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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • T-99/09 e T-308/09

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 23/05/2013

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Il Tribunale si pronuncia sul ricorso proposto dalla Repubblica italiana per l'annullamento di alcune decisioni della Commissione europea che dichiaravano inammissibili le domande di pagamenti intermedi delle autorità italiane per ottenere il rimborso delle spese effettuate in relazione alla misura 1.7 del programma operativo (POR) "Campania".

    Nel quadro del sostegno per gli interventi strutturali dell'Unione nelle regioni interessate dall'obiettivo 1 in Italia, la Commissione, nel 2000, ha approvato il programma operativo Campania («PO Campania»), per spese effettuate fra il 5 ottobre 1999 e il 31 dicembre 2008, termine successivamente prorogato al 30 giugno 2009. La misura 1.7 contenuta nel programma concerneva svariate operazioni relative al sistema regionale di gestione e di smaltimento dei rifiuti (realizzazione di impianti di compostaggio, di discariche per lo smaltimento del rifiuto residuale rispetto alla raccolta differenziata, attivazione di Ambiti Territoriali Ottimali e dei relativi piani di gestione e di trattamento dei rifiuti, sostegno ai Comuni associati per la gestione del sistema di raccolta differenziata dei rifiuti urbani, aiuto alle imprese per l'adeguamento degli impianti destinati al recupero di materia derivata dai rifiuti, attività di coordinamento, logistica e supporto alle imprese di raccolta e recupero di rifiuti provenienti da particolari categorie produttive, costituzione di un catasto-osservatorio con funzione di sistema di monitoraggio quali-quantitativo dei rifiuti). Le azioni effettuate in attuazione alla misura 1.7, destinate al miglioramento del sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti, sono state pari a EUR 93.268.731,59, di cui 50% –EUR 46.634.365,80 – a carico dei Fondi strutturali (FESR).

    In materia di gestione e smaltimento dei rifiuti in Campania, la Commissione aveva avviato nel 2007 una procedura d'infrazione nei confronti dell'Italia (n.2007/2195), addebitandole di non aver garantito che i rifiuti fossero smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza recare pregiudizio all'ambiente e quindi di non aver creato una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento, in violazione della direttiva sui rifiuti (2006/12/CE). Nel 2010, la Corte di giustizia aveva accolto il ricorso presentato dalla Commissione ex articolo 226 CE, constatando l'inadempimento dell'Italia (C-297/08).

    Con lettera del 31 marzo 2008, la Commissione ha informato le autorità italiane che, essendo in corso una specifica procedura di infrazione in materia, non avrebbe provvisoriamente dato luogo ai pagamenti intermedi relativi ai rimborsi delle spese relative alla misura 1.7 del POR Campania sulla base dell'articolo 32, paragrafo 3, primo comma, lettera f), del regolamento n. 1260/99. Tale ultima disposizione stabilisce che i pagamenti del FESR sono subordinati, tra l'altro, all'assenza di procedure di infrazione in corso. Nella successiva corrispondenza, la Commissione ha chiarito che la data dalla quale avrebbe considerato inammissibili le spese relative alla misura 1.7 sarebbe stata il 29 giugno 2007, data di notifica all'Italia della decisione di avviare la procedura d'infrazione. La Commissione, con successive lettere del 2 e del 6 febbraio e del 20 maggio 2009, ha quindi dichiarato l'inammissibilità di alcune domande di pagamento intermedio presentate dalle autorità italiane.

    Con due successivi ricorsi, l'Italia ha chiesto al tribunale di annullare le suddette decisioni della Commissione, contestando in particolare la presunta violazione del sopra richiamato articolo 32, par. 3, primo comma, lett. f), del regolamento 1260/1999.

    Con il primo motivo l'Italia lamenta la mancata coincidenza tra il contenuto della misura 1.7 e l'oggetto specifico della procedura di infrazione. Occorrerebbe, infatti, distinguere tra la nozione di misura, strumento di portata generale e che può essere oggetto di una procedura di infrazione, e la nozione di operazione che consiste invece nelle specifiche azioni di attuazione della misura cui si riferisce e che, nella fattispecie, è oggetto dei pagamenti intermedi sospesi dalla Commissione. L'Italia sostiene inoltre che, mentre la procedura di infrazione si riferiva alla situazione dello smaltimento finale dei rifiuti in Campania, che non potevano essere correttamente smaltiti o riciclati per la mancanza di strutture adeguate, altre fasi della filiera e altre modalità di gestione dei rifiuti (come la fase del recupero e della raccolta differenziata, oggetto della misura 1.7) sarebbero state estranee all'oggetto della procedura e, in sede di replica, precisa che la presunta coincidenza tra l'oggetto della procedura d'infrazione e quello delle domande di pagamento riguarderebbe, a tutto concedere, il recupero, ma non la raccolta differenziata, dei rifiuti che è l'oggetto principale della misura 1.7, sicché gli atti impugnati sarebbero quantomeno «eccessivi», poiché hanno dichiarato integralmente inammissibili le domande di pagamento fondate su detta misura.

    Il Tribunale ritiene infondati i motivi relativi ad una pretesa violazione dell'articolo 32, par. 3, primo comma, lett. f), del regolamento 1260/1999.

    Secondo il Tribunale, al contenuto della "misura" 1.7 va attribuita una portata generale e più ampia rispetto alla nozione di "operazione", poiché si riferisce a diversi interventi e operazioni diretti a raggiungere taluni obiettivi o sotto-obiettivi nell'ambito della realizzazione di un sistema di gestione dei rifiuti in Campania. Sulla base dell'interpretazione letterale, del contesto regolamentare, dell'obiettivo e della genesi dell'articolo 32, par. 3, primo comma, lett. f), del regolamento 1260/1999 e delle altre disposizioni rilevanti, il Tribunale chiarisce che, per giustificare la dichiarazione di inammissibilità di pagamenti intermedi riguardo a una procedura d'infrazione in corso, la Commissione deve dimostrarei che l'oggetto di tale procedura presenta un collegamento sufficientemente diretto con la «misura» cui si riferiscono le «operazioni» di cui alle domande di pagamento in questione. Nel caso di specie, il Tribunale ritiene sussistente tale collegamento, posto che: da un lato, risulta chiaramente che la procedura di infrazione riguardava l'intero sistema di gestione e smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, inclusi quindi il recupero o raccolta e l'inefficacia della raccolta differenziata; dall'altro, gli interventi facenti parte della misura 1.7 si riferivano anche alla creazione di un sistema di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e alla realizzazione di discariche per lo smaltimento dei rifiuti, come fase finale della raccolta differenziata medesima.

    Il Tribunale, ritenendo infondati anche gli ulteriori motivi del ricorso (relativi al difetto di motivazione e ad ulteriori vizi delle decisioni della Commissione) respinge i ricorsi dell'Italia e condanna quest'ultima al pagamento delle spese.

  • C-290/12

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    Assegnata in data: 23/05/2013

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con rinvio pregiudiziale, il Tribunale di Napoli chiede alla Corte di giustizia di pronunciarsi sull'ambito di applicazione dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, in materia di contratti di lavoro a tempo determinato.

    La controversia principale verteva sul rapporto instauratosi tra una società di fornitura di lavoro temporaneo e Poste Italiane Spa, presso la quale il lavoratore interessato aveva svolto il lavoro di portalettere sulla base di un contratto, rinnovato due volte, di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Il lavoratore interessato - ritenendo il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato irregolare, in quanto motivato da ragioni generiche e insussistenti, ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo n. 276/2003 - chiedeva l'accertamento che il suo rapporto di lavoro con la Poste Italiane configurasse un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ai sensi dell'articolo 27 del medesimo decreto legislativo.

    L'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE si applica ai lavoratori a tempo determinato, ad eccezione di quelli messi a disposizione di un'azienda utilizzatrice da parte di un'agenzia di lavoro interinale, per i quali si rinvia ad un successivo analogo accordo. In assenza di tale ultimo accordo, sulla specificità del rapporto di lavoro interinale è intervenuta la direttiva 2008/104/CE, non applicabile al procedimento in oggetto in quanto instaurato precedentemente. La clausola 5 dell'accordo quadro, al fine di prevenire l'abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato, rinvia agli Stati membri l'adozione di misure specifiche, quali la sussistenza di ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti, la durata massima totale dei contratti a tempo determinato, il numero massimo di rinnovi successivi.

    Il decreto legislativo n. 368/2001, di attuazione della direttiva 1999/70/CE, prevede tassativamente sia i casi in cui è consentito apporre un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato sia i casi in cui ne è consentita la proroga. In caso di violazione di tali disposizioni, il rapporto di lavoro si considera indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.

    Il successivo decreto legislativo n. 276/2003, con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato concluso con un'agenzia di lavoro interinale, derogando rispetto al decreto legislativo n. 368/2001, prevede che a tali contratti possa essere apposto un termine e che essi possano essere prorogati senza giustificazione. Più in particolare, il decreto definisce il contratto di somministrazione di lavoro come un contratto avente ad oggetto la fornitura professionale di manodopera, a tempo indeterminato o a termine, nell'ambito del quale i lavoratori svolgono la loro attività nell'interesse e sotto la direzione di un soggetto utilizzatore. Pertanto, esso consiste in un contratto tra il somministratore e l'utilizzatore, con cui il primo, a pagamento, fornisce al secondo manodopera da esso impiegata. Il contratto di somministrazione è poi accompagnato da un contratto di lavoro concluso tra il somministratore e il lavoratore. A tale contratto può essere apposto un termine se il contratto di somministrazione di lavoro è anch'esso concluso a termine. Inoltre il contratto di somministrazione deve essere giustificato da esigenze tecniche, organizzative o produttive. Il decreto infine prevede sanzioni in caso di violazione dei limiti e delle condizioni previste per il contratto di somministrazione, tra cui la possibilità per il lavoratore di chiedere, mediante ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore, con effetto dall'inizio della somministrazione (art. 27).

    Il Tribunale di Napoli pone alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: 1) se la direttiva 1999/70/CE si applichi al rapporto di lavoro a termine tra lavoratore somministrato e agenzia di lavoro interinale ovvero al rapporto di lavoro a termine tra il lavoratore somministrato e il soggetto utilizzatore; 2) se la possibilità di apporre un termine o di reiterare il contratto di lavoro con l'agenzia di lavoro interinale, giustificata sulla base di esigenze generali del somministrato, slegate dallo specifico rapporto di lavoro, sia conforme alla sopra richiamata clausola 5 dell'accordo quadro; 3) se l'applicazione della medesima clausola 5 impedisca che le conseguenze dell'abuso siano poste a carico del soggetto utilizzatore.

    Con riferimento alla prima questione (applicazione della direttiva 1999/70/CE e dell'accordo quadro), la Corte afferma che l'accordo quadro, esclude la sua applicabilità ai lavoratori a tempo determinato messi a disposizione di un'azienda utilizzatrice da parte di un'agenzia di lavoro interinale. Tale esclusione riguarda infatti tutti i casi di rapporto di lavoro interinale. La Corte aggiunge che, sebbene il preambolo di un atto dell'UE non abbia valore giuridico vincolante, nella specie tale esclusione, esplicitamente affermata nel preambolo, trova riscontro anche nella clausola 3, punto 1, dell'accordo, secondo la quale soltanto il rapporto di lavoro concluso «direttamente» con il datore di lavoro rientra nell'ambito di tale accordo quadro.

    Alla luce di tali considerazioni, la Corte di giustizia dichiara che la direttiva 1999/70/CE del Consiglio sul lavoro a tempo determinato, e l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato a tale direttiva, devono essere interpretati nel senso che non si applicano né al rapporto di lavoro a tempo determinato tra un lavoratore interinale e un'agenzia di lavoro interinale né al rapporto di lavoro a tempo determinato tra tale lavoratore e un'impresa utilizzatrice.

    Alla luce di tale risposta, la Corte ritiene che non occorra rispondere alla seconda e alla terza questione.

  • C-274/11 e C-295/11

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    Assegnata in data: 23/05/2013

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con la sentenza in oggetto la Corte ha respinto ricorsi in oggetto il Regno di Spagna e la Repubblica italiana volti ad ottenere l'annullamento della decisione 2011/167/UE del Consiglio che ha autorizzato una cooperazione rafforzata per l'istituzione di una tutela brevettuale unitaria a livello UE.

    La cooperazione rafforzata è una procedura istituzionale prevista dal Trattato di Lisbona che consente ad almeno 9 Stati membri di progredire secondo ritmi e/o obiettivi diversi qualora determinati obiettivi non possano essere conseguiti entro un termine ragionevole dall'UE nel suo insieme. Con la citata decisione 2011/167/UE il Consiglio ha autorizzato la cooperazione rafforzata per la creazione di un brevetto unico europeo; alla cooperazione rafforzata hanno aderito tutti gli Stati membri dell'UE, ad eccezione di Italia e Spagna che si sono opposte al regime linguistico proposto per il futuro brevetto unico basato sull'utilizzo di inglese, francese o tedesco (lingue ufficiali dell'Ufficio europeo dei brevetti), considerandolo in palese violazione del principio di parità linguistica stabilito dai Trattati. In attuazione della decisione sopra richiamata, il 17 dicembre 2012 sono stati adottati i regolamenti (UE) n. 1257/2012 e n. 1260/2012; dopo la loro entrata in vigore, il 1° gennaio 2014, il brevetto unico europeo sarà valido per i 25 Stati che hanno aderito alla cooperazione rafforzata, mentre Italia e Spagna potranno aderire successivamente in qualsiasi momento.

    Nel ricorso del Governo italiano, presentato il 31 maggio 2011, si chiedeva l'annullamento della decisione impugnata per i seguenti motivi (analoghi motivi di annullamento sono addotti nel ricorso del Governo spagnolo):

    • incompetenza del Consiglio ad instaurare la cooperazione rafforzata. Ad avviso dell'Italia la creazione di titoli europei al fine di garantire una protezione uniforme dei diritti di proprietà intellettuale rientrerebbe nell'ambito delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, materia di competenze esclusiva per la quale, ai sensi dell'articolo 20, paragrafo 1, comma 1, del Trattato sull'Unione europea (TUE), il ricorso alla cooperazione rafforzata non è consentito.

    Nella sentenza in esame la Corte statuisce invece che che la la competenza a creare titoli europei di proprietà intellettuale e a stabilire i relativi regimi linguistici, di cui all'articolo 118, paragrafo 1, del TFUE, si iscrive nell'ambito dell'instaurazione o del funzionamento del mercato interno, settore di competenza concorrente. Le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno sono invece quelle stabilite agli articoli 101-109 del TFUE (relativi alle intese, all'abuso di posizione dominante ed agli aiuti di Stato);

    • sviamento di potere. Ad avviso del Governo italiano, il vero obiettivo della cooperazione rafforzata non sarebbe di contribuire al processo d'integrazione (articolo 20, paragrafo 1, del TUE), ma di eliminare l'opposizione di Italia e Spagna alla proposta della Commissione sul regime linguistico del brevetto unitario escludendoli da un negoziato difficile, e di eludere il requisito dell'unanimità previsto dall'articolo 118 del TFUE. Secondo il Governo italiano il ricorso alla cooperazione rafforzata sarebbe giustificabile solo nel caso in cui uno o più Stati membri non siano pronti a partecipare ad un'azione legislativa dell'Unione nel suo insieme. Inoltre, la tutela conferita da un brevetto unitario applicabile, in virtù della cooperazione rafforzata, solo ad alcuni Stati membri dell'UE, non configurerebbe soltanto una palese violazione dell'articolo 118 del TFUE in base al quale la creazione di titoli europei per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale deve essere mirata a garantire una protezione uniforme in tutta l'Unione, ma non apporterebbe neanche benefici in termini di uniformità, e dunque di integrazione, rispetto alla situazione derivante dall'attuazione delle norme previste dalla Convenzione sul brevetto europeo (CBE) del 1973.

    La Corte respinge le argomentazioni dell'Italia, sostenendo che:

    - la decisione del Consiglio di autorizzare una cooperazione rafforzata dopo aver constatato che il brevetto unitario ed il suo regime linguistico non potevano essere instaurati entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme, non costituisce un'elusione del requisito dell'unanimità o un'esclusione di Italia e Spagna, ma contribuisce al processo di integrazione; gli articoli 20 del TUE e 326-334 del TFUE non limitano infatti la facoltà di ricorrere alla cooperazione rafforzata al solo caso in cui uno o più Stati membri non siano ancora pronti a partecipare ad un'azione legislativa dell'UE nel suo insieme, ma estende tale facoltà anche al caso in cui per diversi motivi (mancanza di interesse di uno o più Stati membri o incapacità degli stessi di pervenire ad un accordo) sia impossibile istituire un regime comune per l'insieme dell'Unione entro un termine ragionevole;

    - nulla vieta agli Stati membri di instaurare tra loro una cooperazione rafforzata nell'ambito delle competenze dell'Unione che devono essere esercitate all'unanimità. Al contrario, dall'articolo 333, paragrafo 1, del TFUE, si evince che, a condizione che siano rispettati i requisiti stabiliti nei Trattati, tali competenze si prestano a una cooperazione rafforzata e che in tal caso l'unanimità sarà costituita dai voti dei soli Stati membri partecipanti;

    - a differenza dei brevetti europei rilasciati conformemente alle norme della CBE, che conferiscono esclusivamente una protezione e livello nazionale negli Stati membri aderenti alla convenzione stessa, il brevetto unitario consentirebbe una protezione uniforme in tutti gli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata;

    - il fatto che il futuro brevetto unico europeo sarà in vigore unicamente sul territorio degli Stati membri partecipanti non costituisce ad avviso della Corte una violazione dell'articolo 118 del TFUE, ma deriva necessariamente dall'articolo 20, paragrafo 4, del TUE, secondo il quale gli atti adottati nel quadro di una cooperazione rafforzata vincolano solo gli Stati membri partecipanti;

    • violazione del principio, stabilito all'articolo 20, paragrafo 2, del TUE, in base al quale la cooperazione rafforzata deve essere autorizzata dal Consiglio in ultima istanza, qualora gli obiettivi che essa intende perseguire non possano essere conseguiti entro un termine ragionevole dall'UE nel suo insieme. Ad avviso del Governo italiano il pacchetto legislativo sul brevetto unitario sarebbe stato incompleto e i negoziati dedicati al regime linguistico sarebbero stati brevi e poco approfonditi; inoltre, sia alla data in cui la Commissione ha presentato la proposta di autorizzazione della cooperazione rafforzata sia alla data di adozione della pertinente decisione da parte del Consiglio, sarebbero esistite ancora effettive probabilità di giungere ad un compromesso all'unanimità. La decisione impugnata sarebbe altresì viziata da una carenza di istruttoria e da un difetto di motivazione, in quanto si sofferma in maniera eccessivamente succinta sui motivi per i quali il Consiglio ritiene soddisfatti i presupposti stabiliti dai Trattati UE e TFUE in materia di cooperazione rafforzata.

    La Corte sottolinea che il riferimento all'"ultima istanza" va inteso nel senso che il ricorso alla cooperazione rafforzata è possibile solamente nel caso in cui, in seguito ad una valutazione del Consiglio, non si possa adottare una determinata normativa in tempi certi. Nel caso in esame, secondo la sentenza:

    - il Consiglio ha verificato con cura e imparzialità la sussistenza del presupposto dell'"ultima istanza", tenuto conto del lungo ed infruttuoso iter delle proposte relative all'istituzione del brevetto unico europeo iniziato nel 2000; inoltre, in seno al Consiglio è stato discusso tra tutti gli Stati membri un numero considerevole di regimi linguistici differenti per il brevetto unitario, nessuno dei quali ha ottenuto un sostegno che consentisse l'adozione dell'intero pacchetto;

    - né l'Italia né la Spagna hanno fornito elementi concreti atti a smentire l'affermazione del Consiglio secondo cui, al momento della richiesta di autorizzazione della cooperazione rafforzata e dell'adozione della relativa decisione da parte del Consiglio, persisteva la mancanza di sostegno sufficiente a qualunque regime linguistico proposto o ipotizzabile;

    - la decisione impugnata, in coerenza con una giurisprudenza costante secondo cui l'adozione dell'atto può essere motivata in modo sommario qualora essa si inserisca in un contesto ben noto agli interessati, non è viziata da un difetto di motivazione che possa giustificarne l'annullamento, tenuto conto della partecipazione di Italia e Spagna ai negoziati e della dettagliata ricostruzione, nella proposta di autorizzazione della cooperazione rafforzata, dell'iter infruttuoso precedente a tale decisione;

    • violazione dell'articolo 326, paragrafo 2, del TFUE, in quanto la cooperazione rafforzata relativa al brevetto unitario arrecherebbe pregiudizio al mercato interno, alla coesione economica, sociale e territoriale, costituirebbe un ostacolo e una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri e provocherebbe distorsioni di concorrenza tra questi ultimi. Ad avviso del Governo italiano, infatti, una protezione uniforme dell'innovazione valida solo per alcuni Stati membri dell'UE: 1) favorirebbe un assorbimento dell'attività relativa ai prodotti innovativi in tale parte dell'Unione, a scapito degli Stati membri non partecipanti; 2) determinerebbe una distorsione della concorrenza e una discriminazione tra le imprese, a causa del fatto che, in base al regime linguistico previsto, gli scambi di prodotti innovativi sarebbero agevolati per le imprese che lavorano in tedesco, in inglese o in francese; 3) ridurrebbe la mobilità dei ricercatori originari di Stati membri che non partecipano a tale cooperazione o di Stati membri la cui lingua ufficiale non è il tedesco, l'inglese o il francese; 4) pregiudicherebbe la coesione economica, sociale e territoriale dell'Unione in quanto impedirebbe lo sviluppo coerente della politica industriale e aumenterebbe le differenze tra gli Stati membri dal punto di vista tecnologico.

    Con riferimento a tali argomenti, la Corte conclude che la decisione di istituire un brevetto unitario applicabile esclusivamente negli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata:

    - non comporta necessariamente un pregiudizio al mercato interno o alla coesione economica, sociale e territoriale dell'Unione;

    - al fine di dimostrare l'esistenza di un simile pregiudizio, non si può invocare il regime linguistico proposto per il futuro brevetto unico la cui compatibilità con il diritto dell'UE non può essere valutata nell'ambito dei ricorsi in esame in quanto esso non rappresenta un elemento costitutivo della decisione impugnata bensì una mera proposta della Commissione integrata da elementi di compromesso proposti dall'allora Presidenza ungherese del Consiglio dell'Unione al momento delle richieste di cooperazione rafforzata.

    Va al riguardo ricordato che il regime linguistico per il rilascio del brevetto unico è stato disciplinato dal richiamato regolamento (UE) n. 1260/2012 (uno dei due regolamenti attuativi della cooperazione rafforzata avviata con la decisione in questione), che è stato oggetto di una distinta impugnazione da parte della sola Spagna e non anche del Governo italiano.

    Alla luce di tutte le suddette considerazioni, la Corte dispone che il ricorso venga respinto e condanna la Repubblica italiana alle spese.

  • C-613/11

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    Assegnata in data: 08/05/2013

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con il ricorso per inadempimento ai sensi dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE) in oggetto, la Commissione chiede alla Corte di giustizia di constatare la violazione da parte della Repubblica italiana della normativa UE in materia di aiuti di Stato per non aver adottato, entro i termini stabiliti, i provvedimenti intesi a recuperare l'aiuto a favore del settore della navigazione in Sardegna, dichiarato illegittimo ed incompatibile con il mercato comune dalla decisione 2008/92/CE del 10 luglio 2007.

    La decisione n. 2008/92/CE stabilisce all'articolo 1 l'incompatibilità con il mercato comune dell'aiuto di Stato sotto forma di prestiti e locazioni finanziarie, concesso alle imprese di navigazione in virtù della legge 15 maggio 1951, n. 20 della regione Sardegna, come modificata dalla legge 4 giugno 1988, n.11. L'articolo 2 della medesima decisione obbliga l'Italia ad adottare le misure necessarie per recuperare dai beneficiari l'aiuto concesso illegalmente, compresi gli interessi; il recupero dovrà essere eseguito senza indugio conformemente alle norme italiane, a condizione che queste consentano l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione. Infine, l'articolo 5 stabilisce l'obbligo per le autorità italiane di informare la Commissione, entro due mesi dalla notifica della decisione stessa, in merito alle misure adottate per conformarvisi.

    Non avendo ricevuto alla scadenza del suddetto termine le informazioni richieste, la Commissione europea ha avviato il 7 novembre 2007 uno scambio di corrispondenza con le autorità italiane, nell'ambito del quale queste ultime, con lettera del 30 maggio 2011, comunicavano che la Banca di Credito Sardo - nella sua veste di soggetto gestore del fondo istituito dal regime di aiuti in questione - aveva intimato, nel luglio 2009, la restituzione degli aiuti concessi alle sette imprese beneficiarie (l'Ancora di Venere, la Maris – Mari di Sardegna Srl di navigazione, la Navisarda, l'Impresa individuale Romani Augusta, la Sardegna Flotta Sarda, la Moby SpA e la Vincenzo Onorato). Poiché nessuna di tali imprese aveva restituito le somme, le autorità italiane avevano avviato nel novembre 2010 le procedure per la loro restituzione; tuttavia, gli ordini di recupero riguardanti l'Ancora di Venere, la Navisarda e la Moby SpA erano stati sospesi in seguito alla loro impugnazione dinanzi al giudice nazionale.

    Ritenendo che la Repubblica italiana non avesse fornito gli elementi di prova idonei a dimostrare di aver effettivamente eseguito la decisione di recupero degli aiuti, la Commissione ha adito la Corte di Giustizia (ai sensi dell'articolo 108, par. 2, TFUE), sostenendo che:

    • secondo una costante giurisprudenza, il solo mezzo di difesa che uno Stato membro può opporre al ricorso per inadempimento è quello dell'impossibilità assoluta di dare correttamente esecuzione alla decisione in questione. La Commissione ricorda che, nel caso in esame, la Repubblica italiana non avrebbe mai invocato tale impossibilità, limitandosi ad addurre difficoltà di ordine pratico per il recupero degli aiuti in questione, quali il cambiamento dell'ente amministrativo preposto al recupero o le procedure di contenzioso promosse da alcune imprese beneficiarie dell'aiuto. L'Italia, inoltre, non avrebbe nemmeno chiesto alla Commissione di modificare la decisione per consentirle di superare le difficoltà connesse ad una attuazione effettiva ed immediata della stessa;
    • le procedure nazionali adottate non hanno permesso un recupero immediato ed effettivo degli aiuti illegittimi erogati, considerato che la decisione di recupero risale al luglio 2007;
    • nessuna delle informazioni richieste è stata trasmessa entro il termine di due mesi previsto dalla decisione 2008/92/CE; le autorità italiane avrebbero infatti informato per la prima volta la Commissione del fatto che le procedure di recupero erano state avviate solo con lettera del 30 maggio 2011.

    Nel controricorso, la Repubblica italiana riconosce di non essere in grado di contestare il fondamento del ricorso; chiede tuttavia alla Corte di circoscrivere il contenuto del suo obbligo dichiarando non dovuto il recupero quanto meno in relazione alle somme percepite da Navisarda, dall'Ancora di Venere e dalla Sardegna Flotta Sarda, tenuto conto della situazione specifica di tali imprese. Su tale profilo, la Commissione, nella sua replica, sostiene che la decisione 2008/92/CE riguarda il regime di aiuti nel suo complesso per cui spetta allo Stato membro valutare le situazioni specifiche.

    La Corte di giustizia, riprendendo le argomentazioni contenute nel ricorso della Commissione, rileva, da un lato, che la Repubblica italiana non ha fatto valere alcuna impossibilità assoluta di esecuzione della decisione 2008/92/CE, che le informazioni sono state comunicate in ritardo e che spetta allo Stato membro verificare la situazione individuale di ciascuna impresa interessata da un'operazione di recupero, precisando, in relazione all'argomento della Repubblica italiana in merito all'impossibilità di recuperare gli aiuti erogati alla Sardegna Flotta Sarda a causa dello stato di cessazione dell'attività di quest'ultima, che secondo una giurisprudenza costante il fatto che le imprese beneficiarie siano in difficoltà o fallite non incide sull'obbligo di recupero dell'aiuto in quanto lo Stato membro è tenuto, eventualmente, a provocare la liquidazione della società.

    Da ultimo la Corte riconosce che il ricorso della Commissione è fondato nella parte in cui addebita alla Repubblica italiana di non aver adottato, entro i termini stabiliti, tutti i provvedimenti necessari a recuperare integralmente presso i beneficiari gli aiuti concessi in base al regime di aiuti dichiarato illegittimo ed incompatibile con il mercato comune dalla decisione 2008/92/CE, in palese violazione dell'obbligo di pervenire ad un recupero effettivo delle somme illegittimamente percepite, e condanna la Repubblica italiana alle spese.

  • C-556/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/03/2013

    Con il ricorso per inadempimento ai sensi dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE), la Commissione europea chiede alla Corte di giustizia di constatare la violazione da parte della Repubblica federale di Germania della normativa UE in materia ferroviaria (direttive 91/440/CEE e 2001/14/CE). I rilievi mossi dalla Commissione riguardano:

    1) l'assenza di meccanismi efficaci volti a garantire l'indipendenza - non solo sul piano giuridico, ma anche su quello economico - del gestore dell'infrastruttura ferroviaria (Deutsche Bahn Netz AG - DB Netz) cui sono state affidate talune funzioni essenziali (adozione delle decisioni relative alle licenze delle imprese ferroviarie, all'assegnazione delle linee ferroviarie, all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura, nonché il controllo del rispetto degli obblighi di servizio pubblico previsti nella prestazione di taluni servizi) dall'impresa che presta i servizi di trasporto ferroviario (Deutsche Bahn AG - DB AG). A tal fine la Commissione si richiama ai criteri di esame relativi alla prova di indipendenza del gestore dell'infrastruttura, di cui all'allegato 5 di un proprio documento di lavoro, facendo valere l'esistenza in altri settori regolamentati quali quelli dell'elettricità e del gas naturale di norme (direttive 2009/72/CE e 2009/73/CE) che riproducono tali criteri.

    La legge tedesca sulle ferrovie (Allgemeines Eisenbahngesetz) del 1993, modificata nel 2009, dispone l'indipendenza dei gestori dell'infrastruttura dalle imprese di trasporto ferroviario sul piano giuridico, organizzativo e decisionale, per quanto riguarda le decisioni connesse all'assegnazione delle linee ferroviarie e all'imposizione dei diritti di utilizzo. Inoltre, iI contratto di controllo e di cessione degli utili del 1999 fra la DB AG e la DB Netz stabilisce il divieto di derogare al principio dell'indipendenza giuridica e organizzativa della DB Netz per quanto riguarda le decisioni relative all'orario di servizio, all'assegnazione delle linee ferroviarie e all'imposizione dei diritti di utilizzo. Di conseguenza, ad avviso delle autorità tedesche, la normativa tedesca sarebbe conforme a quella dell'UE considerato che la direttiva 2001/14/CE non esige un'indipendenza economica completa, ma unicamente un'indipendenza del gestore dell'infrastruttura sul piano giuridico, organizzativo o decisionale, limitatamente all'adozione di determinate decisioni espressamente definite. Per quanto riguarda i criteri di cui all'allegato 5, essi non avrebbero valore giuridico vincolante non essendo mai stati pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea.

    La Repubblica italiana, costituitasi in giudizio a sostegno delle tesi della Germania, ha evidenziato che la normativa dell'UE prevede solo un obbligo di separazione contabile tra le attività di trasporto ferroviario e quelle di gestione dell'infrastruttura. Inoltre, per quanto riguarda il modello della holding, l'obiettivo della normativa dell'UE non è quello di introdurre l'obbligo di separare le strutture della proprietà o i regimi organizzativi aventi effetti equivalenti al piano dell'autonomia di gestione, ma piuttosto quello di rispettare e garantire il potere discrezionale degli Stati membri e delle imprese interessate ad adottare dei modelli di organizzazione di diversi tipi. La Repubblica italiana non condivide pertanto l'argomento della Commissione secondo cui le funzioni essenziali dovrebbero essere attribuite ad enti esterni al gruppo al quale appartiene un'impresa ferroviaria.

    Con riferimento a questo profilo, la Corte sostiene che la Commissione non è riuscita a provare che la DB Netz non è indipendente sul piano decisionale nei confronti della DB AG. In particolare l'omessa trasposizione nel diritto tedesco dei criteri risultanti dall'allegato 5, privi di carattere giuridico vincolante, non può portare, di per sé, a concludere per l'assenza di tale indipendenza; inoltre, il paragone effettuato dalla Commissione con le disposizioni relative al mercato interno dell'elettricità e del gas naturale non può essere condiviso, in quanto esse disciplinano espressamente le condizioni di esercizio di attività nell'ambito della società che gestisce la rete e i periodi di incompatibilità, mentre la direttiva 2001/14/CE non precisa i criteri relativi all'indipendenza tra il gestore dell'infrastruttura e le imprese ferroviarie;

    2) la non corretta trasposizione delle disposizioni relative all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura ferroviaria in quanto, ad avviso della Commissione, la legge tedesca sulle ferrovie non consentirebbe sempre di determinare con certezza, da una parte, se si applichi il principio dei costi diretti o dei costi totali, e, dall'altra, le condizioni a cui occorre applicare l'uno o l'altro di tali principi.

    La Corte sottolinea che il principio del costi diretti e quello dei costi totali non sono intercambiabili e precisa che la direttiva 2001/14/CE non obbliga gli Stati membri a stabilire norme più dettagliate in materia di imposizione dei diritti;

    3) la mancata adozione di meccanismi che incentivino il gestore dell'infrastruttura a limitare i costi legati al servizio di infrastruttura, prevedendo incentivi distinti per la riduzione dei diritti d'accesso.

    La Corte sostiene che la convenzione (LuFV) conclusa tra lo Stato tedesco, la DB AG e le imprese di infrastruttura ferroviaria costituisce un incentivo per ridurre i costi di fornitura dell'infrastruttura e, indirettamente, il livello dei diritti di accesso. Inoltre, la direttiva 2001/14/CE non contempla espressamente l'obbligo di prevedere incentivi alla riduzione dei diritti d'accesso distinti dagli incentivi alla diminuzione dei costi;

    4) la mancata attribuzione all'organismo di regolamentazione – che gli Stati membri sono tenuti a costituire ai sensi dell'articolo 30 della direttiva 2001/14/CE per vigilare sulla concorrenza nel mercato dei servizi ferroviari, vale a dire un accesso non discriminatorio all'infrastruttura ferroviaria - di talune competenze in materia di ottenimento di informazioni e di sanzioni, a prescindere da ricorsi o da un sospetto concreto di infrazioni alle direttive in materia.

    La Corte sottolinea che la direttiva 2001/14/CE non prevede espressamente sanzioni per eventuali infrazioni al diritto dell'organismo di regolamentazione di chiedere informazioni al gestore dell'infrastruttura e a qualsiasi altra parte interessata. Inoltre, la medesima direttiva non richiede che l'organismo di regolamentazione abbia competenze in materia di ottenimento di informazioni in assenza di motivi particolari o di qualsiasi sospetto di infrazione.

    Alla luce di tutte le suddette considerazioni, la Corte dispone che il ricorso venga respinto.

  • C-555/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/03/2013

    Con il ricorso per inadempimento ai sensi dell'articolo 258 del TFUE in oggetto, la Commissione chiede alla Corte di giustizia di constatare la violazione da parte della Repubblica d'Austria della normativa UE in materia ferroviaria (direttive 91/440/CEE e 2001/14/CE) per la mancata adozione di misure volte a garantire l'indipendenza dell'ÖBB-Infrastruktur, il gestore dell'infrastruttura ferroviaria cui sono state affidate talune funzioni essenziali (adozione delle decisioni relative alle licenze delle imprese ferroviarie, all'assegnazione delle linee ferroviarie, all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura, nonché il controllo del rispetto degli obblighi di servizio pubblico previsti nella prestazione di taluni servizi) dall'ÖBB-Holding, l'impresa che presta i servizi di trasporto ferroviario.

    Al fine di garantire tale indipendenza, la direttiva 91/440/CEE richiede una separazione contabile tra le attività di trasporto fornite dalle imprese ferroviarie e le attività di gestione dell'infrastruttura ferroviaria, mentre consente lo svolgimento di entrambe le attività nell'ambito di una medesima impresa mediante divisioni organiche distinte, come avviene in seno alle holding. Tuttavia, per garantire un accesso equo e non discriminatorio all'infrastruttura ferroviaria, le funzioni essenziali devono essere attribuite a enti o società che non prestano a loro volta servizi di trasporto ferroviario (art. 6, par. 3). Inoltre, ai sensi della direttiva 2001/14/CE, gli enti cui sono affidate funzioni di imposizione dei diritti e di assegnazione devono essere indipendenti sul piano giuridico, organizzativo e decisionale.

    La legge austriaca in materia ferroviaria (Bundesbahngesetz, BGBl. 825/1992, come modificata nel 2009) dispone la costituzione da parte del Ministro federale per i trasporti di una società di capitali per azioni (l'ÖBB-Holding) che esercita i suoi diritti di proprietà nelle società nelle quali essa detiene una partecipazione diretta o indiretta, al fine di fissare un orientamento strategico. La medesima legge prevede che, ai fini della ristrutturazione della società delle ferrovie federali austriache, l'ÖBB-Holding costituisca una società di capitali per azioni (l'ÖBB-Infrastruktur). Inoltre, la legge sulle ferrovie (Eisenbahngesetz, BGBl. 60/1957, come modificata nel 2009), dispone che l'organismo preposto all'assegnazione della capacità sia un'impresa di infrastruttura ferroviaria indipendente dalle imprese ferroviarie sul piano giuridico, organizzativo e decisionale, la quale può tuttavia affidare tale funzione ad altre imprese o enti competenti.

    Sulla base di un'interpretazione del sopra richiamato articolo 6, par. 3, della direttiva 91/440/CEE secondo cui le funzioni essenziali devono essere assicurate da un ente distinto dalle imprese ferroviarie sul piano economico e non solo su quello giuridico, la Commissione sostiene che l'Austria non avrebbe previsto meccanismi efficaci per garantire tale forma di indipendenza del gestore dell'infrastruttura ferroviaria ÖBB-Infrastruktur.

    A tal fine, la Commissione richiama i criteri di cui all'allegato 5 di un proprio documento di lavoro; in base a tali criteri, resi noti dal 2006, la Commissione esamina l'indipendenza richiesta dalla direttiva 2001/14/CE. La Commissione inoltre sottolinea l'esistenza in altri settori regolamentati, quali quelli dell'elettricità e del gas naturale, di norme (direttive 2009/72/CE e 2009/73/CE) che riproducono tali criteri (ad esempio i periodi di incompatibilità tra talune funzioni).

    I criteri richiamati dalla Commissione riguardano in particolare il controllo sul rispetto degli obblighi di indipendenza da parte di un'autorità indipendente o di un terzo, l'esistenza di disposizioni legislative o contrattuali in materia di indipendenza nel rapporto tra la holding e l'ente cui sono affidate funzioni essenziali, il divieto di doppio incarico negli organi direttivi delle diverse società della holding, la previsione di un periodo di carenza in caso di trasferimento di dirigenti tra l'ente incaricato di funzioni essenziali e qualsiasi altro ente della holding, la revoca e la nomina degli amministratori del gestore dell'infrastruttura ferroviaria sotto il controllo di un'autorità indipendente.

    Le autorità austriache sostengono, da un lato, l'irrilevanza del criterio dell'indipendenza economica alla luce delle disposizioni precedentemente richiamate; dall'altro escludono la vincolatività dei criteri di cui all'allegato 5, non pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell'UE e non coincidenti con le disposizioni vincolanti previste dalle direttive 91/440/CEE e 2001/14/CE.

    La Repubblica italiana, costituitasi in giudizio a sostegno della Repubblica d'Austria, ricorda che la normativa dell'UE prevede solo un obbligo di separazione contabile tra le attività di trasporto ferroviario e quelle di gestione dell'infrastruttura e sottolinea, con riferimento al modello della holding, che l'obiettivo della normativa dell'UE non era di introdurre l'obbligo di separare le strutture della proprietà o i regimi organizzativi aventi effetti equivalenti al piano dell'autonomia di gestione, ma piuttosto di rispettare e garantire il potere discrezionale degli Stati membri e delle imprese interessate ad adottare dei modelli di organizzazione di diversi tipi.

     

    La Corte di giustizia respinge il ricorso, sulla base delle seguenti argomentazioni:

    1)       i criteri di prova dell'indipendenza contenuti nel richiamato allegato 5 non hanno valore giuridico vincolante, non essendo mai stato pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell'UE;

    2)       i medesimi criteri sono stati resi pubblici dopo il termine di trasposizione delle direttive 91/440/CEE e 2001/14/CE e non sono stati ripresi in nessun atto legislativo dell'UE. Pertanto, non può essere rimproverato ad uno Stato membro di non aver tradotto detti criteri in disposizioni legali e regolamentari di trasposizione delle direttive 91/440/CEE e 2001/14/CE;

    3)       il paragone con le disposizioni relative al mercato interno dell'elettricità e del gas naturale non può essere condiviso. Infatti tali disposizioni disciplinano espressamente le condizioni di esercizio di attività nell'ambito della società che gestisce la rete e i periodi di incompatibilità, mentre la direttiva 2001/14/CE non precisa i criteri relativi all'indipendenza che devono essere garantiti tra il gestore dell'infrastruttura incaricato di funzioni essenziali e le imprese ferroviarie.

  • C-68/11

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    Assegnata in data: 22/01/2013

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI)

    Con la sentenza in esame la Corte di giustizia - a seguito di ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione ai sensi dell'articolo 258 TFUE - condanna l'Italia per aver omesso, per gli anni 2006 e 2007, di provvedere affinché in 55 zone e agglomerati le concentrazioni di PM10 non superassero i valori limite fissati all'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 1999/30/CE concernente i valori limite di qualità dell'aria ambiente per il biossido di zolfo, il biossido di azoto, gli ossidi di azoto, le particelle e il piombo.

    Ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le concentrazioni di particelle PM10 nell'aria ambiente non superino i seguenti valori limite (allegato III): dal 1° gennaio 2005 al 31 dicembre 2009, il valore giornaliero di 50 μg/m3 non deve essere superato più di 35 volte per anno civile e il valore annuo da non superare è di 40 μg/m3. A partire dal 1° gennaio 2010, il valore giornaliero da non superare più di 7 volte per anno civile è di 50 μg/m3  mentre il valore limite annuo è di 20 μg/m3.

    Limitatamente agli anni e alle zone e agglomerati indicati, la Corte ritiene ricevibile il ricorso sulla base dei dati forniti dall'Italia nell'ambito delle relazioni annuali presentate a norma dell'articolo 11 della direttiva e riferite agli anni 2005-2007; ne giudica, inoltre, la fondatezza sulla base della stessa ammissione da parte dell'Italia del superamento dei valori limite.

    La Corte dichiara invece irricevibile la richiesta della Commissione di pronunciarsi nei confronti dell'Italia in relazione alla situazione dell'anno 2005 e al periodo successivo al 2007, ritenendo che la mancanza di un'indicazione chiara e precisa del periodo per il quale l'inadempimento viene contestato renda la richiesta priva dei requisiti di coerenza, chiarezza e precisione necessari alla Corte stessa per esercitare correttamente il suo controllo.

  • C-207/11

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 22/01/2013

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione della direttiva 90/434/CEE relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, ai conferimenti d'attivo ed agli scambi d'azioni concernenti società di Stati Membri diversi. La domanda pregiudiziale è stata presentata nell'ambito del contenzioso tra la 3D I srl e l'Agenzia delle Entrate, avente ad oggetto il rifiuto da parte di quest'ultima di rimborsare l'imposta sostitutiva versata dalla società a seguito di un'operazione di conferimento intracomunitario di uno dei suoi rami d'attività.

    La 3D I srl nel 2000 ha conferito un ramo della sua attività situato in Italia ad una società residente in Lussemburgo. A seguito dell'operazione, l'attività conferita è stata trasformata in una stabile organizzazione, situata in Italia, della società lussemburghese. In cambio, la 3D I ha ricevuto partecipazioni in forma di azioni della società lussemburghese, che sono state iscritte nel bilancio della 3D I per un valore superiore al valore fiscale dell'attività conferita.

    Nel 2001 la 3D I ha optato per la possibilità, prevista dal d.lgs. n. 358/1997, di pagare, per l'operazione, l'imposta sostitutiva con l'aliquota del 19%, rinunciando al regime di neutralità fiscale previsto dal d.lgs. n. 544/1992 (con il quale è stata recepita la sopra citata direttiva 90/434/CEE). Di conseguenza, le plusvalenze emesse sul piano contabile a seguito del conferimento sono state liberate ed è stata riconosciuta, ai fini fiscali, la differenza tra il valore fiscale del ramo aziendale conferito e il valore attribuito alle partecipazioni ricevute quale contropartita, operando di fatto un riallineamento dei valori contabili di tali partecipazioni con i valori fiscali.

    Successivamente, nel 2004, la 3D I ha chiesto all'amministrazione tributaria il rimborso dell'imposta sostitutiva versata, sostenendo che l'articolo 2, comma 2, del d. lgs. n. 544/1992 era incompatibile con la direttiva 90/434, in quanto subordina la neutralità del conferimento a condizioni non previste dalla direttiva. A suo parere, la condizione secondo cui la differenza di valore doveva essere immobilizzata in una riserva non distribuibile avrebbe indotto le imprese ad optare per l'imposta sostitutiva, dal momento che il pagamento dell'imposta ordinaria - aliquota del 33% - sulla differenza di valore, sarebbe stato ancora più svantaggioso.

    Con il suo quesito, il giudice del rinvio (Commissione tributaria regionale di Milano) ha chiesto alla Corte se la direttiva 90/434 ammetta che un conferimento d'attivo o uno scambio di azioni dia luogo all'imposizione, nei confronti della società conferente, delle plusvalenze del conferimento, a meno che iscriva a bilancio un'apposita riserva uguale al plusvalore emerso.

    La Corte osserva che il combinato disposto degli articoli 4, par. 1, e 9 della direttiva stabilisce che il conferimento d'attivo non comporta alcuna imposizione delle plusvalenze risultanti dalla differenza tra il valore reale ed il valore fiscale degli elementi d'attivo e di passivo conferiti. Essa precisa inoltre che il valore fiscale è quello che sarebbe stato preso in considerazione per il calcolo degli utili o delle perdite, per determinare la base imponibile di un'imposta sul reddito, sugli utili o sulle plusvalenze della società conferente, se questi elementi fossero stati venduti al momento del conferimento d'attivo, ma indipendentemente da quest'ultimo.

    Tuttavia, la neutralità fiscale non è incondizionata. Infatti, ai sensi del combinato disposto dell'articolo 4, par. 2, e 9, della medesima direttiva, gli Stati membri subordinano la neutralità fiscale alla condizione che la società beneficiaria calcoli i nuovi ammortamenti e le plusvalenze o minusvalenze inerenti agli elementi d'attivo e di passivo trasferiti, alle stesse condizioni in cui sarebbero state calcolate dalla società conferente se il conferimento non avesse avuto luogo. L'obbligo, per la società beneficiaria, di preservare – ove essa desideri ottenere la neutralità fiscale – la continuità della valutazione degli elementi d'attivo e di passivo trasferiti mira ad evitare che tale neutralità divenga un'esenzione definitiva non prevista dalla direttiva 90/434. Infatti, la direttiva si limita a istituire un regime di rinvio dell'imposizione delle plusvalenze inerenti ai beni conferiti, il quale, pur evitando che il conferimento di attività dia luogo di per sé stesso ad imposizione, tutela gli interessi finanziari dello Stato della società conferente assicurando l'imposizione di tali plusvalenze al momento del loro effettivo realizzo.

    Se dunque la direttiva 90/434 definisce le condizioni alle quali è subordinato il rinvio dell'imposizione in capo alla società beneficiaria delle plusvalenze inerenti all'attività conferita, essa però non precisa le condizioni alle quali è subordinato il beneficio, per la società conferente, di un rinvio dell'imposizione delle plusvalenze inerenti ai titoli rappresentativi del capitale sociale della società beneficiaria consegnati come contropartita del conferimento e non regolamenta, in particolare, la questione di quale sia il valore che la società conferente deve attribuire a tali titoli.

    Pertanto, contrariamente a quanto la 3D I sostiene nel ricorso, la direttiva 90/434 non vieta agli Stati membri di fissare tali condizioni, bensì lascia a questi ultimi un margine di manovra che consente loro di subordinare la neutralità fiscale di cui beneficia la società conferente a specifiche condizioni di valutazione dei titoli ricevuti in contropartita, come ad esempio la continuità dei valori fiscali, purché tali condizioni non portino al risultato che l'attribuzione di detti titoli in occasione del conferimento d'attivo generi di per sé stessa un'imposizione delle plusvalenze inerenti ai titoli stessi.

    La legislazione italiana avrebbe dunque consentito alla 3D I di attribuire ai titoli ricevuti in contropartita del conferimento il valore che l'attività conferita aveva prima dell'operazione e di beneficiare così del rinvio dell'imposizione delle plusvalenze inerenti a tali titoli, rispettando una condizione che è compatibile con il diritto dell'Unione.

    Sulla base di queste considerazioni, la Corte di giustizia stabilisce che le disposizioni della direttiva 90/434/CEE devono essere interpretate nel senso che esse non ostano, in una situazione quale quella oggetto del procedimento principale, a che a che un conferimento d'attivo dia luogo ad imposizione, nei confronti della società conferente, delle plusvalenze risultanti dal conferimento stesso, a meno che la società conferente iscriva nel proprio bilancio un'apposita riserva in misura corrispondente al plusvalore emerso in sede di conferimento.

  • C-159/11

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 22/01/2013

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione di alcune disposizioni della direttiva 2004/18/CE riguardanti le modalità e i principi di aggiudicazione degli appalti pubblici. La questione pregiudiziale era stata sollevata il 9 novembre 2010 dal Consiglio di Stato nell'ambito di una controversia tra l'Azienda Sanitaria Locale di Lecce e l'Università del Salento, da un lato, e l'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Lecce, dall'altro. La controversia verteva su un contratto di consulenza stipulato tra l'ASL e l'Università senza lo svolgimento di una gara di appalto, avente ad oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce. Per l'intera prestazione l'ASL si era impegnata a corrispondere all'Università la somma di 200 mila euro al netto dell'IVA.

    Il contratto di consulenza era stato stipulato ai sensi dell'articolo 15, primo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241, che consente alle amministrazioni pubbliche di concludere tra loro accordi per svolgere in collaborazione attività di interesse comune, e dell'articolo 66 del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382, che  autorizza espressamente le università pubbliche a fornire prestazioni di ricerca e consulenza a enti pubblici o privati, purché tale attività non comprometta la loro funzione didattica.

    Successivamente, il contratto era stato impugnato da diversi ordini, associazioni professionali e imprese per violazione della normativa nazionale e dell'UE in materia di appalti pubblici; in primo grado, il TAR Puglia aveva accolto il ricorso, sostenendo che l'affidamento dell'incarico relativo all'attività di studio costituiva un appalto di servizi di ingegneria, ai sensi della normativa italiana. In sede di appello, l'ASL e l'Università avevano sottolineato che il contratto di consulenza costituiva un accordo di cooperazione tra amministrazioni pubbliche per lo svolgimento di attività di interesse generale, che la partecipazione a titolo oneroso – ma per una remunerazione limitata ai costi sostenuti – dell'Università al contratto rientrava nell'ambito delle attività istituzionali di quest'ultima e che la legittimità degli accordi di cooperazione tra pubbliche amministrazioni sotto il profilo del diritto dell'UE risultava dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'UE.

    Il Consiglio di Stato proponeva quindi domanda in via pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità della normativa italiana con la direttiva 2004/18/CE, nell'ambito della quale in particolare il combinato disposto degli articoli 28 e dell'Allegato II A prevede che le amministrazioni aggiudicatrici applichino ai servizi di ricerca e sviluppo e ai servizi di ingegneria le procedure nazionali adattate in attuazione della direttiva stessa.

    La Corte precisa in termini generali che un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto tra un operatore economico e un'amministrazione aggiudicatrice, avente per oggetto la prestazione di servizi costituisce un appalto pubblico.

    Nel caso di specie, la Corte chiarisce che:

    - alla luce della sua precedente giurisprudenza, ai fini della definizione di un contratto come appalto pubblico, è ininfluente la circostanza che l'operatore economico sia un'amministrazione aggiudicatrice; inoltre, con specifico riferimento alle università, l'eventuale loro autorizzazione, da parte degli Stati membri, a offrire taluni servizi sul mercato, non pregiudica il ricorso a gare di appalto aventi ad oggetto i servizi in questione;

    - attività quali quelle costituenti l'oggetto del contratto tra l'ASL e l'Università ricadono nell'ambito dei servizi di cui all'allegato II A della direttiva 2004/18/CE;

    - un contratto non può esulare dalla nozione di appalto pubblico per il solo fatto che la remunerazione in esso prevista è limitata al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto.

    La Corte aggiunge che dalla decisione di rinvio sembra risultare, in primo luogo, che il contratto di consulenza in questione riguardi prevalentemente attività svolte da ingegneri o architetti e che, se pur basate su un fondamento scientifico, "non assomigliano ad attività di ricerca scientifica"; di conseguenza, non sembra potersi configurare l'esercizio di una funzione di servizio pubblico comune all'ASL e all'Università. In secondo luogo, il contratto potrebbe condurre a favorire imprese private qualora tra i collaboratori esterni altamente qualificati cui, in base a detto contratto, l'Università è autorizzata a ricorrere per la realizzazione di talune prestazioni, fossero inclusi prestatori privati.

    La Corte conclude quindi che il diritto dell'UE in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione nel caso in cui – ciò che spetta al giudice del rinvio verificare – tale contratto non abbia il fine di garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.

  • C-430/11

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    Assegnata in data: 19/12/2012

    Commissione: XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte si è pronunciata in via pregiudiziale sulla compatibilità di alcune disposizioni del decreto legislativo n. 286/1998, recante il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina sull'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (come modificato dalla legge n. 94 2009 e dal decreto legge n. 89 del 2011 convertito dalla legge n. 129 del 2011, e alla luce di alcune disposizioni del decreto legislativo n. 274 del 2000 in materia di obbligo di permanenza domiciliare, quale sanzione in esito alla conversione di una pena pecuniaria), con il diritto europeo, segnatamente la direttiva 2008/115/CE recante norme e procedure applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini terzi il cui soggiorno è irregolare.

    In sostanza, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se la direttiva citata dovesse considerarsi ostativa ad una normativa come quella italiana, nella parte in cui il soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi è sanzionato con una pena pecuniaria sostituibile con la pena dell'espulsione o con l'obbligo di permanenza domiciliare.

    La Corte di giustizia ha stabilito che la direttiva in questione:

    • non osta alla normativa di uno Stato membro (come quella oggetto del procedimento principale), che sanziona il soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi con una pena pecuniaria sostituibile con la pena dell'espulsione;

    Circa tale aspetto, la Corte precisa che la direttiva 2008/115 verte unicamente sul rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e, pertanto, non si prefigge l'obiettivo di armonizzare integralmente le norme degli Stati membri sul soggiorno degli stranieri. Tale direttiva, quindi, non vieta che il diritto di uno Stato membro qualifichi il soggiorno irregolare alla stregua di reato e preveda sanzioni penali per scoraggiare e reprimere la commissione di siffatta infrazione.

    • osta alla normativa di uno Stato membro che consente di reprimere il soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi con l'obbligo di permanenza domiciliare, senza garantire che l'esecuzione di tale pena debba cessare a partire dal momento in cui sia possibile il trasferimento fisico dell'interessato fuori di tale Stato membro.

    A tal proposito, la Corte precisa che (nonostante la facoltà di qualificare penalmente il soggiorno irregolare) uno Stato non può applicare una disciplina penale idonea a compromettere l'applicazione delle norme e delle procedure comuni sancite dalla direttiva 2008/115, privando così quest'ultima del suo effetto utile; ribadisce, inoltre, che dette norme e procedure sarebbero compromesse se lo Stato membro interessato, dopo aver accertato il soggiorno irregolare del cittadino di un paese terzo, anteponesse all'esecuzione della decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale idoneo a condurre alla reclusione nel corso della procedura di rimpatrio. Tale modo di procedere rischierebbe infatti di ritardare l'allontanamento. In particolare, secondo la Corte, laddove la disciplina del predetto obbligo di permanenza domiciliare non ne preveda la cessazione a partire dal momento in cui sia possibile eseguire l'allontanamento dello straniero, ciò pregiudicherebbe l'effetto utile della direttiva consistente, appunto, nell'allontanamento del cittadino di un Paese terzo in condizioni di soggiorno irregolare.

    La sentenza in esame ha altresì fornito indicazioni circa la questione della compatibilità tra quanto previsto dall'articolo 16 del decreto legislativo n. 286 del 1998 (Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla sanzione) e le omologhe disposizioni contenute nella direttiva citata.

    In sintesi, secondo quanto previsto dalla disciplina italiana richiamata, il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per ingresso o soggiorno illegale nel territorio dello Stato, qualora non ricorrano le cause ostative (specificate dal decreto stesso, all'articolo 14), che impediscono l'esecuzione immediata dell'espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, può sostituire la medesima pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.

    L'articolo 11, paragrafo 2, della direttiva citata, prevede che la durata del divieto d'ingresso (come misura accessoria, obbligatoria o facoltativa a seconda dei casi previsti dalla medesima direttiva, di una decisione di rimpatrio) sia determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e che non superi di norma i cinque anni; il superamento di tale limite temporale è invece ammesso dalla direttiva ove il cittadino di un paese terzo costituisca una grave minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.

    Al riguardo, la Corte ha osservato che, perché una disposizione formulata secondo i termini dell'articolo 16 del decreto legislativo n. 286/1998 sia conforme alla direttiva 2008/115, occorre che essa sia applicata in modo tale che la durata del divieto di ingresso da essa imposto corrisponda a quella prevista dall'articolo 11, paragrafo 2, di tale direttiva.

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