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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-458/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 04/09/2014

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2001/23/CE, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti.

    La direttiva ha la finalità di proteggere i lavoratori in caso di cambiamento di imprenditore, in particolare assicurando il mantenimento dei loro diritti (considerando 3). Essa si applica al trasferimento di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, essenziale o accessoria (articolo 1, par. 1, lett. a) e b)). L'articolo 6 dispone che i diritti e gli obblighi risultanti da un contratto o un rapporto di lavoro esistente sono trasferiti dal cedente al cessionario. L'articolo 8 lascia agli Stati membri la facoltà di applicare o introdurre norme più favorevoli ai lavoratori.

    Nell'ordinamento italiano, l'articolo 2112 del codice civile dispone, tra l'altro, che, in caso di trasferimento di azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario e che, ai fini dell'applicazione della disposizione, per trasferimento di azienda (o di parte di azienda) si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione o fusione, comporti il mutamento della titolarità di un'attività economica organizzata preesistente al trasferimento. Ove però il trasferimento non possa essere configurato come tale, la cessione dei contratti di lavoro da parte del datore di lavoro ricade sotto l'articolo 1406 del codice civile, sulla base del quale è necessario il consenso del lavoratore.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dal Tribunale di Trento nell'ambito di una controversia che oppone alcuni dipendenti di Telecom Italia Spa trasferiti, in base al trasferimento di un ramo dell'azienda, a Telecom Italia Information Technology Srl (TIIT) a tale ultima società.

    Nel 2010, a seguito di una riorganizzazione interna, Telecom Italia ha suddiviso la struttura Information Technology in una serie di sottostrutture, tre delle quali sono state inglobate nel ramo IT Operations, trasferito nel medesimo anno alla propria controllata TIIT. I ricorrenti, impiegati nel ramo trasferito, hanno proseguito il loro rapporto di lavoro con il cessionario.

    Ad avviso dei ricorrenti, il trasferimento non può essere qualificato come "trasferimento di parte di azienda" ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile e, pertanto, sarebbe inefficace nei loro confronti. Di conseguenza, il loro rapporto di lavoro continuerebbe a sussistere con Telecom Italia.

    Per i ricorrenti, infatti, il ramo IT Operations, prima del conferimento nel capitale di TIIT, non costituiva una suddivisione funzionalmente autonoma nella struttura di Telecom Italia, anzi non sarebbe stato nemmeno preesistente al trasferimento. Inoltre, in seguito al conferimento del ramo IT Operations, TIIT ha continuato a realizzare una parte preponderante della propria attività a favore di Telecom Italia, la quale esercita nei suoi confronti un potere di supremazia.

    La Corte di giustizia, osservando che la direttiva 2001/23 è applicabile a tutti i casi di cambiamento della persona fisica o giuridica responsabile della gestione dell'impresa, ha richiamato consolidata giurisprudenza secondo la quale il criterio per stabilire se sussista un trasferimento è quello di accertare se l'entità trasferita conservi la propria identità dopo essere stata rilevata dal cessionario.

    La Corte ha chiarito che la mancanza di autonomia funzionale impedisce al trasferimento di ricadere nella disciplina della direttiva ma, anche sulla base della facoltà riconosciuta dall'articolo 8 della direttiva, non osta a che uno Stato membro garantisca nel proprio ordinamento il mantenimento dei diritti dei lavoratori dopo il cambiamento di datore di lavoro, introducendo disposizioni più favorevoli ai lavoratori. Inoltre, non risulta da alcuna disposizione della direttiva che il legislatore europeo abbia voluto che l'indipendenza del cessionario nei confronti del cedente fosse un presupposto per l'applicazione della direttiva stessa. Da ciò deriva che un intenso potere di supremazia del cedente non può costituire, di per sé, un ostacolo all'applicazione della direttiva 2001/23.

    Sulla base di tali argomentazioni, la Corte ha dichiarato che l'articolo 1, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2001/23/CE deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale la quale, in presenza di un trasferimento di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa ceduta non costituisca un'entità economica funzionalmente preesistente e il cedente eserciti un intenso potere di supremazia nei confronti del cessionario.

  • C-301/12

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    Assegnata in data: 04/09/2014

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta alla Corte di Giustizia dal Consiglio di Stato, verte sull'interpretazione degli articoli 9 e 11 della direttiva 92/43/CE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche. In particolare, tale direttiva, che ha lo scopo di contribuire a salvaguardare la biodiversità mantenendo gli habitat naturali in uno stato di conservazione soddisfacente, stabilisce la creazione della rete Natura 2000, una rete di zone speciali di conservazione (ZSC) e zone di protezione speciale classificate dagli Stati membri. La procedura di individuazione delle ZSC prevede, all'articolo 4, la formazione da parte degli Stati membri di un elenco di siti di importanza comunitaria (SIC), trasmesso alla Commissione e da questa fissato. Una volta inserito il sito nell'elenco comunitario dei SIC, lo Stato membro designa tale sito come ZSC e adotta le opportune misure per evitare il degrado degli habitat naturali e delle specie. Inoltre, qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso o necessario alla gestione del sito, ma che possa avere su di esso conseguenze significative, deve essere approvato dalle autorità nazionali solo dopo un'opportuna valutazione che escluda qualsiasi pregiudizio all'integrità del sito. Qualora, nonostante una valutazione negativa e in mancanza di soluzioni alternative, il piano o il progetto debba essere realizzato per motivi di interesse pubblico, anche di natura sociale o economica, lo Stato membro adotta ogni misura compensativa necessaria a garantire che la coerenza di Natura 2000 sia tutelata, informandone la Commissione. L'articolo 9 prevede la valutazione periodica da parte della Commissione del contributo di Natura 2000 agli obiettivi della direttiva, contemplando anche la possibilità di un declassamento di una ZSC, qualora ritenuto opportuno. L'articolo 11, infine, prevede che gli Stati membri garantiscono la sorveglianza dello stato di conservazione delle specie e degli habitat. La direttiva è stata attuata nell'ordinamento italiano con DPR n. 357/1997 che, tra l'altro, prevede, all'articolo 3, che le regioni comunicano al Ministero dell'ambiente i siti da inserire nell'elenco dei SIC, trasmesso alla Commissione europea per la costituzione della rete Natura 2000; lo stesso Ministero dell'ambiente provvede alla designazione dei siti ZSC, nell'ambito dei siti inseriti nell'elenco dei SIC definito dalla Commissione; si prevede inoltre che le regioni, sulla base di specifico monitoraggio, effettuano una valutazione periodica dell'idoneità dei siti, proponendo eventualmente al Ministero dell'ambiente un aggiornamento dell'elenco, della delimitazione e dei contenuti della scheda informativa dei siti. Il ministero provvede alla trasmissione delle proposte alla Commissione europea. L'articolo 7 disciplina la procedura di monitoraggio, prevedendo l'adozione di linee guide da parte del ministero e delle misure di attuazione da parte delle regioni. Sulla base della normativa vigente, la società Cascina, proprietaria di un terreno incluso nel Parco Naturale della Valle del Ticino e classificato quale SIC, ha eccepito il progressivo deterioramento ecologico del sito a causa del potenziamento del traffico aereo nella zona Malpensa, chiedendo nel 2005 al consorzio Parco Lombardo della Valle del Ticino, in quanto ente gestore del sito, di adottare le misure necessarie ad impedire tale degrado ambientale. Non avendo ricevuto risposta, nel 2006 la società Cascina ha presentato al Ministero dell'ambiente un'istanza-diffida affinché provvedesse a riperimetrare o a declassare il sito, escludendolo dall'elenco dei SIC. L'interesse della società discenderebbe dalla circostanza che la disciplina vincolistica del SIC impedirebbe di modificare la destinazione dei terreni, come invece previsto dal piano di riassetto dell'area Malpensa. A seguito della dichiarazione di incompetenza da parte del Ministero, la società Cascina ha riproposto l'istanza alla regione Lombardia che l'ha, tuttavia, respinta. Successivamente, nel 2009, il TAR ha respinto il ricorso presentato dalla società per l'illegittima inerzia del Ministero dell'ambiente e della regione Lombardia, in quanto, da un lato, il potere di iniziativa e di proposta è attribuito alle Regioni e non al Ministero e, dall'altro, il rigetto dell'istanza da parte della Regione Lombardia deve essere interpretato non già come rifiuto a provvedere ma come manifestazione della volontà di continuare a comprendere il sito di proprietà della società Cascina nell'elenco dei SIC. La Corte di giustizia europea, investita della controversia dal Consiglio di Stato, a cui ha fatto appello la società Cascina, si è espressa su una serie di questioni pregiudiziali concernenti l'interpretazione della direttiva 92/43/CE. In particolare, ad avviso della Corte, gli articoli 4, 9 e 11 della direttiva devono essere interpretati nel senso che le autorità competenti degli Stati membri devono proporre alla Commissione europea il declassamento di un SIC qualora sia stata ad esse presentata, da parte del proprietario di un terreno incluso nel sito, un'istanza che adduce il degrado ambientale del sito medesimo, purché essa sia fondata sulla circostanza che, nonostante il rispetto di tutte le disposizioni della direttiva (in particolare, l'articolo 6), il sito non può definitivamente contribuire alla conservazione degli habitat naturali nonché della fauna e della flora selvatiche o alla costituzione della rete Natura 2000. Inoltre, non è in contraddizione con i suddetti articoli della direttiva una normativa nazionale che attribuisca la competenza a proporre la modifica dell'elenco dei SIC solo agli enti locali territoriali e non anche, quanto meno in via sostitutiva in caso di inerzia, allo Stato, purché tale attribuzione delle competenze garantisca l'applicazione corretta delle disposizioni della direttiva.

  • C-155/13

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    Assegnata in data: 04/09/2014

    Commissione: XIII COMMISSIONE (AGRICOLTURA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'art. 6, paragrafo 4 del regolamento (CE) n. 341/2007, recante apertura e modalità di gestione di contingenti tariffari e istituzione di un regime di titoli di importazione e certificati d'origine per l'aglio e alcuni altri prodotti agricoli importati da Paesi terzi. Tale domanda è stata sollevata dalla Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre nell'ambito di una controversia tra una serie di aziende importatrici di aglio (tra cui la Duoccio srl) e l'Agenzia Dogane - Ufficio di Venezia, avente ad oggetto taluni avvisi di rettifica e di accertamento in merito ad importazioni di aglio di origine cinese che hanno beneficiato di un dazio doganale agevolato.

    In base al regolamento (CE) n. 341/2007, al fine di una migliore sorveglianza sulle importazioni e a seguito di casi di frodi basate su una falsa indicazione dell'origine o del prodotto, tutte le importazioni di aglio sono soggette al rilascio di un titolo di importazione; sono previste due categorie di titoli di importazione, una per le importazioni nell'ambito del contingente GATT (titoli "A") e l'altra per tutti gli altri tipi di importazioni. Le domande di titoli di importazione sono soggette ad alcune restrizioni, al fine di salvaguardare la concorrenza tra gli importatori, che la disciplina europea distingue in due categorie, importatori tradizionali e nuovi importatori. Tra le misure di tutela della concorrenza rientrano i divieti al trasferimento dei titoli di importazione (previsti dal citato art. 6, del regolamento (CE) n. 341/2007) e le sanzioni nel caso in cui lo stesso soggetto presenti più domande. Alle importazioni effettuate ai sensi dei titoli "A" si applica l'aliquota ridotta.

    Nella causa in oggetto l'Agenzia Dogane ha censurato il seguente meccanismo, ritenendolo fraudolento: in un primo momento, la Duoccio o la Tico srl acquistavano aglio da un fornitore cinese; in un secondo momento, prima dell'importazione nell'Unione, la Duoccio e la Tico vendevano la merce ad altri importatori, intestatari di titoli «A», che rivendevano la merce alla Duoccio dopo averla importata.

    In sostanza, la doppia vendita ha anche comportato l'elusione del divieto di trasferimento dei diritti derivanti dai titoli "A".

    La Duoccio srl, infatti, era attiva sia nel mercato delle importazioni di aglio, come importatore tradizionale, sia nel mercato della distribuzione, come grossista. Avendo esaurito i propri titoli "A", la società non era più in grado d'importare aglio a dazio agevolato. Secondo l'Agenzia Dogane, le due vendite consecutive di aglio, dalla Duoccio e dalla Tico agli importatori, e poi da questi ultimi alla Duoccio, miravano a eludere il divieto di trasferimento dei diritti derivanti dai titoli «A».

    Ad avviso della Corte di giustizia, l'articolo 6 del regolamento (CE) n. 341/2007 si limita a prevedere un divieto di trasferimento dei diritti derivanti dai titoli «A», mentre non disciplina la fattispecie in cui l'intestatario di titoli d'importazione ad aliquota ridotta acquisti una merce da un determinato operatore prima della sua importazione e poi la rivenda a quest'ultimo dopo averla importata nell'Unione; più in particolare, la Corte osserva che nel caso di specie erano stati soddisfatti tutti i requisiti formali per la concessione del dazio agevolato, poiché gli importatori avevano provveduto allo sdoganamento della merce avvalendosi di titoli "A" ottenuti in modo regolare.

    Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante, i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme dell'Unione. L'accertamento dell'esistenza di una pratica abusiva richiede che ricorrano:

    -       un elemento oggettivo, ovvero un insieme di circostanze da cui risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell'Unione, l'obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto; 

    -       un elemento soggettivo, da cui risulti che lo scopo essenziale delle operazioni controverse è il conseguimento di un vantaggio indebito.

    Anche se la Corte può, ove necessario, fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua interpretazione, spetta tuttavia a quest'ultimo verificare se sussistano gli elementi costitutivi di una pratica abusiva.

    Con riferimento al primo requisito, la Corte rileva che operazioni quali quelle oggetto del procedimento principale minano la concorrenza tra gli operatori, in quanto consentono ad un importatore tradizionale, che ha esaurito i propri titoli "A", di rifornirsi di aglio importato a dazio agevolato ed estendere la sua influenza sul mercato oltre la quota del contingente tariffario ad esso attribuito.

    Riguardo al profilo soggettivo, per escludere l'esistenza di una pratica abusiva, secondo la Corte è necessario accertare che le operazioni in questione abbiano una giustificazione economica e commerciale, ad esempio il fatto che il prezzo di vendita della merce sia fissato a un livello tale da permettere agli importatori che hanno rivenduto alla Duoccio di trarre un significativo guadagno.

    La Corte di giustizia conclude che l'articolo 6 del regolamento n. 341/2007 non osta, in via di principio, ad operazioni mediante le quali un importatore, intestatario di titoli d'importazione ad aliquota ridotta, acquisti una merce al di fuori dell'Unione da un operatore, che abbia esaurito i propri titoli d'importazione ad aliquota ridotta, e poi gliela rivenda dopo averla importata nell'Unione. Tuttavia, simili operazioni costituiscono un abuso di diritto quando siano state concepite artificiosamente allo scopo essenziale di beneficiare del dazio agevolato. La verifica dell'esistenza di una pratica abusiva richiede che il giudice del rinvio prenda in considerazione tutti i fatti e le circostanze del caso di specie, comprese le operazioni commerciali precedenti e successive all'importazione oggetto della causa.

  • C-596/12

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    Assegnata in data: 29/05/2014

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Commissione europea chiede alla Corte di giustizia di constatare che, avendo escluso la categoria dei dirigenti dall'applicazione degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, recante disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e di recepimento della direttiva 98/59/CE, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi imposti da tale direttiva, che concerne il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.

    Sulla base della distinzione di quattro categorie di lavoratori (dirigenti, quadri, impiegati e operai), prevista dall'articolo 2095 del codice civile, il legislatore italiano ha previsto l'applicazione degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 a tutti i lavoratori, ad esclusione dei dirigenti. In particolare, mentre per le altre categorie, in caso di licenziamenti collettivi, il datore di lavoro deve seguire una procedura che prevede, in primo luogo, la consultazione delle parti sociali per esperire il tentativo di soluzioni alternative (riduzione o esclusione dei licenziamenti) e, in secondo luogo, il ricorso alle misure di accompagnamento dell'indennità di mobilità nonché dell'iscrizione alle liste di mobilità, per i dirigenti i contratti collettivi prevedono, in caso di licenziamento collettivo, una misura economica di risarcimento.

    La Corte di giustizia - precisando che la nozione di «lavoratore» prevista dalla direttiva ha una portata comunitaria e non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri - chiarisce che la categoria dei dirigenti può essere pienamente ricondotta in tale nozione, dal momento che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è, al pari degli altri lavoratori, la fornitura, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest'ultimo, di prestazioni, in contropartita delle quali è prevista una retribuzione.

    In secondo luogo, la Corte, richiamando lo scopo della direttiva di ravvicinare le disposizioni nazionali relative alla procedura da seguire in caso di licenziamenti collettivi, respinge l'argomento sostenuto dalla Repubblica italiana, secondo il quale la normativa e i contratti collettivi riguardanti specificamente i dirigenti rappresenterebbero norme più favorevoli ai lavoratori ai sensi dell'articolo 5 della direttiva. La Corte osserva che, non sussistendo a carico dei datori di lavoro l'obbligo di esperire tentativi per verificare la possibilità di evitare o ridurre tali licenziamenti attraverso la consultazione delle parti sociali, la direttiva 98/59/CE sarebbe parzialmente privata del suo effetto utile, a prescindere dalle misure sociali di accompagnamento previste in caso di messa in mobilità.

    La Corte aggiunge che la direttiva 98/58/CE, a parte i casi tassativamente previsti dall'articolo 1 (contratti a tempo determinato, dipendenti dalle pubbliche amministrazioni, equipaggi di navi marittime), non ammette, né in modo esplicito né in modo tacito, alcuna possibilità per gli Stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione determinate categorie di lavoratori.

    Per tali motivi, la Corte, accogliendo il ricorso della Commissione, dichiara che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva 98/59/CE e la condanna alle spese.

  • C-537/11

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    Assegnata in data: 29/05/2014

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 2, punto 3-octies, e 4-bis, paragrafo 4, della direttiva 1999/32/CE sulla riduzione del tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi. Il procedimento principale è stato promosso presso il tribunale di Genova dal comandante della nave da crociera MSC Orchestra, battente bandiera panamense e appartenente alla Compagnia Naviera Orchestra, che ha proposto opposizione avverso la sanzione amministrativa irrogata dalla Capitaneria di Porto di Genova per la violazione del limite massimo di zolfo di 1,5 per cento in massa, previsto dagli articoli 295 e 296 del decreto legislativo n. 152/2006, che hanno recepito la direttiva 1999/32/CE. Sia il diritto internazionale sia la normativa europea prevedono un limite massimo di zolfo nei combustibili per uso marittimo allo scopo di ridurre le emissioni di anidride solforosa, i cui effetti sono nocivi per le persone e per l'ambiente. La Convenzione internazionale per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi, firmata a Londra nel '78 e completata dal protocollo del 1978 (cosiddetta convenzione Marpol 73/78) fissa il limite massimo del tenore di zolfo in 4,5 per cento in massa. Tra le parti contraenti la convenzione Marpol figurano anche 27 Stati membri dell'UE, tra cui l'Italia ma non anche l'UE in quanto tale. La direttiva europea 1999/32/CE, invece, fissa tale limite all'1,5 per cento in massa. Essa si applica alle navi passeggeri che svolgono servizio di linea da o verso qualsiasi porto comunitario. Sulla base degli argomenti contenuti nel ricorso, il Tribunale di Genova ha sospeso il procedimento principale e sottoposto alla Corte europea le seguenti questioni pregiudiziali: 1) se il limite dell'1,5 per cento fissato dalla direttiva 1999/32/CE si applichi alle navi battenti bandiera di uno Stato non appartenente alla UE e contraente la convenzione Marpol 73/78, quando queste si trovano nel porto di uno Stato membro dell'UE; 2) se il limite fissato dalla direttiva sia in contrasto con il principio generale di diritto internazionale pacta sunt servanda nonché con il principio di leale collaborazione tra Comunità e Stati membri contraenti la convenzione, in quanto questi sarebbero costretti a venire meno agli obblighi assunti nei confronti degli altri Stati contraenti la convenzione; 3) se la nozione di "servizio di linea", di cui all'articolo 2, punto 3-octies della direttiva debba essere interpretata nel senso che tra le navi esercenti "servizio di linea" si annoverino anche le navi da crociera. Con riferimento all'ultima questione, ad avviso della Corte, la direttiva 1999/32/CE può applicarsi alle navi da crociera, che effettuano crociere, con o senza scali intermedi, che si concludono nel porto di partenza o in un altro porto, a condizione che tali crociere siano organizzate con una determinata frequenza, in date precise e, in linea di principio, a orari di partenza e di arrivo precisi e che gli interessati possano scegliere tra le diverse crociere offerte. Tale ultima circostanza è rimessa all'accertamento del giudice del rinvio. Con riferimento alla questione della violazione dei principi del diritto internazionale, ad avviso della Corte, la validità dell'articolo 4-bis della direttiva 1999/32/CE non può essere giudicata alla luce del rispetto di tali principi, dal momento che l'Unione europea non è parte contraente della convenzione Marpol 73/78 e, quindi, non è vincolata al rispetto della medesima. Il principio generale pacta sunt servanda vincola esclusivamente le parti contraenti un accordo internazionale. Infine, non spetta alla Corte pronunciarsi sulla questione relativa all'incidenza del limite fissato dalla Convenzione Marpol 73/78 sulla direttiva 1999/32/CE, in quanto non tutti gli Stati membri dell'UE sono parti contraenti la convenzione Marpol 73/78.

  • C-361/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 22/04/2014

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Causa C-361/12: Sentenza della Corte (Terza sezione) del 12 dicembre 2013. Carmela Carratù contro Poste italiane Spa. Domanda di pronuncia pregiudiziale: tribunale di Napoli. Politica sociale - Direttiva 1999/70/CE - Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato - Principio di non discriminazione - Nozione di "condizioni di lavoro" - Normativa nazionale che prevede un regime di risarcimento del danno in caso di illecita apposizione di un termine al contratto di lavoro diverso da quello applicabile all'illecita interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (Doc. LXXXIX, n. 34) - alla XI Commissione (Lavoro);

  • C-272/12 P

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 22/04/2014

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con l'impugnazione proposta il 1° giugno 2012, la Commissione europea ha chiesto alla Corte l'annullamento della sentenza del Tribunale dell'Unione europea del 21 marzo 2012, che ha annullato la decisione 2006/323/CE della Commissione (di seguito, la "decisione controversa"), relativa all'esenzione dall'accisa sugli oli minerali utilizzati come combustibile per la produzione di allumina nella regione di Gardanne, nella regione di Shannon e in Sardegna; in particolare, l'annullamento disposto dal Tribunale riguardava la parte in cui tale decisione accertava che le esenzioni dalle accise sugli oli minerali usati come combustibile concesse fino al 31 dicembre 2003, costituiscono aiuti di Stato a norma dell'articolo 107, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE), nonché la parte in cui ordina ai suddetti Stati membri di adottare tutte le misure necessarie per recuperare le esenzioni presso i loro beneficiari nella misura in cui questi ultimi non hanno versato un'accisa pari ad almeno 13,01 euro per 1 000 kg di oli combustibili pesanti.

    Le accise sugli oli minerali sono state oggetto di diverse direttive, in particolare la direttiva 92/81/CEE, relativa all'armonizzazione delle strutture delle accise sugli oli minerali, la direttiva 92/82/CEE, relativa al ravvicinamento delle aliquote di accisa sugli oli minerali e la direttiva 2003/96/CE, che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell'elettricità, che ha abrogato le direttive 92/81 e 92/82 con effetto dal 31 dicembre 2003.

     L'articolo 8 della direttiva 92/81 disponeva che:

    -       il Consiglio, deliberando all'unanimità, su proposta della Commissione, può autorizzare uno Stato membro ad introdurre ulteriori esenzioni o riduzioni in base a considerazioni politiche specifiche. Qualora uno Stato membro intenda introdurre una siffatta misura, ne informa la Commissione. La Commissione informa della misura proposta gli altri Stati membri entro un mese. Si considera che il Consiglio abbia autorizzato l'esenzione o la riduzione proposta qualora, entro due mesi dal momento in cui gli altri Stati membri sono stati informati come stabilito nel secondo comma, né la Commissione, né alcuno Stato membro abbiano chiesto che la questione venga discussa in sede di Consiglio.

    -       qualora la Commissione ritenga che non possono più essere mantenute le esenzioni o riduzioni, in particolare per considerazioni di concorrenza sleale, di distorsioni nel funzionamento del mercato interno o di protezione dell'ambiente, essa presenta le opportune proposte al Consiglio, che decide all'unanimità.

    La direttiva 2003/96 ha autorizzato gli Stati membri a continuare ad applicare, fino al 31 dicembre 2006, le aliquote ridotte o le esenzioni elencate al suo allegato II, incluse dunque quelle previste per produzione di allumina nella regione di Gardanne (dal 1997), di Shannon (dal 1983) e in Sardegna (dal 1993).

     

    Tali esenzioni (di seguito denominate "esenzioni controverse") erano state autorizzate, rispettivamente, dalle decisioni 92/510/CEE, 93/697/CE, e 97/425/CE, più volte prorogate dal Consiglio, da ultimo fino al 31 dicembre 2006 con decisione 2001/224/CE.

    Al considerando 5, quest'ultima decisione precisava che essa non pregiudicava l'esito di eventuali procedimenti in materia di distorsioni di funzionamento del mercato unico, che potrebbero essere in particolare intentati a norma degli articoli 107 e 108 del TFUE, e che essa non dispensava gli Stati membri, a norma dell'articolo 108, dall'obbligo di comunicare alla Commissione gli aiuti di Stato che possono essere istituiti.

    Il 30 ottobre 2001, la Commissione ha avviato il procedimento previsto all'articolo 108, paragrafo 2, del TFUE nei confronti di ciascuna delle esenzioni controverse. In esito a tale procedimento, la Commissione ha adottato la citata decisione controversa, in forza della quale:

    -       le esenzioni dall'accisa sugli oli combustibili pesanti utilizzati nella produzione di allumina, concesse dall'Irlanda, dalla Repubblica francese e dalla Repubblica italiana fino al 31 dicembre 2003, costituiscono aiuti di Stato ai sensi dell'articolo 107, paragrafo 1, del TFUE;

    -       gli aiuti concessi fra il 17 luglio 1990 e il 2 febbraio 2002 (ovvero anteriormente alla data di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'UE delle decisioni di avvio del procedimento ex art. 108 del TFUE), non sono soggetti a recupero, poiché ciò sarebbe contrario ai principi generali del diritto comunitario, in particolare alla tutela del legittimo affidamento e alla certezza del diritto;

    -       gli aiuti concessi fra il 3 febbraio 2002 e il 31 dicembre 2003 sono incompatibili con il mercato comune: pertanto, questi ultimi aiuti devono essere recuperati.

    Nella sentenza impugnata il Tribunale aveva annullato la decisione controversa, accogliendo i motivi dedotti dalle parti, vertenti sulla violazione dei principi della certezza del diritto e della presunzione di legittimità degli atti dell'Unione europea; con tale motivi le ricorrenti addebitavano in sostanza alla Commissione di avere, con la suddetta decisione, parzialmente azzerato gli effetti giuridici prodotti dalle decisioni di autorizzazione. Esaminando questi motivi, il Tribunale ha ritenuto che tali decisioni impedissero che la Commissione potesse imputare agli Stati membri interessati le esenzioni controverse e, pertanto, che essa potesse qualificarle come aiuti di Stato.

    Nella sentenza in oggetto, la Corte innanzi tutto accerta un errore di diritto da parte del Tribunale che ha rilevato d'ufficio il motivo secondo cui le esenzioni controverse sarebbero imputabili non agli Stati membri ma all'Unione, senza che nessuna delle parti ricorrenti avesse fatto valere tale motivo in giudizio.

    In secondo luogo, la Corte osserva che la sentenza del Tribunale ha stabilito che, al momento dell'adozione della decisione controversa, la decisione 2001/224 continuava ad essere valida e che essa, nonché le decisioni che l'avevano preceduta e la direttiva 92/81/CE, beneficiavano della presunzione di legittimità inerente agli atti dell'Unione e producevano tutti i loro effetti giuridici. Per il Tribunale, dunque, l'Irlanda, la Francia e l'Italia erano autorizzate a basarsi su tali decisioni per continuare ad applicare le esenzioni controverse, e la decisione controversa violava in tal modo i principi della certezza del diritto e della presunzione di legittimità degli atti dell'Unione.

    Tuttavia, ad avviso della Corte il Tribunale ha trascurato le rispettive competenze del Consiglio e della Commissione in materia di armonizzazione delle normative sulle accise, da un lato, e in materia di aiuti di Stato, dall'altro. Infatti, con la scelta di prevedere nel Trattato, all'articolo 108, l'esame permanente ed il controllo degli aiuti da parte della Commissione, si è inteso riservare ad essa un ruolo centrale per il riconoscimento dell'eventuale incompatibilità di un aiuto. Quanto al potere di cui il Consiglio si trova investito in materia di aiuti di Stato in forza dell'articolo 108, paragrafo 2, terzo comma, esso ha carattere eccezionale, il che comporta che debba necessariamente essere oggetto di un'interpretazione restrittiva. Pertanto, una decisione del Consiglio che autorizza uno Stato membro a introdurre un'esenzione dalle accise non poteva produrre l'effetto di impedire alla Commissione di esercitare le competenze ad essa assegnate dal Trattato e, di conseguenza, di attuare il procedimento previsto dall'articolo 108  e di adottare, ove necessario, in esito a tale procedimento, una decisione quale la decisione controversa.

    Alla luce di queste considerazioni la Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia la causa dinanzi al Tribunale.

  • C-94/12

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    Assegnata in data: 20/11/2013

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal Tribunale amministrativo regionale per le Marche verte sull’interpretazione dell’articolo 47, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi. Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia fra la Swm Costruzioni 2 S.p.A. e la Mannocchi Luigino DI - che hanno costituito un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) - e la Provincia di Fermo, relativamente alla decisione di quest’ultima di escludere detto RTI dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori.

    La Provincia di Fermo ha avviato una procedura di appalto di lavori di ammodernamento ed ampliamento di una strada provinciale, del valore stimato superiore alla soglia di applicazione dell’art. 7 della direttiva 2004/18, in cui si richiedeva ai concorrenti di dimostrare le relative capacità tecniche e professionali presentando un’attestazione SOA corrispondente alla natura e all’importo dei lavori oggetto dell’appalto. Il raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) formato dalla Swm e dalla Mannocchi Luigino DI ha partecipato alla gara attraverso la mandataria Swm che, al fine di soddisfare il requisito relativo alla classe di attestazione SOA necessaria, si è avvalsa delle attestazioni SOA di due imprese terze. Il RTI, escluso dalla gara in considerazione del divieto generale di avvalimento plurimo all’interno della medesima categoria di qualificazione (articolo 49, comma 6, dlgs. n. 163/2006), ha quindi adito il TAR Marche con un ricorso avverso la decisione di esclusione.

    Il DPR n. 34, del 25 gennaio 2000 - Regolamento recante istituzione del sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori pubblici - stabilisce che gli appalti pubblici di lavori di importo superiore a 150.000 euro possono essere eseguiti unicamente da imprese in possesso delle attestazioni emesse dalle società di attestazione (SOA). Il decreto legislativo n. 163, del 12 aprile 2006, recante Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, dispone che per i lavori il concorrente può avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione. Il bando di gara può ammettere l’avvalimento di più imprese ausiliarie in ragione dell’importo dell’appalto o della peculiarità delle prestazioni.

    Il TAR Marche ha richiamato alcune pronunce del Consiglio di Stato secondo le quali, da un lato, il divieto in parola non è applicabile alle imprese costituenti un RTI quando quest’ultimo sia esso stesso candidato o offerente; d’altro lato, un concorrente non può cumulare la propria attestazione SOA e quella di un soggetto terzo per raggiungere la classe richiesta per un determinato appalto. Il TAR ha deciso quindi di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte di giustizia se la direttiva 2004/18 tolleri una disposizione nazionale che vieta agli operatori economici partecipanti ad un appalto pubblico di lavori di far valere, per una medesima categoria di qualificazione, le capacità di più imprese.

    La Corte nella sua sentenza ricorda che, ai sensi dell’articolo 44, paragrafo 1, della direttiva 2004/18, l’amministrazione aggiudicatrice – cui spetta verificare l’idoneità dei candidati conformemente ai criteri della direttiva - può richiedere ai candidati stessi di provare la loro capacità economica e finanziaria (mediante una dichiarazione concernente il fatturato globale nonché il fatturato del settore di attività oggetto dell’appalto) e le loro capacità tecniche (presentando l’elenco dei lavori eseguiti negli ultimi cinque anni). L’amministrazione aggiudicatrice deve tuttavia tener conto del diritto che gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18 riconoscono all’operatore economico di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi, purché dimostri che disporrà dei mezzi necessari per eseguire l’appalto.

    Secondo la Corte, la direttiva riconosce ad ogni operatore economico la facoltà di avvalersi di mezzi appartenenti ad uno o a svariati altri soggetti, eventualmente in aggiunta ai propri mezzi. Un’interpretazione del genere è conforme peraltro all’obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, obiettivo perseguito dalle direttive a vantaggio non soltanto degli operatori economici, ma anche delle amministrazioni aggiudicatrici, facilitando l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici. Non si può escludere l’esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori e, in un’ipotesi del genere, l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo della capacità in questione sia raggiunto da un operatore economico unico o da un numero limitato di operatori economici, laddove siffatta esigenza sia connessa e proporzionata all’oggetto dell’appalto interessato. Tuttavia, tale ipotesi costituisce una situazione eccezionale e non può essere assurta a regola generale nella disciplina nazionale.

    Per questi motivi, la Corte dichiara che la direttiva 2004/18/CE osta ad una disposizione nazionale, la quale vieta agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, delle capacità di più imprese.

  • C-369/11

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    Assegnata in data: 20/11/2013

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Commissione con il suo ricorso sostiene, in primo luogo, che la normativa italiana non rispetti il requisito dell’indipendenza di gestione del gestore dell’infrastruttura (Rete Ferroviaria Italiana SpA – RFI), requisito previsto dall’art. 4, paragrafo 1, della direttiva 2001/14/CE relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria e all’imposizione dei diritti per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria. RFI è infatti incaricata del calcolo dei diritti di accesso alla rete ferroviaria e della loro riscossione, ma sulla base delle tariffe fissate dal Ministero dei Trasporti.

    In secondo luogo la Commissione ritiene che la normativa italiana non rispetti l’indipendenza dell’organismo di regolamentazione (l’Ufficio per la regolazione dei Servizi Ferroviari – URSF), in quanto costituito da funzionari del Ministero dei Trasporti, ministero che continuerebbe ad esercitare un’influenza decisiva sul gruppo delle Ferrovie dello Stato, il quale comprende la principale impresa ferroviaria italiana (Trenitalia), e quindi anche su quest’ultima.

    Per ciò che riguarda la prima censura, la Corte rammenta che secondo il summenzionato art. 4 spetta agli Stati membri stabilire un quadro per l’imposizione dei diritti, mentre la determinazione di questi ultimi e la loro riscossione spettano al gestore dell’infrastruttura. Il ruolo del gestore non puòpertanto limitarsi a calcolare l’importo del diritto applicando una formula fissata da un decreto ministeriale, ma deve poter disporre di un certo grado di flessibilità nella fissazione di tale importo. Il ricorso della Commissione appare quindi fondato.

    Per quanto riguarda la seconda censura, invece, la Corte sostiene che la Commissione non può far leva sulla sola circostanza che che l’URSF appartiene al Ministero dei Trasporti per concludere che esso non è indipendente. Gli argomenti addotti dalla Commissione rivestono tutti carattere generico e si concentrano essenzialmente sul fatto che l’URFS è un soggetto facente parte del Ministero, ma una siffatta appartenenza non è vietata dalla direttiva 2001/14 – che anzi la prevede espressamente all’art. 30, paragrafo 1 della direttiva 2001/14/CE - e la Commissione non fa valere altri argomenti circostanziati a sostegno della sua censura, che pertanto è respinta.

  • C-353/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 20/11/2013

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza ha per oggetto il ricorso con il quale la Commissione ha chiesto di condannare l’Italia per non aver preso, nei termini stabiliti, tutti i provvedimenti necessari per recuperare l’aiuto concesso dal Governo italiano in favore di Ixfin S.p.A. (società di diritto italiano che opera nel settore della produzione e assemblaggio di prodotti elettronici), dichiarato illegittimo ed incompatibile con il mercato interno dalla decisione 2010/359/CE del 28 ottobre 2009.

    Nel novembre 2005 un decreto del Ministero per lo sviluppo economico concede alla Ixfin S.p.A. la garanzia dello Stato su un prestito di 15 milioni di euro dalla BancApulia S.p.A. Nell’agosto 2006 l’Italia informa la Commissione che la Ixfin è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli. Dopo indagine formale, la Commissione nell’ottobre 2009 adotta la decisione 2010/359/CE, in cui dichiara che l’aiuto accordato alla Ixfin S.p.A costituisce un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno (dal momento che la garanzia sui prestiti concessa all’azienda non è stata seguita da un piano di ristrutturazione comprovante il ripristino della redditività della società, come prevedono gli Orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese in difficoltà) e stabilisce che l’Italia, entro 4 mesi dalla notifica della decisione, proceda al recupero dell’aiuto. Inoltre, entro 2 mesi dalla notifica della decisione, l’Italia dovrà provvedere ad informare la Commissione circa l’importo complessivo dell’aiuto, i provvedimenti adottati e previsti per dare esecuzione alla decisione e i documenti attestanti che al beneficiario è stato ingiunto di rimborsare l’aiuto. Nel luglio 2012 la Commissione, sulla base del rilievo che al 1° marzo 2010, data di scadenza del termine di esecuzione della decisione 2010/359, la Repubblica italiana non ha recuperato l’aiuto di cui trattasi, presenta ricorso per inadempimento presso la Corte. La Commissione addebita all’Italia anche il fatto di essere venuta meno all’obbligo di informazione che le incombeva in base all’art. 4 della summenzionata decisione.

    L’Italia argomenta che quando il beneficiario di un aiuto è stato dichiarato fallito, la domanda di iscrizione del credito al passivo è sufficiente a far considerare recuperato tale aiuto. Nel caso di specie, la domanda risalirebbe al novembre 2006, cioè prima della stessa adozione della decisione. E’ vero che l’iscrizione del credito è stata effettuata solo successivamente e cioè dopo la scadenza del termine fissato dalla decisione per il recupero dell’aiuto, ma ciò è avvenuto a causa della complessità delle procedure fallimentari italiane. Infine, la Repubblica italiana ritiene di aver costantemente tenuto informata la Commissione di tutte le misure dirette all’esecuzione della decisione.

    La Corte dichiara la fondatezza del ricorso della Commissione, poiché l’Italia non ha emanato, entro il termine prescritto, tutte le misure necessarie per procedere al recupero degli aiuti dichiarati illegittimi ed incompatibili con il mercato comune. La Corte, richiamando la sua precedente giurisprudenza, ribadisce che lo Stato membro destinatario di una decisione che gli impone di recuperare aiuti illegittimi è tenuto, ai sensi dell’art. 288, quarto comma, del TFUE, ad adottare ogni misura idonea ad assicurare l’esecuzione di tale decisione e il fatto che un’impresa sia in difficoltà o in stato di fallimento non ha alcuna incidenza sull’obbligo di recupero. In linea di principio, l’eliminazione della distorsione della concorrenza risultante dagli aiuti illegittimamente erogati può essere attuata mediante l’iscrizione al passivo fallimentare del credito relativo alla restituzione degli aiuti in questione; nel caso specifico, tuttavia, tale iscrizione è intervenuta dopo la scadenza del termine fissato nella decisione 2010/359 per il recupero dell’aiuto. Con riferimento all'argomento addotto dall'Italia della complessità delle procedure nazionali di fallimento, la Corte ribadisce che il solo mezzo di difesa che uno Stato membro può opporre ad un ricorso per inadempimento è quello relativo all’impossibilità assoluta di dare correttamente esecuzione alla decisione 2010/359; nella fattispecie, l’Italia non solo non ha invocato tale impossibilità assoluta, ma non ha assunto alcuna vera iniziativa nei confronti delle imprese interessate ai fini di recuperare l’aiuto né ha proposto alla Commissione modalità alternative di esecuzione della decisione.

    Sulla base di questi argomenti, la Corte dichiara l’Italia inadempiente alla decisione 2010/359, per non avere adottato entro i termini prescritti tutti i provvedimenti necessari per recuperare gli aiuti concessi - oltre che per non avere comunicato alla Commissione, entro il termine assegnato, le informazioni elencate all'articolo 4 di tale decisione - e la condanna alle spese.

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