolante e non può essere invocato né per derogare alle disposizioni stesse dell’atto in questione, né per interpretare queste disposizioni in un senso manifestamente contrario al loro tenore letterale. D’altra parte, la formulazione del considerando 20 si riferisce alla sola circostanza per cui i familiari di un lavoratore di paese terzo titolare di un permesso unico beneficiano direttamente del diritto alla parità di trattamento previsto all’articolo 12 della direttiva in parola, mentre il considerando 24 è volto a precisare, tra l’altro, che la direttiva in oggetto non accorda essa stessa, al di là della parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante, diritti in materia di sicurezza sociale ai cittadini di paesi terzi titolari di un permesso unico. La Corte afferma che non si può desumere dal riconoscimento della parità di trattamento a favore dei familiari di un cittadino di paese terzo che risiedano nel territorio di uno Stato membro (ex art.1, regolamento n. 1231/2010) l’esclusione dal godimento del medesimo diritto previsto dalla direttiva 2011/98 del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato, quale il ricorrente nel procedimento in oggetto. Né tale esclusione può trovare un fondamento nel mero fatto che, per i soggiornanti di lungo periodo, la direttiva 2003/109 prevede invece che lo Stato membro interessato possa limitare la parità di trattamento nelle prestazioni sociali, ai casi in cui il familiare per cui essi chiedono la prestazione abbia eletto dimora o risieda abitualmente nel suo territorio. Neppure il fatto che l’esclusione dal versamento dell’assegno per il nucleo familiare dipenda esclusivamente dall’omessa considerazione dei familiari non residenti nel territorio della Repubblica italiana che incide sull’entità dell’importo, rendendo quest’ultimo pari a zero, costituisce una giustificazione per una deroga al diritto alla parità di trattamento di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98, dal momento che si realizza in ogni caso una disparità di trattamento tra gli stranieri titolari di permesso unico e i cittadini italiani. Infine la Corte ritiene infondata l’affermazione secondo cui l’esclusione dall’assegno per il nucleo familiare del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nel territorio dello Stato membro interessato sarebbe conforme all’obiettivo di integrazione, inteso come effettiva presenza sul territorio, dal momento che, invece, l’obiettivo di favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi è perseguito dalla direttiva garantendo loro un trattamento equo in virtù della previsione di un insieme comune di diritti, che si fonda sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. In definitiva, la Corte dichiara che l’articolo 12, par. 1, lett. e, della direttiva 2011/98/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro, quale quella italiana discendente dall’art. 2, c. 6 bis, d. l. 69/1988, in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, come l’assegno per il nucleo familiare, non vengono presi in considerazione i familiari del titolare di un permesso unico che risiedano non nel territorio di tale Stato membro, ma in un paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in un paese terzo.
  • C-299/19

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    Assegnata in data: 17/12/2020

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia dell’UE si pronuncia sulla corretta interpretazione della direttiva 2000/35 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dal Tribunale di Torino nell’ambito di una controversia tra la Techbau SpA e l’Azienda Sanitaria Locale AL (ente pubblico incaricato del servizio di sanità pubblica di Alessandria, Italia) in relazione al pagamento di interessi di mora sull’importo dovuto per l’esecuzione di un appalto avente ad oggetto la realizzazione di un blocco operatorio per un ospedale. La questione sollevata, in sostanza, è diretta a stabilire se l’articolo 2, punto 1, primo comma, della direttiva citata debba essere interpretato nel senso che un appalto pubblico di lavori costituisce una transazione commerciale, ai sensi di tale disposizione, e rientra quindi nell’ambito di applicazione ratione materiae di detta direttiva. In particolare la direttiva definisce transazioni commerciali i contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo. In sintesi nell’ambito della controversia innanzi al Tribunale ordinario di Torino è sorto il dubbio se un appalto pubblico di lavori potesse considerarsi estraneo al concetto di transazione commerciale testé indicato con conseguente disapplicazione della direttiva contro i ritardi nei pagamenti. Declinata sul piano del giudizio di compatibilità tra diritto dell’UE e quello nazionale, il Tribunale di Torino ha pertanto chiesto alla Corte se l’articolo 2, punto 1 della direttiva [2000/35] ostasse a una normativa nazionale, come l’articolo 2 comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 231 del 2002, che esclude dalla nozione di “transazione commerciale” – intesa come contratti che “comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo” – e quindi dal proprio campo di applicazione il contratto di appalto di opera, indifferentemente pubblico o privato, e specificamente l’appalto pubblico di lavori ai sensi del diritto europeo. La Corte affronta la questione anzitutto dal punto di vista del tenore letterale della norma in questione. Occorrono due condizioni affinché un’operazione sia sussumibile nella nozione di transazione commerciale: essa deve essere, in primo luogo, effettuata tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni e, in secondo luogo, “comportare la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo”. Con riferimento alla seconda condizione, la Corte precisa che da diverse disposizioni della direttiva citata emerge che la seconda condizione (consegna di merci o prestazioni di servizio dietro pagamento di un prezzo) è applicabile ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in transazioni commerciali, comprese quelle tra imprese e pubbliche amministrazioni, ad esclusione dei contratti con consumatori e di altri tipi di pagamenti individuati dalla direttiva stessa. Poiché le transazioni riguardanti gli appalti pubblici di lavori non rientrano nel novero delle materie escluse, esse devono rientrare nell’ambito di applicazione ratione materiae di detta direttiva. La Corte precisa che l’impiego, nella disposizione citata, dei termini «che comportano», al fine di descrivere il nesso che deve sussistere tra, da un lato, le «transazioni» e, dall’altro, la «consegna di merci» o la «prestazione di servizi», mette in evidenza che una transazione che non ha per oggetto la consegna di merci o la prestazione di servizi può nondimeno rientrare nella nozione di «transazione commerciale», ai sensi di tale disposizione, qualora una transazione del genere dia effettivamente luogo a una consegna o a una prestazione siffatte. La Corte impiega altresì argomenti di carattere sistemico per confermare tale indirizzo giurisprudenziale. In particolare, alla luce delle definizioni del Trattato sul funzionamento dell’UE in materia di libertà fondamentali, e della relativa giurisprudenza, è indubbio che un contratto d’appalto avente ad oggetto l’esecuzione di un’opera o di lavori, e un appalto pubblico di lavori, implichi la consegna di merci o la prestazioni di servizi. Infine la Corte sottolinea che l’esclusione di una parte non trascurabile delle transazioni commerciali, vale a dire quelle relative agli appalti pubblici di lavori, dal beneficio dei meccanismi di lotta contro i ritardi di pagamento previsti dalla direttiva 2000/35, da un lato, contrasterebbe con l’obiettivo di tale direttiva, enunciato al suo considerando 22, secondo cui la stessa deve disciplinare tutte le transazioni commerciali, a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche. Dall’altro lato, una siffatta esclusione avrebbe necessariamente la conseguenza di ridurre l’effetto utile dei suddetti meccanismi, anche rispetto alle transazioni che possono coinvolgere operatori provenienti da diversi Stati membri. In forza di tali argomenti la Corte dichiara che l’articolo 2, punto 1, primo comma, della direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, deve essere interpretato nel senso che un appalto pubblico di lavori costituisce una transazione commerciale che comporta la consegna di merci o la prestazione di servizi, ai sensi di tale disposizione, e rientra quindi nell’ambito di applicazione ratione materiae di tale direttiva.
  • C-92/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/10/2020

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

     

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 12, paragrafo 3 della direttiva 2004/8/CE sulla promozione della cogenerazione basata su una domanda di calore utile nel mercato interno dell'energia e che modifica la direttiva 92/42/CEE. La domanda è stata presentata dal Consiglio di Stato nell'ambito della controversia tra la società Burgo Group Spa e il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) in merito al rifiuto di quest'ultimo di riconoscere a Burgo Group il beneficio di un regime di sostegno consistente nell'esenzione dall'acquisto obbligatorio dei cosiddetti "certificati verdi". 

    Si ricorda che il decreto legislativo n.79 del 1999 ha introdotto dal 2002, per produttori e importatori di energia elettrica da fonti non rinnovabili, l'obbligo di immettere ogni anno nel sistema elettrico nazionale una quota di energia elettrica da fonti rinnovabili, anche tramite l'acquisto di certificati verdi che ne attestino la produzione da parte di altri soggetti.

    Con riferimento agli impianti di cogenerazione, l'articolo 3 del decreto legislativo n. 20/2007, che ha recepito la direttiva 2004/8/CE, ha stabilito transitoriamente l'equiparazione fino al 31 dicembre 2010 delle due tipologie di impianti, di cogenerazione ad alto rendimento o "CAR" e "semplici" o "non CAR", estendendo anche a questi ultimi, gli incentivi previsti dall'articolo 11 del decreto legislativo n. 79/1999, in particolare l'esenzione dall'acquisto obbligatorio di Certificati Verdi.  

    A partire dal 1° gennaio 2011, cessato il periodo transitorio, il Gestore dei Servizi Energetici. GSE SpA ha ritenuto il regime di sostegno riservato ai soli impianti ad alto rendimento, conformi all'Allegato III della direttiva 2004/8/CE e non più operante la sua estensione agli impianti "non CAR". La società Burgo Group ha chiesto al GSE l'ammissione al beneficio per i propri impianti "non CAR", per gli anni dal 2011 al 2013 e ciascuna domanda è stata respinta.

    Con la sentenza in oggetto, la Corte di Giustizia si è pronunciata per la compatibilità con il diritto dell'UE e con la norma richiamata, di un regime di sostegno a favore di impianti di cogenerazione di energia non ad alto rendimento, c.d. "non CAR", anche una volta esaurito il regime transitorio previsto dal decreto legislativo di recepimento della direttiva 2004/8/CE.  

    Preliminarmente, la Corte ha assicurato che i regimi di sostegno nazionali non sono disciplinati dall'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva, ma dall'articolo 7 della stessa, il quale non si limita ai soli impianti di cogenerazione ad alto rendimento.

    Pertanto, la Corte osserva che gli Stati membri possono prevedere anche in favore di impianti di cogenerazione "non CAR" regimi di sostegno come l'esonero dall'obbligo di acquisto di certificati verdi.

    Quanto alle ulteriori questioni poste dal giudice del rinvio, vale a dire la continuità del sostegno dopo il 31 dicembre 2010, la sentenza conclude che l'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2004/8 deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che permetta ad impianti di cogenerazione non ad alto rendimento, ai sensi di tale direttiva, di continuare a beneficiare, anche dopo tale data, di un regime di sostegno alla cogenerazione che comporti l'esenzione dall'obbligo di acquistare certificati verdi.

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