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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-566/10 P

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/12/2012

    Commissione: XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Impugnazione proposta avverso la sentenza del Tribunale (Sesta Sezione) 13 settembre 2010, Italia/Commissione (cause riunite T-166/07 e T 285/07), con la quale il Tribunale ha respinto una domanda di annullamento dei bandi di concorso generale EPSO/AD/94/07 (GU C 45 A, pag. 3), EPSO/AST/37/07 (GU C 45 A, pag. 15) e EPSO/AD/95/07 (GU C 103 A, pag. 7)

  • C-182/11 e C-183/11

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/12/2012

    Commissione: I COMMISSIONE (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione del diritto dell'Unione europea in materia di presupposti che giustificano l'affidamento diretto di un servizio di interesse pubblico (cosiddetto affidamento “in house”). La domanda di pronuncia pregiudiziale era stata sollevata il 23 febbraio 2011 dal Consiglio di Stato nell'ambito di controversie instaurate dalla Econord SpA contro i comuni di Varese, Cagno e Solbiate, riguardanti la regolarità dell'affidamento diretto, da parte dei due ultimi comuni, di un appalto di servizi alla ASPEM SpA senza l'organizzazione della relativa procedura di aggiudicazione, come previsto dall'articolo 1 della direttiva 2004/18/CE.

    Il Comune di Varese, al fine di effettuare la gestione “in house” dei servizi di igiene urbana, aveva costituito la ASPEM sulla quale, all'epoca dei fatti, esercitava il controllo detenendo la quasi totalità del suo capitale. Ai fini della gestione del servizio di eliminazione dei rifiuti solidi urbani, con deliberazioni del 2005, i comuni di Cagno e Solbiate avevano optato per la gestione coordinata con altri comuni, ai sensi degli articoli 30 e 113 del d.lgs. n. 267/2000; a tale scopo avevano concluso una convenzione con il Comune di Varese per l'affidamento, a titolo oneroso, dei loro servizi di igiene urbana alla ASPEM, aderendo a tale società in qualità di azionisti. Nel contempo i due comuni in questione, insieme con altri comuni interessati, avevano sottoscritto un patto parasociale tra azionisti, il quale prevedeva il loro diritto di essere consultati, nominare un membro del collegio sindacale e designare un consigliere di amministrazione della ASPEM. In tale contesto, i suddetti comuni avevano ritenuto che esistessero i presupposti per un affidamento “in house” del servizio di interesse pubblico in questione, dal momento che la ASPEM era controllata congiuntamente da vari enti locali. La Econord SpA contestava tale affidamento diretto, facendo valere che il controllo dei due comuni sulla ASPEM non era garantito e che, di conseguenza, si sarebbe dovuta organizzare una procedura di aggiudicazione in conformità con le norme del diritto dell'UE.

    Con riferimento alla normativa italiana, il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (decreto legislativo n. 267/2000) all'articolo 30 stabilisce la possibilità per gli enti locali di stipulare tra loro apposite convenzioni al fine di svolgere in modo coordinato determinati funzioni e servizi. All'articolo 113 si dispone che l'erogazione di un servizio pubblico locale da parte di un ente locale deve avvenire secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'UE, con conferimento della titolarità del servizio a società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano.

    Per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di affidamento in house, un'amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall'avviare una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico nel caso in cui essa eserciti sull'entità affidataria un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l'amministrazione o le amministrazioni aggiudicatrici che la controllano. Sussiste un «controllo analogo» quando l'entità di cui trattasi è assoggettata a un controllo che consente all'amministrazione aggiudicatrice di influenzare le decisioni dell'entità medesima; nel caso poi in cui venga fatto ricorso ad un'entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il «controllo analogo» può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente da ciascuna di esse.

    La Corte di giustizia chiarisce che, ove più autorità pubbliche facciano ricorso ad un'entità comune ai fini dell'adempimento di un compito comune di servizio pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse detenga da sola un potere di controllo individuale su tale entità; al contempo, tuttavia, il controllo esercitato su quest'ultima non può fondarsi soltanto sul potere di controllo dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza nel capitale dell'entità in questione, e ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato la nozione stessa di controllo congiunto.

    La Corte - rimettendo al giudice del rinvio la verifica dell'effettivo esercizio di un controllo congiunto sull'ASPEM da parte dei Comuni di Cagno e di Solbiate - conclude quindi che, in caso di istituzione di un'entità comune da parte di più autorità pubbliche, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della Corte dell'esercizio congiunto di un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi dell'entità suddetta.

  • C-385/10

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    Assegnata in data: 08/11/2012

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione della direttiva 89/106/CEE relativa ai prodotti da costruzione, nonché sull'interpretazione degli articoli 34 e 36 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE) relativi alla libera circolazione delle merci. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dal Consiglio di Stato con una decisione del 27 aprile 2010.

    La direttiva 89/106/CEE è volta a consentire la libera commercializzazione dei prodotti da costruzione all'interno dell'UE, mediante l'individuazione di requisiti essenziali che devono essere attuati da norme armonizzate e da norme nazionali di trasposizione, da benestare tecnici europei nonché da specifiche tecniche nazionali riconosciute a livello UE. Ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 2, della citata direttiva, gli Stati membri sono tenuti ad autorizzare l'immissione sul proprio mercato di un prodotto da costruzione se soddisfa prescrizioni nazionali conformi al Trattato, fintantoché le specifiche tecniche europee non dispongano altrimenti.

    Le norme italiane impugnate sono il decreto legislativo n. 152/2006 recante norme in materia ambientale, e la circolare n. 4853/2009 del Ministero dell'Interno – Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile, che subordinano la possibilità di commercializzazione di guaine gonfiabili per camini e canne fumarie - che sono «prodotti da costruzione» ai sensi della citata direttiva - provenienti da un altro Stato membro dell'Unione europea, in questo caso l'Ungheria, ad un requisito tecnico, ossia l'apposizione della marcatura CE, al quale non è possibile ottemperare, in quanto allo stato attuale tali prodotti non sono oggetto né di una norma armonizzata o di un benestare tecnico europeo, né di una specifica tecnica nazionale riconosciuta a livello UE.

    In base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, le normative commerciali degli Stati membri dirette ad ostacolare il commercio nell'ambito dell'UE devono essere considerate come misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative ai sensi dell'articolo 34 del TFUE. Da tale articolo deriva l'obbligo di rispettare i principi di non discriminazione e di mutuo riconoscimento dei prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in altri Stati membri e di assicurare, altresì, ai prodotti dell'UE libero accesso ai mercati nazionali

    Ad avviso della Corte, la normativa italiana precedentemente richiamata di fatto impedisce l'importazione e la distribuzione dei prodotti da costruzione commercializzati legalmente in altri Stati membri sul territorio dello Stato italiano, e deve essere quindi considerata come avente un effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all'importazione; tali misure costituiscono, pertanto, un ostacolo alla libera circolazione delle merci. Come stabilito all'articolo 36 del TFUE, un ostacolo alla libera circolazione delle merci può essere giustificato da motivi di interesse generale o da ragioni imperative, a condizione tuttavia che le misure nazionali adottate a tal fine siano idonee a garantire la realizzazione dell'obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario per il suo raggiungimento. Sebbene il Governo italiano giustifichi la normativa nazionale controversa con l'obiettivo di tutelare la pubblica sicurezza, la salute e la vita delle persone, ad avviso della Corte una normativa che vieta in maniera automatica ed assoluta la commercializzazione nel territorio nazionale di prodotti legalmente commercializzati in altri Stati membri, perché detti prodotti non recano la marcatura CE, non è compatibile con il requisito di proporzionalità posto dal diritto dell'UE.

    Nella sentenza in oggetto la Corte di giustizia conclude che la direttiva 89/106/CEE e gli articoli 34 e 36 del TFUE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a prescrizioni nazionali che subordinano d'ufficio la commercializzazione di prodotti da costruzione provenienti da un altro Stato membro, all'apposizione della marcatura CE.

  • C-302/11 (cause riunite C-302/11, C-303/11, C-304/11, C-305/11)

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    Assegnata in data: 08/11/2012

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione della clausola 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999.

    Le controversie all'origine della domanda di pronuncia pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato nascevano dal ricorso proposto da alcune dipendenti nei confronti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) avverso il rifiuto di quest'ultima di prendere in considerazione periodi di servizio precedentemente svolti presso l'autorità medesima nell'ambito di contratti di lavoro a tempo determinato. La domanda di pronuncia in via pregiudiziale aveva ad oggetto la compatibilità con l'accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato della normativa italiana (legge finanziaria 2007, L. 296/2006) la quale consente l'assunzione diretta di lavoratori precari in deroga alla regola del pubblico concorso per l'accesso al pubblico impiego, ma con inquadramento in ruolo nel livello iniziale della categoria retributiva, senza conservazione dell'anzianità maturata durante il periodo del contratto a termine o di specializzazione. La clausola 4 dell'accordo quadro stabilisce che i lavoratori a tempo determinato non devono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto che lavorano a tempo determinato, salvo che ragioni oggettive giustifichino un trattamento differente.

    La Corte, richiamando la sua precedente giurisprudenza, afferma che il principio di non discriminazione, espresso nella clausola 4 dell'accordo quadro,  impone che situazioni comparabili non siano trattate in modo differente e che situazioni differenti non siano trattate in modo identico e rimette al giudice del rinvio stabilire se le dipendenti, allorché esercitavano le loro funzioni nell'ambito di un contratto a tempo determinato, si trovassero in una situazione comparabile a quella dei dipendenti di ruolo assunti a tempo indeterminato, e, in tal caso, se sussistessero “ragioni oggettive” che ne giustificavano tale differenza di trattamento. Con riferimento a tale secondo profilo, la Corte precisa che il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto periodi di servizio sulla base di un contratto o di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere.

    La Corte conclude che la clausola 4 dell'accordo quadro osta ad una normativa nazionale, quale quella italiana, che escluda totalmente che vengano presi in considerazione tutti i periodi di servizio compiuti nell'ambito di contratti a tempo determinato al fine di determinare l'anzianità al momento dell'assunzione a tempo indeterminato, a meno che  la citata esclusione sia giustificata da «ragioni oggettive», che tuttavia non sussistono per il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto o di un rapporto di lavoro a tempo determinato.

  • C-79/11

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    Assegnata in data: 03/10/2012

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA)

    La Corte ha  giudicato compatibile con il diritto dell'Unione la normativa italiana sulla  responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al Decreto Legislativo n. 231/2001.

    L'articolo 9 della decisione quadro 2001/220/GAI (Diritto di risarcimento nell'ambito del procedimento penale) al paragrafo 1 dispone che ciascuno Stato membro garantisca alla vittima di un reato il diritto di ottenere, entro un ragionevole lasso di tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale, eccetto i casi in cui il diritto nazionale preveda altre modalità di risarcimento.

    Il decreto legislativo n. 231/2001, che  ha introdotto nel diritto italiano l'istituto giuridico della responsabilità da «illecito amministrativo» da reato delle persone giuridiche, non detta espresse disposizioni riguardo alla possibilità di effettuare la costituzione di parte civile nei confronti di persone giuridiche chiamate a rispondere della responsabilità «amministrativa» da reato. Nella domanda di pronuncia pregiudiziale,  il giudice del rinvio osservava che la disciplina nazionale  potrebbe, per questo fatto, non essere compatibile con il diritto dell'Unione, dal momento che il diritto italiano limiterebbe la possibilità per la vittima di ottenere un pieno risarcimento del danno subito e la costringerebbe a proporre una nuova azione per chiedere il risarcimento al di fuori dell'ambito del processo penale.

     Con la sentenza in oggetto, la Corte ritiene la normativa italiana compatibile con il diritto dell'Unione in quanto: 

    • la decisione quadro 2001/220/ GAI è unicamente volta all'elaborazione, nell'ambito del procedimento penale, di norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità e non contiene alcun obbligo  per gli Stati membri di prevedere la responsabilità penale delle persone giuridiche;
    • la decisione quadro garantisce alla vittima il diritto al risarcimento nell'ambito del procedimento penale per «atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro» e che sono «direttamente» all'origine del pregiudizio, laddove, nel  caso di  illecito «amministrativo» da reato ai sensi del decreto legislativo n. 231/2001, la responsabilità della persona giuridica è qualificata come “indiretta” e “sussidiaria“ e si distingue dalla responsabilità penale della persona fisica autrice del reato che ha causato direttamente i danni e alla quale può essere richiesto il risarcimento nell'ambito del processo penale.
  • C-565/10

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    Assegnata in data: 03/10/2012

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI)

    Con la sentenza in esame la Corte di giustizia - a seguito di ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione ai sensi dell'articolo 258 TFUE - ha condannato l'Italia per non aver predisposto adeguati sistemi per il convogliamento e il trattamento delle acque reflue in numerosi centri urbani con oltre 15.000 abitanti, ai sensi degli articoli 3, 4, paragrafi 1 e 3, e 10 della direttiva 91/271/CEE, come modificata dal regolamento n. 1137/2008.

    Secondo l'articolo 3, paragrafo 1, primo comma, primo trattino, della direttiva 91/271, gli agglomerati con un numero di abitanti equivalenti superiore a 15 000 avrebbero dovuto essere provvisti di reti fognarie per le loro acque reflue urbane entro il 31 dicembre 2000.  L'articolo 4, paragrafo 1, prevede che, negli agglomerati con oltre 15 000 abitanti, la totalità delle acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie devono, prima dello scarico, essere sottoposte ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente, al più tardi entro il 31 dicembre 2000. L'articolo 10 prevede che la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane realizzati per ottemperare ai requisiti fissati dalla direttiva debbano essere condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico.

    La Corte ha preso atto della rinuncia della Commissione a procedere riguardo ad alcuni agglomerati urbani avendo l'Italia posto rimedio a numerose situazioni non conformi. Per gli altri agglomerati l'Italia è stata considerata inadempiente. Si tratta di 116 centri urbani non in regola con le disposizioni della direttiva.

    Di questi, 51 erano sprovvisti delle reti fognarie per  le acque reflue urbane  ai sensi dell'articolo 3 della direttiva (18 in Calabria, 1 in Friuli, 1 nel Lazio, 3 in Puglia e 28 in Sicilia) mentre 92 risultavano sprovvisti di adeguati impianti di trattamento secondario delle acque reflue ai sensi dell'art. 4, paragrafi 1 e 3, e dell'art. 10 della direttiva (1 in Abruzzo, 9 in  Calabria, 10 in Campania, 1 in Friuli, 9 in Liguria, 5 in Puglia e 57 in Sicilia).

  • C-36/11

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    Assegnata in data: 03/10/2012

    Commissione: XII COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI), XIII COMMISSIONE (AGRICOLTURA)

    La Corte di giustizia si è pronunciata in via pregiudiziale sull'interpretazione dell' articolo 26-bis della direttiva 2001/18/CE e succ. mod.,  concernente l'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati, che non consente ad uno Stato membro di opporsi in via generale alla messa in coltura sul suo territorio di tali OGM nelle more dell'adozione di misure per gestire la coesistenza tra colture tradizionali, biologiche e OGM volte ad evitare la contaminazione accidentale di questi ultimi.

    Tale interpretazione è altresì collegata alla raccomandazione della Commissione europea in materia del 2003 e alla raccomandazione  del 2010.

     

    La controversia è nata tra la Pioneer Hi Bred Italia Srl e il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali.

    Il 18 ottobre 2006, la Pioneer Hi Bred Italia Srl aveva chiesto l'autorizzazione al Mipaaf alla messa in coltura degli ibridi di mais geneticamente modificati già iscritti nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 212/2001.

     

    Il Mipaaf comunicava con una nota del 12 maggio 2008 (n. 3734) di non poter procedere alla relativa istruttoria nelle more dell'adozione, da parte delle Regioni, di norme atte a garantire la coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e transgeniche (come previsto dalla circolare MIPAAF del 31 maggio 2006).

    Nell'ambito del suo ricorso diretto all'annullamento di detta nota, la Pioneer contestava sia la necessità di un'autorizzazione nazionale per la coltivazione di prodotti quali gli OGM iscritti nel catalogo comune, sia l'interpretazione dell'articolo 26 bis della direttiva 2001/18, secondo la quale la coltivazione di OGM in Italia non sarebbe consentita fino all'adozione degli strumenti normativi regionali idonei a garantire la coesistenza fra colture transegeniche, convenzionali e biologiche.

    Il Consiglio di Stato ha sospeso il procedimento sottoponendo alla Corte la questione pregiudiziale oggetto della sentenza.

     

    L'articolo 26-bis della direttiva 2001/18/CE stabilisce che gli Stati membri possono adottare tutte le misure ritenute opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti e che la Commissione raccoglie e coordina le informazioni sviluppando orientamenti sulla coesistenza di colture geneticamente modificate, convenzionali e organiche.

     

    La raccomandazione della Commissione europea del 2003 afferma che la procedura di concessione definitiva dell'autorizzazione prevista dalla direttiva 2001/18 comprende eventualmente misure specifiche in materia di coesistenza miranti  alla protezione della salute umana e dell'ambiente la cui applicazione è obbligatoria.

     

    La raccomandazione del 13 luglio 2010, nel sostituire quella del 23 luglio 2003, ne riprende e sviluppa gli orientamenti.

    L'articolo 20 del regolamento (CE) n. 1829/2003, relativo al regime degli alimenti e dei mangimi OGM, dispone che i mangimi geneticamente modificati che sono stati legalmente immessi sul mercato UE prima della data di applicazione del citato regolamento, possono rimanere sul mercato e continuare ad essere utilizzati e lavorati purché siano soddisfatte specifiche condizioni elencate nell'articolo.

    L'articolo 16 della direttiva 2002/53 stabilisce inoltre che gli Stati membri vigilino affinché le sementi delle varietà già ammesse e iscritte nel catalogo comune non siano soggette ad alcuna restrizione di mercato per quanto concerne la varietà.

    Secondo la Corte di giustizia UE l'articolo 26-bis della direttiva 2001/18 prevede per gli Stati membri solo una facoltà di introdurre misure di coesistenza.

    L'emanazione da parte di uno Stato membro di un divieto in via generale di coltivazione degli OGM sarebbe pertanto contraria al regime previsto dal regolamento CE 1829/2003 e dalla direttiva 2002/53/CE, che garantiscono la libera e immediata circolazione dei prodotti autorizzati a livello comunitario e iscritti nel catalogo comune, una volta che le necessità di tutela della salute e dell'ambiente siano state prese in considerazione nel corso delle procedure di autorizzazione e di iscrizione.

    Pertanto uno Stato membro, ai sensi dell'articolo 26-bis della direttiva 2001/18 può disporre restrizioni e divieti geograficamente delimitati, solo nel caso e per effetto delle misure di coesistenza realmente adottate. Viceversa uno Stato membro non può, nelle more dell'adozione di misure di coesistenza dirette a evitare la presenza accidentale di organismi geneticamente modificati in altre colture, vietare in via generale la coltivazione di prodotti OGM autorizzati ai sensi della normativa dell'Unione e iscritti nel catalogo comune.

    n.b.:

    La pubblicazione di uno studio condotto dal professor Gilles-Eric Seralini dell'università francese di Caen, che ha evidenziato il rischio di ffetti tossici - quali tumori ghiandolari, malattie a reni e fegato - legati al consumo di prodotti Ogm, ha riaperto il dibattito sul tema. In particolare, l'europarlamentare italiano Oreste Rossi (Lega) ha presentato un'interrogazione in cui chiede al Commissario per la salute John Dalli di attivarsi al più presto per sospendere le attuali autorizzazioni di Ogm sul territorio europeo e di valutare eventuali provvedimenti anche da parte dell'EFSA. L'On. Niccolò Rinaldi (Idv), da parte sua, ha auspicato che lo studio rappresenti "la pietra tombale sulla diffusione degli Ogm" affermando altresì che, ove coltivati, gli OGM contaminano anche i terreni vicini, distruggendo col tempo le coltivazioni tradizionali e tipiche di cui, peraltro, l'Italia è leader mondiale.

  • C-97/11

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    Assegnata in data: 12/07/2012

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI)

    La sentenza si pronuncia sulla richiesta del giudice del rinvio relativa alla  possibilità di disapplicare le disposizioni nazionali che prevedono un tributo regionale a carico dei gestori delle discariche di rifiuti solidi (art. 3, commi 26 e 31 L. 549/95) per contrasto con la normativa europea volta, da un lato, ad assicurare che tutti i costi derivanti dall'impianto e dall'esercizio delle discariche di rifiuti siano coperti dal prezzo applicato dal gestore per lo smaltimento (art. 10 dir. 1999/31/CE) e, dall'altro, ad assicurare  l'esigibilità di interessi in caso di ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali (artt. 1-3 dir. 2000/35/CE).

    Il procedimento principale trae origine dal ricorso della società Amia SpA, gestore di una discarica a Palermo, nei confronti di un avviso di liquidazione indirizzatole dalla Provincia Regionale di Palermo al fine di recuperare il tributo non versato e una sanzione pari al 30% dell'importo del tributo. Il gestore, nel suo ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Palermo,  associa il mancato versamento al ritardo con cui le amministrazioni conferenti i rifiuti nella discarica avrebbero rimborsato il tributo. Il giudice del rinvio evidenzia che, se da un lato la L. 549/45 fissa i termini per il recupero del tributo speciale nei confronti del gestore della discarica, dall'altro non fissa termini ragionevoli che consentano al gestore di essere rimborsato da parte delle amministrazioni conferenti, né stabilisce una procedura efficace ai fini dell'ottenimento di tale rimborso.

    La Corte richiama la sua precedente giurisprudenza (sentenza del 25 febbraio 2010, Pontina Ambiente, C‑172/08), secondo la quale l'articolo 10 della direttiva 1999/31 non osta ad una normativa nazionale che assoggetta i gestori delle discariche ad un tributo come quello previsto dalla L. 549/95, a condizione che tale normativa sia accompagnata da misure volte a garantire che il rimborso del tributo medesimo avvenga effettivamente e a breve termine e che tutti i costi connessi al recupero (in particolare, i costi derivanti dal ritardo nel pagamento delle somme a tal titolo dovute dalle amministrazioni locali ai gestori medesimi) vengano ripercossi nel prezzo che le amministrazioni stesse sono tenute a corrispondere ai gestori. Inoltre gli Stati membri devono far sì che il gestore possa esigere interessi in caso di mora nel pagamento di dette somme imputabile all'amministrazione locale interessata.

    Sotto il profilo della disapplicazione, la Corte afferma in via generale che preliminarmente spetta al giudice verificare se sia possibile giungere a un'interpretazione del diritto nazionale che consenta di comporre la controversia in modo conforme al dettato e alla finalità delle direttive 1999/31 e 2000/35 e - soltanto allorchè siffatta interpretazione non sia possibile - disapplicare le disposizioni nazionali contrarie alla normativa sopra ricordata.

  • C-294/11

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 12/07/2012

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione dell'art. 7, paragrafo 1, primo comma dell'ottava direttiva 79/1072/CEE relativo alle modalità e ai termini per il rimborso dell'imposta sul valore aggiunto ai soggetti passivi non residenti all'interno del Paese. Tale direttiva è stata abrogata e sostituita dalla direttiva 2008/9/CE, ma l'art. 28 di quest'ultima precisa  che le disposizioni dell'ottava direttiva restano applicabili alle domande di rimborso inoltrate anteriormente al 1° gennaio 2010, ciò che è avvenuto nel caso oggetto della causa.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dalla Corte di cassazione chiamata a pronunciarsi sulla controversia tra il Ministero dell'Economia (Agenzia delle Entrate) e la Elsacom NV, società con sede nei Paesi Bassi, in merito al rimborso dell'imposta sul valore aggiunto versata da quest'ultima in Italia nel corso del 1999. L'Elsacom aveva presentato la domanda di rimborso il 27 luglio 2000, e l'amministrazione tributaria aveva motivato il suo diniego al rimborso con il carattere tardivo della domanda, che avrebbe dovuto essere inoltrata, a norma dell'art. 1, secondo comma del decreto del Ministero delle Finanze del 20 maggio 1982, n. 2672, entro il 30 giugno 2000. Il decreto del Ministero delle Finanze ricalca nella sostanza il contenuto dell'art 7, paragrafo 1, primo comma dell'ottava direttiva IVA, in base al quale "la domanda di rimborso deve essere presentata al servizio competente (...) entro i sei mesi successivi allo scadere dell'anno civile nel corso del quale l'imposta è divenuta esigibile". La domanda di pronuncia pregiudiziale era volta ad accertare se il termine di sei mesi avesse carattere perentorio, e fosse quindi stabilito a pena di decadenza dal diritto al rimborso.

    Nella sentenza in oggetto la Corte di giustizia conclude che il termine di sei mesi previsto dall'articolo 7, paragrafo 1, primo comma, ultima frase, dell'ottava direttiva per la presentazione di un'istanza di rimborso dell'imposta sul valore aggiunto, è un termine di decadenza.

    Ad avviso della Corte di giustizia già dal dettato di cui al citato art. 7 si ricava che il termine previsto è un termine di decadenza: in particolare, le versioni linguistiche francese, tedesca e olandese usano espressamente l'allocuzione "al più tardi". Al riguardo, la Corte sottolinea che, in forza di una costante giurisprudenza, le varie versioni linguistiche di una disposizione dell''Unione devono essere interpretate in modo uniforme e, pertanto, in caso di divergenze tra loro, la disposizione deve essere interpretata in funzione dell'economia generale e delle finalità della normativa di cui essa fa parte. Nel caso in questione, l'obiettivo dell'ottava direttiva IVA era quello di "porre fine alle divergenze tra le disposizioni attualmente in vigore negli Stati membri che sono all'origine di distorsioni della concorrenza". La Corte osserva inoltre che la possibilità di proporre una domanda di rimborso delle eccedenze IVA senza alcuna limitazione temporale si porrebbe in contrasto con il principio della certezza del diritto, che esige che la situazione fiscale del soggetto passivo, con riferimento ai diritti e agli obblighi dello stesso verso l'amministrazione tributaria, non possa essere indefinitamente messa in discussione. Dunque, l'introduzione di un termine ordinatorio, ossia di un termine che non sia previsto a pena di decadenza, per la presentazione dell'istanza di rimborso, si porrebbe in contrasto con lo scopo di armonizzazione perseguito dall'ottava direttiva IVA oltre che, eventualmente, con la citata giurisprudenza.

  • C-571/10

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    Assegnata in data: 21/05/2012

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sulla compatibilità con il diritto dell'Unione della normativa della Provincia autonoma di Bolzano in materia di concessione e ripartizione tra cittadini UE e cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo dei sussidi per l'alloggio.

    La domanda in via pregiudiziale è stata sollevata dal Tribunale di Bolzano nell'ambito di una controversia insorta a seguito del rigetto opposto dall'IPES (Istituto per l'edilizia sociale della Provincia autonoma di Bolzano) alla richiesta del ricorrente diretta ad ottenere un sussidio per l'alloggio, rifiuto motivato dal fatto che lo stanziamento della Provincia autonoma di Bolzano previsto per la concessione di tale sussidio ai cittadini di Paesi terzi era esaurito, in base ad una normativa che consente di stabilire plafond complessivi di diversa entità per i sussidi casa da assegnare rispettivamente a cittadini UE e ai cittadini di Paesi terzi lungo soggiornanti.

    L'articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003 (relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo) prevede per i soggiornanti di lunga durata il beneficio della parità di trattamento per quanto riguarda la previdenza sociale, l'assistenza sociale e la protezione sociale, così come tali nozioni sono definite dalla legislazione nazionale. La Corte ritiene che tale disposizione osti ad una normativa nazionale o regionale (come quella oggetto del procedimento a quo emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano) che, per quanto riguarda la concessione di un sussidio per l'alloggio, riservi ad un cittadino di un Paese terzo, beneficiario dello status di soggiornante di lungo periodo conferito conformemente alle disposizioni di detta direttiva, un trattamento diverso da quello riservato ai cittadini nazionali residenti nella medesima provincia o regione nell'ambito della distribuzione dei fondi destinati al detto sussidio, a condizione che tale sostegno economico rientri – in base alla scelte operate dagli ordinamenti nazionali - in una delle seguenti tre categorie: assistenza sociale, protezione sociale, previdenza sociale. Inoltre, tale disparità di trattamento è considerata incompatibile con il diritto dell'Unione a condizione che non trovi applicazione il paragrafo 4 del medesimo articolo 11, recante la possibilità per gli Stati membri di limitare l'applicazione del principio della parità di trattamento sancito dal paragrafo 1 alle prestazioni essenziali in materia di assistenza sociale e di protezione sociale  (tale deroga  non è però ammessa per le prestazioni  in materia di  previdenza sociale).

    La Corte - pronunciandosi inoltre sull'ulteriore questione sollevata dal giudice del rinvio se in caso di conflitto fra norma interna e Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) il richiamo operato dall'articolo 6 TUE alla CEDU imponga al Giudice nazionale di dare diretta applicazione all'articolo 14 CEDU (Divieto di discriminazione) ed all'articolo 1 del Protocollo n. 12 (Divieto generale di discriminazione), disapplicando la fonte interna incompatibile, senza dovere previamente sollevare questione di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale nazionale - esclude in via generale la sussistenza di un obbligo per il giudice nazionale di applicare direttamente le disposizioni CEDU, disapplicando la norma di diritto nazionale con essa contrastante.

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