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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-443/09

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 21/05/2012

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    La Corte di giustizia si è pronunciata in via pregiudiziale sull'interpretazione degli articoli 5, paragrafo 1, lettera c), e 6, paragrafo 1, lettera e), della   direttiva 2008/7/CE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, facendo seguito al rinvio disposto dalla Sezione Fallimentare del Tribunale di Cosenza, nell'ambito di una controversia tra la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (CCIAA) di Cosenza e la  Fallimento Grillo Star srl.

    La controversia concerneva la domanda di ammissione al passivo di un credito vantato dalla CCIAA di Cosenza relativamente al mancato pagamento da parte della Grillo Star, per l'anno 2009, del diritto annuale dovuto da ogni impresa iscritta o annotata nel registro delle imprese.

    L'articolo 8, commi 1 e 2, della legge 29 dicembre 1993, n. 580 dispone che alla tenuta del registro delle imprese provvedono le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura; l'articolo 18, commi 3‑5, della stessa legge stabilisce le modalità di calcolo del diritto annuale, la cui determinazione è affidata ad un decreto del Ministro dello Sviluppo economico. Per l'anno anno oggetto procedimento principale (2009), l'importo del diritto annuale era determinato in misura fissa di 200 euro per le imprese con fatturato inferiore a 100 000 euro e, al di sopra di tale soglia, è calcolato in percentuale per scaglioni di fatturato. La CCIAA di Cosenza aveva chiesto pertanto l'ammissione al passivo del Fallimento Grillo Star di un credito pari a 200 euro, maggiorato di 113,39 euro.

    Il giudice del rinvio sollevava dubbi circa la compatibilità della normativa italiana relativa alla determinazione del diritto annuale l'articolo 5, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 2008/7/CE, in base al quale gli Stati membri non assoggettano le società di capitali ad alcuna forma di imposta indiretta per le operazioni di registrazione o qualsiasi altra formalità preliminare all'esercizio di un'attività, alla quale una società di capitali può essere soggetta a causa della sua forma giuridica. Peraltro, l'articolo 6, paragrafo 1, lettera e) della medesima direttiva, gli Stati membri possono applicare, in deroga alle disposizioni dell'articolo 5, le imposte e i diritti di carattere remunerativo.

    In particolare, la Sezione Fallimentare del Tribunale di Cosenza chiedeva alla Corte di giustizia di pronunciarsi seguenti punti:

    -          se i criteri di determinazione del diritto annuale di cui all'articolo 18 lettera b) della legge n. 580/1993, si pongano in contrasto con la direttiva 2008/7 in quanto non può farsi rientrare nella deroga di cui all'articolo 6, paragrafo 1, lettera e) della medesima direttiva;

    -          se l'obbligo di pagamento del diritto annuale gravante su una società di capitali la quale non eserciti – e non abbia mai esercitato alcuna attività economica – e risulti, anzi, “inattiva” si ponga in contrasto con la direttiva;

    -          se la natura costitutiva della iscrizione nel registro delle imprese costituente, per l'ordinamento nazionale italiano, fatto imprescindibilmente connesso all'acquisto della personalità giuridica delle società di capitali e quindi il pagamento del connesso “diritto annuale” si ponga in contrasto con la suddetta direttiva.

     

    Nella sentenza in oggetto la Corte di Giustizia statuisce che l'articolo 5, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2008/7/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a un diritto, come quello controverso nel procedimento principale, dovuto annualmente da ogni impresa per l'iscrizione nel registro delle imprese, anche se siffatta iscrizione ha un effetto costitutivo per le società di capitali e tale diritto è dovuto dalle società in parola anche relativamente al periodo di tempo in cui svolgono unicamente attività preparatorie alla gestione di un'impresa.  

    La Corte osserva infatti che il fatto generatore del diritto di registrazione consiste nella registrazione dell'impresa e prescinde dalla forma giuridica dell'ente titolare dell'impresa; il tributo, pertanto, grava sia sulle imprese aventi la forma di società d capitali sia su quelle con un'altra forma giuridica.

    La Corte osserva inoltre che, dall'esame del fascicolo di causa risulta che la Grillo Star srl ha, per lo meno, effettuato operazioni necessarie all'avvio di un'attività alberghiera, segnatamente acquistando dei terreni, e pertanto non può, in ogni caso, essere assimilata ad una “società vuota”, ossia ad una società priva di attivi e che quindi non svolge più alcuna attività.

  • C-357/10 e C-359/10

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    Assegnata in data: 21/05/2012

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sulla compatibilità della normativa italiana in materia di riscossione dei tributi locali con la normativa stabilita dai Trattati UE e dalla “direttiva Servizi (direttiva 2006/123/CE) in materia di libera prestazione dei servizi e di libertà di stabilimento.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dal TAR Lombardia chiamato a pronunciarsi su tre controversie tra, rispettivamente, la Duomo Gpa Srl e la Gestione Servizi Pubblici Srl ed il Comune di Baranzate, nonché la Irtel Srl ed il Comune di Venegono Inferiore. Tali controversie vertevano sull'esclusione delle citate società da talune gare d'appalto per l'affidamento di concessioni in quanto esse non disponevano di un capitale sociale interamente versato pari a 10 milioni di euro.

    La normativa italiana sul riordino della disciplina dei tributi locali di cui al d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, autorizza le province ed i comuni a disciplinare con regolamento le proprie entrate, comprese quelle tributarie. Gli enti locali possono decidere di affidare a terzi mediante concessione l'accertamento e la riscossione dei tributi e di tutte le entrate locali, nel pieno rispetto della normativa UE in materia. Ai sensi dell'articolo 32, comma 7bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito in legge con modifiche dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, tali società devono essere iscritte in un albo dei soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e riscossione dei tributi, e disporre di un capitale sociale interamente versato pari a 10 milioni di euro (tale obbligo non è previsto per le società a prevalente partecipazione pubblica). 

    Nella sentenza in oggetto la Corte di giustizia conclude che:

    -          la normativa italiana precedentemente richiamata rappresenta una restrizione della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi in quanto: 1) costringe gli operatori privati che vogliano svolgere le attività in questione a costituire persone giuridiche e a disporre di un capitale sociale interamente versato pari a 10 milioni di euro; 2) stabilisce la nullità dell'affidamento ad operatori che non soddisfino il suddetto requisito di capitale sociale minimo; 3) stabilisce il divieto di acquisizione di nuovi affidamenti o di partecipazione a gare indette per l'affidamento di tali servizi fino all'assolvimento del suddetto obbligo di adeguamento del capitale sociale;

    -          tale normativa, inoltre, costituisce una violazione dei principi UE in materia di parità di trattamento e di concorrenza, in quanto le società a prevalente partecipazione pubblica godrebbero di un regime più favorevole;

    tali misure non possono nemmeno fondarsi sulla tutela dell'interesse generale, poiché eccedono l'obiettivo di tutela della pubblica amministrazione nei confronti del rischio di inadempimento della società concessionaria e comportano restrizioni alle libertà fondamentali sproporzionate e, pertanto, non giustificate.  In proposito, richiamando le argomentazioni del giudice del rinvio, la Corte evidenzia come altre disposizioni previste dalla normativa italiana sono più idonee a proteggere in modo più proporzionato la PA e, tra queste, richiama la dimostrazione del possesso dei requisiti generali di partecipazione ad un bando di gara (riferiti sia alla capacità tecnica sia a quella finanziaria) nonché dell'affidabilità e della solvibilità, e l'applicazione di soglie minime richieste del capitale sociale interamente versato della concessionaria parametrate in funzione del valore dei contratti di cui è effettivamente titolare.

  • C-500/10

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    Assegnata in data: 05/04/2012

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione dell'articolo 4, paragrafo 3, del Trattato sull'UE (TUE), e degli articoli 2 e 22 della sesta direttiva 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme. La domanda in via pregiudiziale è stata presentata dalla Commissione tributaria centrale, sezione di Bologna, nell'ambito di una controversia che ha contrapposto l'Ufficio IVA di Piacenza alla Belvedere Costruzioni Srl con riferimento ad una rettifica dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) relativa all'anno 1982.

    L'Ufficio IVA di Piacenza aveva proposto ricorso alla Commissione tributaria centrale, dopo che le Commissioni tributarie di primo e secondo grado di Piacenza avevano accolto il ricorso della Belvedere Costruzioni Srl contro l'avviso di rettifica dell'imposta sul valore aggiunto notificato dall'Ufficio IVA.

     

    Nella domanda di rinvio pregiudiziale, la Commissione tributaria centrale richiama l'articolo 3, comma 2-bis, lettera a), del decreto legge n. 40/2010 (conv. nella legge n. 73/2010), il quale, al fine di contenere la durata dei processi tributari nei termini di durata ragionevole dei processi (ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - CEDU), prevede che le controversie tributarie pendenti da oltre dieci anni, per le quali risulti soccombente l'Amministrazione finanziaria dello Stato nei primi due gradi di giudizio, sono automaticamente  definite con decreto assunto dal presidente del collegio o da altro  componente  delegato; nella fattispecie concreta, in applicazione di tale disposizione la decisione d'appello della Commissione tributaria di secondo grado di Piacenza passerebbe in giudicato, e il credito fiscale rivendicato dall'amministrazione sarebbe estinto.

    Il giudice del rinvio pone la questione della compatibilità della disposizione con l'articolo 4, paragrafo 3, del TUE, nonché degli articoli 2 e 22 della sesta direttiva, come interpretati nella sentenza del 17 luglio 2008 C-132/06, posto che essa osterebbe definitivamente al recupero del credito d'imposta di cui l'amministrazione tributaria chiede espressamente l'accertamento per via giudiziale e potrebbe determinare una violazione dell'obbligo incombente allo Stato italiano di garantire la riscossione effettiva delle risorse proprie dell'Unione europea.

     

    Nella sentenza in oggetto la Corte di Giustizia dichiara che l'articolo 4, paragrafo 3, del TUE e gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva 77/388/CEE devono essere interpretati nel senso che essi non ostano all'applicazione, in materia di imposta sul valore aggiunto, di una disposizione nazionale eccezionale che prevede l'estinzione automatica dei procedimenti pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado, allorché tali procedimenti traggono origine da un ricorso proposto in primo grado più di dieci anni – e, in pratica, più di quattordici anni – prima della data di entrata in vigore di detta disposizione e l'Amministrazione tributaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio, con la conseguenza che tale estinzione automatica produce il passaggio in giudicato della decisione di secondo grado, nonché l'estinzione del credito rivendicato dall'Amministrazione tributaria.

    n.b.: L'estinzione automatica delle procedure pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado è oggetto di un'altra sentenza della Corte di giustizia (C-417/10) emessa il 29 marzo 2012, e trasmessa dal Governo il 2 aprile.

  • C-417/10

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    Assegnata in data: 05/04/2012

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sulla interpretazione del diritto UE in materia di fiscalità diretta.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dalla Corte di cassazione italiana nell'ambito di un ricorso del Ministero dell'economia e dell'Agenzia delle entrate contro le decisioni della Commissione tributaria provinciale di Caserta e la Commissione tributaria regionale della Campania (l'ultima, del 14 luglio 2000) che avevano annullato degli avvisi di accertamento (ed il relativo pagamento delle somme dovute, con sanzioni e interessi) a carico della società 3M Italia SpA per una errata applicazione delle ritenute fiscali nel triennio 1989-1991.

    In sede di cassazione la 3M Italia ha chiesto l'applicazione dell'articolo 3, comma 2 bis, lettera b) del decreto legge n. 40/2010, convertito, con modificazioni, nella legge n. 73/2010, in base al quale, al fine di contenere la durata dei processi tributari nei termini di durata ragionevole dei processi, previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), le controversie tributarie pendenti da oltre dieci anni, per le quali risulti soccombente l'Amministrazione finanziaria dello Stato nei primi due gradi di giudizio, possono essere estinte con il pagamento di un importo pari al 5 per cento del valore della controversia (...) e contestuale rinuncia ad ogni eventuale pretesa di equa riparazione.

    La Corte di cassazione pone la questione della compatibilità della citata disposizione nazionale con il principio del contrasto all'abuso del diritto, con la disciplina in materia di aiuti di Stato, nonché, posto che essa che pone a carico del contribuente un obbligo “pressoché simbolico”, con l'obbligo di reprimere le pratiche abusive e con all'articolo 4, paragrafo 3, del Trattato sull'UE (TUE) che impone agli Stati membri di adottare tutte le misure atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati e di astenersi da qualunque misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione. Inoltre, si interroga sulla compatibilità della disposizione che, a suo avviso, comporta una rinuncia pressoché integrale al recupero del credito fiscale, con i principi che governano il mercato unico.

    Nella sentenza in oggetto la Corte di Giustizia - escluse sia la violazione del principio del divieto di abuso del diritto sia la qualificazione della misura come aiuto di stato - afferma che, in assenza di violazione del diritto dell'Unione, non si può ritenere che una disposizione siffatta, laddove ha come conseguenza, come qualunque altra norma che preveda l'estinzione del procedimento prima che intervenga una decisione, di impedire al giudice nazionale che si pronuncia in ultimo grado di esercitare il suo controllo di legittimità nei procedimenti di cui si tratta, conformemente al diritto dell'Unione, dopo aver adito, se del caso, la Corte ai sensi dell'articolo 267 TFUE, sia contraria all'obbligo incombente ai giudici nazionali che si pronunciano in ultimo grado di garantire, nell'ambito delle loro competenze, l'applicazione effettiva del diritto dell'Unione.

    Alla luce di tali considerazioni la Corte dichiara che il diritto dell'Unione – in particolare il principio del divieto dell'abuso di diritto, l'articolo 4, paragrafo 3, TUE, le libertà garantite dal Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE), il principio di non discriminazione, le norme in materia di aiuti di Stato nonché l'obbligo di garantire l'applicazione effettiva del diritto dell'Unione – deve essere interpretato nel senso che non osta, in un procedimento vertente sulla fiscalità diretta, all'applicazione di una disposizione nazionale che prevede l'estinzione dei procedimenti pendenti dinanzi al giudice che si pronuncia in ultimo grado in materia tributaria, mediante pagamento di un importo pari al 5% del valore della controversia, qualora tali procedimenti traggano origine da ricorsi proposti in primo grado più di dieci anni prima della data di entrata in vigore di tale disposizione e l'amministrazione finanziaria sia rimasta soccombente nei primi due gradi di giudizio.

    n.b.: L'estinzione automatica delle procedure pendenti dinanzi al giudice tributario di terzo grado è oggetto di un'altra sentenza della Corte di giustizia (C-500/10) emessa il 29 marzo 2012, e trasmessa dal Governo il 2 aprile.

  • C-243/10

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    Assegnata in data: 05/04/2012

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    La sentenza ha per oggetto il ricorso presentato dalla Commissione nei confronti dell'Italia per inadempimento della decisione 2008/854/CE del 2 luglio 2008. Tale decisione, che dichiarava illegittimo e incompatibile con il mercato interno il regime d'aiuto concesso all'industria alberghiera in Sardegna (Legge regionale n. 9/1998), imponeva all'Italia di sopprimere tale regime e di recuperare gli aiuti nel termine di quattro mesi dalla notifica della decisione.

    La Corte, richiamando la sua precedente giurisprudenza, ribadisce che lo Stato membro destinatario di una decisione di recupero è tenuto ad adottare ogni misura idonea ad assicurare l'esecuzione di tale decisione senza indugio e conformemente alle procedure previste dal diritto nazionale, aggiungendo che il solo mezzo di difesa che uno Stato membro può opporre al ricorso per inadempimento è quello vertente sull'impossibilità assoluta di dare correttamente esecuzione alla decisione. Tale condizione non è soddisfatta quando lo Stato membro convenuto si limita a comunicare alla Commissione le difficoltà giuridiche, politiche o pratiche per dare esecuzione alla decisione, senza intraprendere alcuna vera iniziativa presso le imprese interessate al fine di recuperare l'aiuto e senza proporre alla Commissione altre modalità di esecuzione della predetta decisione per superare tali difficoltà.

    La Corte rigetta gli argomenti addotti dall'Italia per la mancata esecuzione della decisione 2008/854/CE, in particolare non ritenendo idonee né la considerazione vertente sul suo carattere generale ed astratto e sul fatto che lo Stato membro avverta la necessità di verificare la posizione individuale di ciascuna impresa interessata né la circostanza che l'importo esatto degli aiuti da recuperare  in alcuni dei casi individuati  sia oggetto di un confronto tra la Commissione e l'Italia. Con riferimento alla questione della sospensione da parte dei giudici nazionali degli ordini di recupero degli aiuti in questione, la Corte richiama la sua precedente giurisprudenza secondo la quale tali provvedimenti possono essere adottati con riserva che siano soddisfatte le condizioni enunciate dalla giurisprudenza e devono essere giustificati da argomenti volti a dimostrare l'invalidità della decisione. Nel caso di specie, le ordinanze di sospensione non tengono conto dell'interesse dell'Unione e non indicano le ragioni dell'invalidità della decisione della Commissione, sicché non configurano un caso di impossibilità assoluta di dare esecuzione alla decisione.

    Sulla base di queste considerazioni, la Corte, dichiara l'Italia inadempiente alla decisione 2008/854 per non avere adottato entro i termini prescritti tutti i provvedimenti necessari per recuperare gli aiuti concessi e la condanna conseguentemente alle spese.

  • C-157/11

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    Assegnata in data: 27/03/2012

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sull'interpretazione del diritto UE in materia di contratto e rapporto di lavoro, con particolare riguardo alle clausole 2 e 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (concluso il 18 marzo 1999) allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dal Tribunale di Napoli nell'ambito di una controversia, tra il ricorrente e la convenuta amministrazione pubblica che lo ha assunto come lavoratore socialmente utile, in merito alla natura del rapporto di lavoro tra essi costituito e alla differenza tra la retribuzione percepita dai lavoratori socialmente utili e gli altri lavoratori impiegati presso la stessa amministrazione per svolgere attività identiche.

    Il giudice del rinvio, in sintesi, chiede se il rapporto stabilito tra i lavoratori socialmente utili e le amministrazioni pubbliche per cui svolgono le loro attività, previsto dal decreto legislativo  n. 468 del 1997,  rientri nell'ambito di applicazione dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla citata direttiva.

    Al riguardo si ricorda che la clausola 2, punto 1, dell'accordo quadro prevede l'applicazione di tale disciplina ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro. Al punto 2 della medesima clausola si precisa che gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o le parti sociali stesse possano decidere che l'accordo quadro non si applichi ai rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato, nonché ai contratti e rapporti di lavoro definiti nel quadro di un programma specifico di formazione, inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi pubblici. Si segnala altresì che la direttiva 1999/70 prevede che per quanto riguarda i termini utilizzati nell'accordo quadro si lasci agli Stati membri il compito di provvedere alla loro definizione secondo la legislazione e/o la prassi nazionale (come per altre direttive adottate nel settore sociale che utilizzano termini simili), purché dette definizioni rispettino il contenuto dell'accordo quadro stesso. Con riferimento alla normativa nazionale, si ricorda che l'articolo 8 del decreto legislativo n. 468/97 e l'articolo 4 del decreto legislativo n. 81 del 2000, entrambi in materia di  lavori socialmente utili prevedono, tra l'altro, che l'utilizzo di lavoratori per le attività socialmente utili non determini l'instaurazione di un rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche utilizzatrici: a tal proposito la Corte di Giustizia precisa incidentalmente che una qualificazione formale di questo tipo (volta ad escludere la natura di rapporto di lavoro nel caso di lavoratori socialmente utili) non impedisce al giudice di riconoscere l'esistenza del rapporto di lavoro, se tale qualifica formale è solamente fittizia e nasconde la reale natura del rapporto in base alle disposizioni del diritto nazionale.

     

    In ogni caso,  secondo l'interpretazione della Corte di giustizia, la clausola 2, punto 2, dell'accordo quadro conferisce agli Stati membri un margine di discrezionalità riguardo all'applicazione dell'accordo quadro a talune categorie di contratti o di rapporti di lavoro, in particolare con riferimento ai "contratti e rapporti di lavoro definiti nel quadro di un programma specifico di formazione, inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi pubblici". Pertanto la clausola 2 dell'accordo quadro citato non osta ad una normativa nazionale (come quella di cui al procedimento principale), che prevede che il rapporto costituito tra i lavoratori socialmente utili e le amministrazioni pubbliche per cui svolgono le loro attività non rientri nell'ambito di applicazione di detto accordo quadro, qualora, circostanza che spetta al giudice del rinvio accertare, tali lavoratori non beneficino di un rapporto di lavoro quale definito dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi nazionale in vigore, oppure gli Stati membri e/o le parti sociali abbiano esercitato la facoltà loro riconosciuta al punto 2 di detta clausola.

  • C-135/10

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    Assegnata in data: 27/03/2012

    Commissione: VII COMMISSIONE (CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE)

    La Corte si pronuncia in via pregiudiziale al fine di stabilire se la diffusione gratuita di opere a carattere musicale oggetto di protezione effettuata all'interno di studi odontoiatrici privati costituisca “comunicazione al pubblico” e sia pertanto soggetta alla corresponsione di un equo compenso in favore dei produttori fonografici.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dalla Corte d'appello di Torino nell'ambito di una controversia fra la Società Consortile Fonografici (SCF), che svolge, in Italia e all'estero, l'attività di mandataria per la gestione, la riscossione e la ripartizione dei diritti dei produttori fonografici consorziati, ed il sig. Del Corso, proprietario di uno studio dentistico privato all'interno del quale venivano diffusi, come musica di sottofondo, fonogrammi oggetti di protezione.

    La SCF, ritenendo che tale diffusione costituisse “comunicazione al pubblico” ai sensi degli articoli 73 e 73 bis della legge 22 aprile 1941, n. 633, del diritto internazionale e della normativa UE, nell'esercizio della sua attività di mandataria aveva intrapreso trattative con l'Associazione Nazionale Dentisti Italiani per stipulare un accordo collettivo al fine di quantificare un equo compenso, come previsto in tal senso dai richiamati articoli 73 e 73 bis. Poiché tali trattative non avevano avuto esito positivo, il 16 giugno 2006 la SFC aveva convenuto il sig. Del Corso in giudizio dinanzi al Tribunale di Torino; quest'ultimo, con una sentenza del 20 marzo 2008, aveva rigettato la domanda della SCF, ritenendo che nella fattispecie fosse esclusa la comunicazione a scopo di lucro e che, essendo lo studio medico dentistico privato, non poteva essere assimilato ad un luogo aperto al pubblico considerato che i pazienti non costituivano un pubblico indifferenziato, ma erano singolarmente individuati, e potevano accedervi previo appuntamento e su consenso dell'odontoiatra.  

    Nella sentenza in oggetto la Corte di Giustizia dichiara che tale diffusione non dà diritto alla percezione di un compenso in favore dei produttori fonografici, osservando che :

    - la nozione di “comunicazione al pubblico” definita dalla normativa europea in materia di diritto d'autore (direttive 92/100/CEE e 2001/29/CE) deve essere interpretata alla luce delle nozioni equivalenti contenute nella Convenzione internazionale del 1961 sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione e di altri accordi internazionali, e in modo che sia compatibile con questi ultimi, tenendo altresì conto del contesto in cui siffatte nozioni sono utilizzate e degli scopi perseguiti dalle pertinenti disposizioni convenzionali in materia di proprietà intellettuale;

    - tale nozione deve essere interpretata nel senso che essa non comprende la diffusione gratuita di fonogrammi effettuata all'interno di uno studio odontoiatrico privato esercente attività economica di tipo libero-professionale, a beneficio dei clienti che vi si recano unicamente allo scopo di essere curati e che soltanto in modo fortuito e indipendentemente dalla loro volontà godono dell'accesso a taluni fonogrammi, in funzione del momento in cui arrivano allo studio, della durata della loro attesa e del

    tipo di trattamento ricevuto;

    - infine, richiamandosi alla nozione di “pubblico” di cui all'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29/CE, secondo il quale essa riguarda un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende un numero di persone piuttosto considerevole, la Corte conclude che la clientela di un dentista è costituita da un insieme di destinatari potenziali determinato e scarsamente consistente in quanto il numero delle persone presenti simultaneamente nello studio è in genere alquanto ristretto. Inoltre, poiché i clienti si succedono, di norma essi non sono destinatari dei medesimi fonogrammi diffusi. Infine, tale diffusione non è suscettibile di incidere sugli introiti del dentista in quanto quest'ultimo non può aspettarsi un ampliamento della propria clientela o aumentare il prezzo delle cure prestate in virtù di tale diffusione.

  • C-72/10 e C-77/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/03/2012

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sulla compatibilità con il diritto dell'Unione della normativa italiana in materia di esercizio delle attività di raccolta e di gestione delle scommesse. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata dalla Corte di cassazione italiana nell'ambito di procedimenti penali instaurati a carico di alcuni gestori di centri di trasmissione di dati (o CTD, locali aperti al pubblico nei quali gli scommettitori possono concludere scommesse sportive per via telematica) contrattualmente legati alla società di diritto inglese Stanley International Betting Ltd, per il mancato rispetto della normativa italiana disciplinante la raccolta di scommesse. Tali procedimenti si inseriscono nel quadro di una più generale controversia tra l'Amministrazione italiana dei monopoli di Stato (AAMS) e la Stanley avente ad oggetto l'attività svolta da quest'ultima di raccolta, tramite i CTD, di scommesse su eventi sportivi senza disporre di concessione statale, né di autorizzazione di polizia.

    La controversia risale al 1999 quando le autorità italiane assegnarono, a seguito di pubbliche gare, le concessioni per le scommesse su competizioni sportive diverse da quelle ippiche, escludendo gli operatori costituiti in società di capitali quotate nei mercati regolamentati, tra cui la Stanley. Con il c.d. decreto Bersani (d.l. n. 223 del 2006, conv. dalla l. n. 248 del 2006), si è disposta una riforma del settore dei giochi al fine di assicurarne la conformità alla normativa europea, in particolare mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni. A seguito della pubblicazione dei bandi di gara la Stanley aveva manifestato il proprio interesse ad ottenere una concessione per la raccolta e la gestione di scommesse, chiedendo tuttavia all'AAMS chiarimenti in merito ad alcune disposizioni suscettibili di ostacolare la sua partecipazione alla gara. Essendo tali richieste state respinte dall'AAMS, la Stanley aveva deciso di non partecipare alle gare in questione. Con una sentenza del 6 marzo 2007 nelle cause riunite C-338/04, C-359/04 e C-360/04 la Corte di giustizia aveva dichiarato l'illegittimità di tale esclusione.

    Nella sentenza in oggetto la Corte di Giustizia dichiara che:

    - è incompatibile con i principi di libertà di stabilimento, libera prestazione dei servizi, parità di trattamento e di effettività stabiliti nei Trattati la normativa italiana che cerchi di rimediare all'illegittima esclusione di una categoria di operatori dall'attribuzione di concessioni per l'esercizio di un'attività economica, mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, e che protegga le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo in particolare determinate distanze minime tra i loro esercizi e quelli dei nuovi concessionari;

    - in base ai principi di libera prestazione di servizi e libertà di stabilimento non possono essere applicate sanzioni per l'esercizio di un'attività di raccolta di scommesse senza concessione o autorizzazione di polizia nei confronti di soggetti legati ad un operatore escluso da una precedente gara in violazione del diritto dell'UE anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest'ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano effettivamente rimediato all'illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara;

    - in base ai principi e alla normativa dell'UE le condizioni e le modalità di una gara, e in particolare le norme che prevedono la decadenza di concessioni rilasciate al termine di tale gara, devono essere formulate in modo chiaro, preciso ed univoco.

    n.b.: La VI Commissione (Finanze), in esito all'esame ai sensi dell'articolo 127 del Regolamento della Camera del Libro verde sui giochi d'azzardo online (COM(2011)128), richiamando anche la sentenza della Corte di giustizia del 15 settembre 2011 nella causa C-347/09 relativamente alla compatibilità delle legislazioni nazionali in materia di giochi d'azzardo con i principi della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento, ha approvato il 10 novembre 2011 un documento finale che è stato trasmesso alle Istituzioni dell'UE nell'ambito del “dialogo politico” informale.
  • C-507/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 11/01/2012

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA)

    Con la sentenza in oggetto, la Corte ha stabilito che gli artt. 2, 3 e 8 n. 4 della decisione quadro 2001/220/GAI devono essere interpretati nel senso che non ostano a disposizioni nazionali come quelle di cui agli artt. 392, comma 1 bis, 398, comma 5 bis, e 394 del Codice di procedura penale, che, da un lato, non prevedono l'obbligo per il pubblico ministero di rivolgersi al giudice affinché quest'ultimo consenta ad una vittima particolarmente vulnerabile di essere sentita e di deporre secondo le modalità dell'incidente probatorio nell'ambito della fase istruttoria del procedimento penale e, dall'altro, non autorizzano detta vittima a proporre ricorso dinanzi ad un giudice avverso la decisione del pubblico ministero recante rigetto della sua domanda di essere sentita e di deporre secondo tali modalità.

    In base  alle disposizioni della decisione quadro in questione ciascuno Stato membro è tenuto a: garantire la possibilità per tutte le vittime di essere sentite durante il procedimento e di fornire elementi di prova e adottare le misure necessarie affinché le autorità competenti interroghino le vittime soltanto per quanto è necessario al procedimento penale; assicurare  che le vittime particolarmente vulnerabili beneficino di un trattamento specifico che risponda in modo ottimale alla loro situazione;  garantire alle vittime, ove sia necessario proteggerle, in particolare le più vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in udienza pubblica, la facoltà, in base a una decisione del giudice, di rendere testimonianza in condizioni che consentano di conseguire tale obiettivo con mezzi adeguati e che siano compatibili con i principi fondamentali del proprio ordinamento.

     La Corte ha osservato che nessuna delle tre disposizioni della decisione quadro prevede modalità concrete di attuazione degli obiettivi da esse enunciati e che pertanto, alla luce del dettato di tali disposizioni e tenuto conto dell'art. 34 UE, va riconosciuto agli organi nazionali un ampio potere discrezionale relativamente a tali modalità. In tale quadro la Corte ha ritenuto che: benché gli Stati membri siano tenuti ad adottare provvedimenti specifici a favore delle vittime particolarmente vulnerabili, da ciò non deriva necessariamente un diritto per tali vittime di beneficiare in qualunque ipotesi di un regime come quello dell'incidente probatorio nel corso della fase istruttoria al fine di conseguire gli obiettivi della decisione quadro; una legislazione nazionale che, in un sistema giuridico come quello italiano, prevede un regime processuale in forza del quale il pubblico ministero decide in merito all'accoglimento della domanda della vittima di ricorrere a una procedura come quella dell'incidente probatorio, non eccede il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri nell'attuazione di tale obiettivo; la circostanza che nel sistema giuridico penale italiano spetti al pubblico ministero decidere di sottoporre al giudice investito della causa la domanda della vittima di ricorrere, nel corso della fase istruttoria, al procedimento dell'incidente probatorio, che deroga al principio secondo il quale le prove sono raccolte nell'ambito del dibattimento, può essere considerata come rientrante nella logica di un sistema in cui il pubblico ministero costituisce un organo giudiziario incaricato dell'esercizio dell'azione penale.

  • C-482/10

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 11/01/2012

    Commissione: I COMMISSIONE (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale, sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, verte sull'interpretazione del principio di motivazione degli atti dell'amministrazione pubblica, di cui all'art. 296, secondo comma, TFUE, ed all'art. 41, n. 2, lett. c), della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in relazione a quanto disposto per la dagli articoli  1, 3, nn. 1 e 2, e 28-octies, n. 2 della legge n. 241 del 1990 (procedimento amministrativo), nonché dagli articoli 3 e 37 della legge regionale della Regione Siciliana n. 10 del 1991 (che prevedono la motivazione degli atti amministrativi, rispettivamente, dello Stato e della Regione Sicilia e richiamano, per la disciplina del procedimento amministrativo, i principi generali dell'ordinamento comunitario).

    I quesiti posti nella domanda pregiudiziale erano volti ad accertare la compatibilità con il principio dell'obbligo di motivazione stabilito dall'UE delle predette norme nazionali che prevedono eccezioni al medesimo principio in materia pensionistica e la possibilità di integrare la motivazione del provvedimento amministrativo in sede processuale.

    La Corte di giustizia dell'Unione europea si è dichiarata non competente a risolvere le questioni, rilevando, in particolare, che la controversia oggetto della causa principale (in materia pensionistica) verte su disposizioni di diritto nazionale che si applicano in un contesto puramente interno e che l'articolo 1 della n. 241 del 1990, rinvia in modo generale ai «principi dell'ordinamento comunitario», e non specificamente agli artt. 296, secondo comma, TFUE e 41, n. 2, lett. c), della Carta od ancora ad altre disposizioni del diritto dell'Unione inerenti l'obbligo di motivazione dei provvedimenti; tali ultime previsioni pertanto non sono considerate applicabili in modo diretto e incondizionato a situazioni puramente interne.

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