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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-28/09

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 11/01/2012

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    Con la sentenza in oggetto, la Corte ha dichiarato incompatibile col principio della libera circolazione delle merci, sancito dagli artt. 34 e 35 TFUE (ex artt 28 e 29 TCE), il divieto di circolazione che l'Austria ha imposto sull'autostrada della valle dell'Inn, nel Tirolo agli autocarri che trasportano determinate merci.

    In particolare, la Corte ritiene che il divieto settoriale di circolazione, adottato dall'Austria senza aver sufficientemente esaminato la possibilità di far ricorso ad altre misure meno restrittive, ha limitato la libera circolazione delle merci in modo sproporzionato.

    Con l'obiettivo di mantenere le emissioni annuali di biossido di azoto (NO2) entro i limiti fissati dalla normativa europea, a partire dal 2003 l'Austria ha introdotto su alcuni tratti dell'autostrada A 12 nella valle dell'Inn, nel Tirolo (Austria) una serie di restrizioni alla circolazione degli autocarri con massa a pieno carico superiore alle 7,5 tonnellate che trasportano determinate merci (rifiuti, pietrame, terra, veicoli a motore, legname in tronchi o cereali). Già nel 2005 (Sentenza 15 novembre 2005, causa C-320/03, Commissione/Austria) la Corte aveva dichiarato tale divieto sproporzionato rispetto all'obiettivo di tutelare la qualità dell'aria e perciò incompatibile con il principio della libera circolazione delle merci. Tuttavia, l'Austria, non rilevando un miglioramento della qualità dell'aria sull'autostrada A 12, aveva reintrodotto tale divieto su un tratto lungo circa 84 km ritenendo che, sul territorio austriaco, gli stessi prodotti interessati dal divieto del 2003 avrebbero dovuti essere trasportati mediante modalità alternative – quale il trasporto ferroviario – più rispettose dell'ambiente. La Commissione ha però deferito l'Austria alla Corte di giustizia chiedendo di pronunciarsi sulla questione.

    Secondo la Corte, un certo potere discrezionale nell'adottare misure atte a contenere il biossido di azoto sul loro territorio non esime gli Stati membri dall'esaminare attentamente la possibilità di far ricorso a misure meno restrittive della libertà di circolazione. Infatti, la presenza di soluzioni alternative per il trasporto di tali prodotti – quali il trasporto ferroviario o l'utilizzo di altre autostrade – non esclude di per sé l'esistenza di una restrizione, dal momento che, costringendo le imprese interessate a cercare soluzioni alternative economicamente valide per il trasporto delle merci di cui trattasi, il divieto settoriale di circolazione su un tratto dell'autostrada che costituisce una via di comunicazione vitale tra alcuni degli Stati membri può incidere in modo determinante sul transito delle merci tra l'Europa settentrionale e il Nord Italia.

  • C-242/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 11/01/2012

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    La sentenza in esame ha per oggetto l'interpretazione degli artt. 11, nn. 2 e 6, e 24, della direttiva 2003/54/CE sul mercato interno dell'energia elettrica sulla base di una richiesta di pronuncia pregiudiziale da parte del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia nell'ambito di una controversia fra l'Enel Produzione SpA (in prosieguo: l'«Enel») e l'Autorità per l'energia elettrica e il gas (in prosieguo: l'«AEEG»).

    Nella causa principale l'Enel contesta l'incongruità del regime degli impianti essenziali - introdotto dal DL 185/2008 e attuato dall'AEEG con delibera n. 52/09 - con la direttiva 2003/54, dal momento che il quantitativo di energia elettrica messo a disposizione del funzionamento dei servizi di dispacciamento essenziali per la sicurezza del sistema elettrico sarebbe sottratto alla regola del libero incontro fra la domanda e l'offerta.

    Sulla base della richiesta del giudice del rinvio, che chiede se l'imposizione dell'obbligo di contrarre non costituisca un'ingerenza sostanziale nella libertà degli operatori economici, tutelata dalla normativa europea, la Corte rileva come gli artt. 3, n. 2, e 11, nn. 2 e 6, della direttiva 2003/54 consentano allo Stato membro interessato di imporre obblighi relativi al servizio pubblico alle imprese proprietarie di impianti di generazione necessari a soddisfare il fabbisogno del servizio di dispacciamento. Secondo la Corte, il regime degli impianti essenziali previsto dal DL 185 persegue un obiettivo di interesse generale, appare adeguato a garantire la sicurezza del sistema e la tutela dei consumatori,  è rispettoso del principio di proporzionalità, e presenta elementi che introducono sufficiente flessibilità nel sistema. Dunque la  Corte non ravvisa nel regime degli impianti essenziali il carattere discriminatorio che gli viene addebitato dall'Enel.

    Per tali motivi, la Corte conclude che la direttiva 2003/54/CE sul mercato interno dell'energia elettrica e, segnatamente, gli artt. 3, n. 2, e 11, nn. 2 e 6, della medesima, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale che, con l'obiettivo di ridurre il prezzo dell'energia elettrica nell'interesse del consumatore finale e della sicurezza della rete elettrica, obblighi gli operatori che dispongono di impianti considerati essenziali per il soddisfacimento dei fabbisogni della domanda di energia elettrica dei servizi di dispacciamento a presentare offerte sui mercati nazionali dell'energia elettrica alle condizioni previamente stabilite dall'autorità di regolamentazione nazionale, purché tale normativa non vada oltre quanto necessario per il raggiungimento dell'obiettivo da essa perseguito. Il giudice del rinvio dovrà pertanto verificare se, nella controversia di cui alla causa principale, ricorra tale condizione.

  • C-454/09

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    Assegnata in data: 22/12/2011

    La sentenza stabilisce che la Repubblica Italiana, non avendo nei termini stabiliti adottato tutti i provvedimenti necessari a recuperare presso i beneficiari l'aiuto per il salvataggio concesso in favore di New Interline SpA (impresa produttrice di poltrone e divani, di seguito «New Interline») sotto forma di garanzia statale pari a 2,75 Milioni di euro, aiuto dichiarato illegittimo e incompatibile con il mercato comune dalla decisione della Commissione 16 aprile 2008 2008/697/CE, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli artt. 249, quarto comma TCE nonché 2 e 3 della suddetta decisione.

    La Corte ribadisce come, in base a una costante giurisprudenza, lo Stato membro destinatario di una decisione di recupero di aiuti di Stato è tenuto al rispetto del principio di effettività in forza del quale deve garantire che le procedure nazionali adottate consentano un recupero effettivo ed immediato, rispettoso dei tempi stabiliti dalla Commissione.

    Ai sensi della consolidata giurisprudenza in materia, inoltre, la Corte ritiene che i motivi addotti dal Governo italiano per giustificare il mancato recupero degli aiuti illegittimamente concessi – ossia che l'avvio di una procedura fallimentare ostava a qualsiasi azione dei creditori della New Interline diretta al recupero dei loro crediti – non siano tali da impedire di dare esecuzione alla decisione 2008/697/CE, dal momento che il ripristino della situazione anteriore e l'eliminazione della distorsione della concorrenza risultante dagli aiuti illegittimamente erogati possono essere conseguiti, in linea di principio, con l'iscrizione al passivo fallimentare del credito relativo alla restituzione degli aiuti in questione.

    La Corte osserva come invece le procedure attivate dall'Italia non abbiano consentito il recupero entro il termine di quattro mesi fissato al 18 agosto 2008 dall'art. 3, n. 2, della decisione 2008/697/CE citando, ad esempio, come la richiesta da parte dell'Italia d'iscrizione al passivo della New Interline del credito relativo al recupero dell'aiuto in questione sia avvenuta solo il 31 ottobre 2008.

    Sempre riferendosi alla giurisprudenza consolidata, la Corte precisa infine che l'iscrizione nell'elenco dei crediti di quello relativo alla restituzione degli aiuti in questione consente di porsi in regola con l'obbligo di recupero solo qualora, nel caso in cui le autorità statali non possano recuperare integralmente l'importo degli aiuti, la procedura concorsuale giunga alla liquidazione dell'impresa, ossia alla cessazione definitiva della sua attività, che le autorità statali possono provocare in qualità di azionisti o creditori. Nell'avviso della Corte, dalle spiegazioni fornite dalla Repubblica italiana in udienza, rimane incerto se la New Interline abbia continuato le sue attività dopo l'apertura della procedura di concordato preventivo e, in particolare, dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 3, n. 2, della decisione 2008/697.

  • C-427/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 22/12/2011

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    La sentenza verte sull'interpretazione dei principi di neutralità fiscale, di effettività e di non discriminazione relativamente all'imposta sul valore aggiunto. La controversia principale vede opposta la Banca Antoniana Popolare Veneta SpA (BAPV) al Ministero dell'Economia e delle Finanze e all'Agenzia delle Entrate (amministrazione finanziaria) e ha ad oggetto il rifiuto da parte di quest'ultima di rimborsare alla BAPV l'IVA non dovuta che aveva gravato sulle prestazioni di riscossione di contributi consortili da essa effettuate. La BAPV, in precedenza, era stata costretta a rimborsare l'IVA non dovuta ai consorzi di bonifica in favore dei quali aveva prestato il servizio di riscossione.

    Nella sentenza la Corte stabilisce che il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale in materia di ripetizione dell'indebito che prevede un termine di prescrizione per l'azione civilistica di ripetizione dell'indebito, esercitata dal committente di servizi nei confronti del prestatore di detti servizi, soggetto passivo dell'imposta sul valore aggiunto, più lungo rispetto al termine di decadenza previsto per l'azione di rimborso di diritto tributario, esercitata da detto prestatore nei confronti dell'amministrazione finanziaria, purché tale soggetto passivo possa effettivamente reclamare il rimborso dell'imposta nei confronti della stessa amministrazione. Tuttavia, quest'ultima condizione non è soddisfatta dalla normativa italiana, in quanto essa priva completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall'amministrazione finanziaria il rimborso dell'imposta sul valore aggiunto non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al committente dei suoi servizi.

    Ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Disposizioni sul processo tributario) “il ricorso deve essere proposto a pena di inammissibilità entro sessanta giorni dalla data di notificazione dell'atto impugnato. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.

    In materia di ripetizione dell'indebito, invece, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2033 e 2946 del codice civile, “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”, e “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni” dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.

  • C-496/09

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 05/12/2011

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO)

    La Corte ha condannato l'Italia per non aver adottato tutti i provvedimenti volti a dare esecuzione alla sentenza 1° aprile 2004, causa C. 99/02 (Commissione/Italia), avente ad oggetto il recupero presso i beneficiari degli aiuti che, ai sensi della decisione della Commissione 11 maggio 1999, 2000/128/CE relativa al regime di aiuti concessi dall'Italia per interventi a favore dell'occupazione, sono stati giudicati illegali e incompatibili con il mercato comune.

    La disciplina italiana - già contestata nel 1999 dalla Commissione europea e nel 2004 dichiarata dalla Corte di giustizia incompatibile con le norme europee in materia di concorrenza – concerneva la possibilità di erogare sgravi contributivi per i contratti di formazione e lavoro concernenti lavoratori con età inferiore ai ventinove anni.

    La sentenza ricorda che, alla luce degli obiettivi del procedimento previsto dall'art. 228, n. 2, CE, la Corte è legittimata, nell'esercizio del potere discrezionale che le è attribuito nel quadro di tale articolo, ad imporre, cumulativamente, una penalità ed una somma forfettaria. Per quanto riguarda la penalità la Corte sottolinea che essa deve essere da una parte, adeguata alle circostanze e, dall'altra, commisurata all'inadempimento accertato nonché alla capacità finanziaria dello Stato membro interessato. L'imposizione di una somma forfettaria deve, in ogni caso di specie, rimanere l'espressione dell'insieme degli elementi pertinenti che si riferiscono sia alle caratteristiche dell'inadempimento accertato sia al comportamento proprio dello Stato membro interessato dal procedimento iniziato sul fondamento dell'art. 228 CE. In tale quadro l'Italia è condannata a versare alla Commissione europea - oltre che una somma forfettaria di 30 milioni di euro - una penalità di importo corrispondente alla moltiplicazione dell'importo di base di EUR 30 milioni per la percentuale degli aiuti illegali incompatibili il cui recupero non è ancora stato effettuato o non è stato dimostrato al termine del periodo di cui trattasi, calcolata rispetto alla totalità degli importi non ancora recuperati alla data della pronuncia, per ogni semestre di ritardo nell'attuazione dei provvedimenti necessari per conformarsi alla precedente sentenza del 2004.

    n.b: In materia di aiuti di Stato, si richiama la sentenza del 24 novembre (C-458/09), assegnata lo scorso 5 dicembre alla Commissione finanze, con cui la Corte di giustizia ha rigettato l'impugnazione proposta dall'Italia avverso la sentenza del Tribunale di primo grado del 4 settembre 2009 (causa T‑211/05) in materia di aiuti di Stato a favore di società quotate in borsa.

  • C-458/09 P

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 05/12/2011

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    La sentenza oggetto di impugnazione ha respinto il ricorso dell'Italia diretto all'annullamento della decisione 16 marzo 2005, 2006/261/CE, con cui la Commissione ha dichiarato incompatibile con il mercato comune il regime di aiuti a favore di società recentemente quotate in Borsa, instaurato - senza previa notifica alla Commissione - dagli artt. 1, comma 1, lett. d), e 11 del decreto-legge n. 269 del 2003.

    Tali disposizioni prevedono, rispettivamente, l'esclusione dall'imposizione sul reddito d'impresa dell'ammontare delle spese sostenute per la quotazione in un mercato regolamentato, in aggiunta all'ordinaria deduzione e - per le società le cui azioni sono ammesse alla quotazione in un mercato regolamentato successivamente all'entrata in vigore del decreto-legge e fino al 31 dicembre 2004 - la riduzione dell'aliquota dell'imposta sul reddito al 20 per cento per il periodo d'imposta nel corso del quale è stata disposta l'ammissione alla quotazione e per i due periodi d'imposta successivi.

    Secondo la richiamata decisione della Commissione, il regime di aiuti deroga al normale funzionamento del sistema tributario e, favorendo alcune imprese, offre evidenti vantaggi selettivi.

    Con riferimento a tale ultimo profilo, la Corte conferma la valutazione del Tribunale secondo cui la limitazione nel tempo delle agevolazioni comporta la loro selettività, poiché di fatto determina l'esclusione di numerosi beneficiari potenziali. La Corte, inoltre, richiamando la sua precedente giurisprudenza, conferma la qualificazione degli aiuti in questione come "aiuti al funzionamento" dell'impresa, rigettando il motivo proposto nel ricorso dell'Italia secondo cui essi mirerebbero non già a sostenere la gestione corrente dell'impresa, bensì a rafforzare in maniera stabile la situazione patrimoniale delle società e a promuoverne l'aumento delle dimensioni.

    In materia di recupero di aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, si segnala la condanna dell'Italia (C. 496/09) per non aver dato esecuzione alla sentenza resa nella causa C. 99/02 (aiuti all'occupazione sotto forma di contratti di formazione lavoro). La sentenza è assegnata alla Commissione lavoro.

  • C-396/09

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 05/12/2011

    La sentenza ha ad oggetto l'interpretazione del regolamento (CE) del Consiglio 29 maggio 2000, n. 1346, relativo alle procedure d'insolvenza (con riferimento in particolare alle nozioni di “centro degli interessi principali“ del debitore e di "dipendenza" previste dall'articolo 3 ai fini dell'individuazione del giudice competente) nonché la compatibilità con il diritto dell'Unione dell'art. 382 c.p.c., in materia di decisione delle questioni di giurisdizione e di competenza.

    L'art. 382 c.p.c. dispone che la Corte di Cassazione, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa, determinando, quando occorre, il giudice competente. Secondo giurisprudenza consolidata, tale statuizione è definitiva e vincolante per il giudice investito del merito della causa.

    Nella fattispecie oggetto della controversia principale il convenuto aveva contestato la giurisdizione del giudice italiano adito attraverso azione di fallimento in quanto riteneva erronea l'interpretazione che la Corte di Cassazione aveva dato del citato regolamento in sede di risoluzione della questione di giurisdizione.

    La Corte di giustizia ha previamente dichiarato che il diritto dell'Unione osta a che un giudice nazionale sia vincolato da una norma di procedura nazionale ai sensi della quale egli deve attenersi alle valutazioni svolte da un giudice nazionale di grado superiore, qualora risulti che le valutazioni svolte dal giudice di grado superiore non sono conformi al diritto dell'Unione, come interpretato dalla Corte.

    La Corte - chiarendo che la nozione di "centro degli interessi principali" del debitore deve essere interpretata con riferimento al diritto dell'Unione - ha definito la medesima privilegiando il criterio del luogo dell'amministrazione principale della società debitrice, come determinabile sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi. La Corte inoltre - con riferimento alla presunzione di cui all'art. 3, par. 1, del Reg. (secondo la quale, per le società e le persone giuridiche, si presume che il "centro degli interessi principali" sia il luogo in cui si trova la sede statutaria): da un lato, ha escluso che tale presunzione sia superabile nel caso in cui gli organi direttivi e di controllo della società si trovino presso la sua sede statutaria e qualora le decisioni di gestione di tale società siano assunte, in maniera riconoscibile dai terzi, in tale luogo; dall'altro ha stabilito i limiti entro cui la presunzione è superabile nel caso in cui il luogo dell'amministrazione principale di una società non si trovi presso la sua sede statutaria. Con riferimento, poi, alla nozione di "dipendenza", la Corte ha infine chiarito che deve intendersi la presenza di una struttura implicante un minimo di organizzazione e una certa stabilità ai fini dell'esercizio di un'attività economica.

  • C-379/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 05/12/2011

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA)

    In relazione a danni cagionati a singoli derivanti da violazioni del diritto dell'Unione effettuate da organi giurisdizionali di ultimo grado, la Corte ha censurato la normativa italiana in materia di responsabilità civile dei magistrati (art. 2, legge n. 117 del 1988), sotto i due profili:

    - da un lato, dell'esclusione della responsabilità dello Stato qualora la violazione del diritto dell'Unione derivi da un'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuata da un siffatto organo;

    - dall'altro, in generale, della limitazione della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo o colpa grave dei giudici.

    La Corte ha pertanto condannato la Repubblica italiana alle spese.

    n.b.: l'art. 2 della legge n. 117 del 1988 era già stato ritenuto incompatibile con il diritto comunitario per i due profili indicati nella sentenza resa in via pregiudiziale nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo).

  • C-302/09

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 05/12/2011

    La sentenza stabilisce che la Repubblica Italiana, non avendo adottato, nei termini stabiliti, tutte le misure necessarie a recuperare presso i beneficiari gli aiuti concessi in base al regime di aiuti dichiarato illegittimo e incompatibile con il mercato comune dalla decisione della Commissione 25 novembre 1999, 2000/394/CE, relativa alle misure di aiuto in favore delle imprese nei territori di Venezia e di Chioggia previste dalle leggi n. 30/1997 e n. 206/1995, recanti sgravi degli oneri sociali, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art. 5 di detta decisione.

    In particolare la Corte ritiene che i motivi addotti dal Governo italiano per giustificare il mancato recupero degli aiuti illegittimamente concessi - ossia l'esistenza di un contenzioso in corso presso le autorità giudiziarie nazionali e le difficoltà collegate alla necessità di individuare le imprese obbligate a restituire detti aiuti - non costituissero un'impossibilità assoluta di dare esecuzione alla decisione 2000/394/CE, ai sensi della consolidata giurisprudenza in materia.

    La Corte, inoltre, osserva che, nel corso della procedura di recupero degli aiuti illegittimi, il legislatore italiano aveva intrapreso un'azione seria al fine di garantire l'efficacia di tale recupero, adottando il d.l. n. 59/2008, volto a risolvere il problema procedurale causato dalla sospensione dell'esecuzione degli ordini di recupero degli aiuti, disposta dai giudici nazionali; questa misura tuttavia, entrata in vigore dopo la scadenza dei termini stabiliti per procedere al recupero degli aiuti illegittimi, si è rivelata inefficace dato che, parecchi anni dopo la notifica della decisione 2000/394, una parte rilevante di detti aiuti non era stata recuperata. La Corte rileva quindi in termini generali che le iniziative legislative destinate a garantire l'esecuzione, da parte dei giudici nazionali, di una decisione della Commissione che obbliga uno Stato membro a recuperare un aiuto illegittimo, le quali vengano adottate in ritardo e risultino inefficaci, non soddisfano i principi che derivano dalla giurisprudenza, in particolare il principio secondo cui lo Stato membro è tenuto ad adottare ogni misura idonea ad assicurare l'effettivo recupero delle somme dovute e il principio per il quale un recupero tardivo , successivo ai termini stabilito, non può soddisfare le prescrizioni del Trattato.

    n.b.: In materia di aiuti di Stato, si richiama la sentenza del 24 novembre (C-458/09), assegnata lo scorso 5 dicembre alla Commissione finanze, con cui la Corte di giustizia ha rigettato l'impugnazione proposta dall'Italia avverso la sentenza del Tribunale di primo grado del 4 settembre 2009 (causa T‑211/05) in materia di aiuti di Stato a favore di società quotate in borsa.

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