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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-236/11

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 20/11/2013

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE)

    Con ricorso proposto il 17 maggio 2011, la Commissione europea chiede alla Corte di dichiarare che, avendo consentito alle agenzie di viaggio di applicare il regime speciale ai servizi di viaggi venduti a soggetti diversi dai viaggiatori, l'Italia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt. da 306 a 310 della direttiva 2006/112/CE, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto.

    In base ai citati articoli, nella versione in lingua italiana:

    - gli Stati membri applicano un regime speciale dell'IVA alle operazioni delle agenzie di viaggio nella misura in cui tali agenzie agiscano in nome proprio nei confronti del viaggiatore e utilizzino, per l'esecuzione del viaggio, cessioni di beni e prestazioni di servizi di altri soggetti passivi. Il regime speciale non è applicabile alle agenzie di viaggio che agiscono unicamente quali intermediari;

    - le operazioni effettuate dall'agenzia di viaggio per la realizzazione del viaggio sono considerate come una prestazione di servizi unica resa dall'agenzia di viaggio al viaggiatore, che è assoggettata all'imposta nello Stato membro in cui l'agenzia di viaggio ha la sede della sua attività economica o una stabile organizzazione;

    - per la prestazione di servizi unica resa dall'agenzia di viaggio è considerato come base imponibile e come prezzo al netto dell'IVA, il margine dell'agenzia di viaggio, ossia la differenza tra l'importo totale, al netto dell'IVA, a carico del viaggiatore ed il costo effettivo sostenuto dall'agenzia di viaggio per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi di altri soggetti passivi, nella misura in cui tali operazioni siano effettuate a diretto vantaggio del viaggiatore.

    L'articolo 74-ter del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto) prevede che le operazioni effettuate dalle agenzie di viaggio e di turismo per l'organizzazione di pacchetti turistici costituiti da viaggi, vacanze, circuiti tutto compreso e connessi servizi, verso il pagamento di un corrispettivo globale, siano considerate come una prestazione di servizi unica. Tali disposizioni si applicano anche qualora le suddette prestazioni siano rese dalle agenzie di viaggio e turismo tramite mandatari; le stesse disposizioni non si applicano alle agenzie di viaggio e turismo che agiscono in nome e per conto dei clienti.

    La Commissione ritiene che il regime speciale delle agenzie di viaggio, sancito dagli articoli 306-310 della direttiva IVA, sia applicabile unicamente in caso di vendita di viaggi ai viaggiatori ("impostazione basata sul viaggiatore"), e avvalora tale interpretazione adducendo che cinque delle sei versioni linguistiche iniziali della direttiva utilizzavano sistematicamente il termine "viaggiatore". L'utilizzo del termine "cliente" ("customer") nella versione in lingua inglese costituirebbe un errore. Dato che tale versione in lingua inglese è servita da base per le successive traduzioni della sesta direttiva, tale termine sarebbe stato spesso ripreso in queste ultime, così come in svariate versioni linguistiche degli articoli da 306 a 310 della direttiva IVA, e tuttavia esso deve essere inteso nel senso di "viaggiatore". Ad avviso della Commissione, se si accogliesse l'impostazione basata sul cliente, la condizione secondo cui – per accedere al regime speciale – l'agenzia deve agire "in nome proprio", sarebbe ridondante, poiché un operatore agisce sempre in nome proprio nei confronti del suo cliente. Inoltre, se il legislatore dell'Unione avesse inteso conferire al termine "cliente" non tanto il senso di viaggiatore, quanto piuttosto quello di tutti i tipi di "clienti", da ciò deriverebbero conseguenze illogiche, poiché il regime speciale delle agenzie di viaggio si applicherebbe anche quando un'agenzia agisce in qualità di intermediario, in particolare quando essa ricerca clienti per conto di un albergatore, in forza di un contratto di intermediazione stipulato con quest'ultimo.

    L'Italia contesta l'interpretazione letterale operata dalla Commissione, poiché, oltre alla versione inglese, numerose altre versioni linguistiche dell'art. 306 (in particolare, quella bulgara, polacca, portoghese, rumena, slovacca, finlandese e svedese) non utilizzerebbero il termine "viaggiatore", bensì il termine "cliente". Inoltre, occorrerebbe considerare gli obiettivi perseguiti dal regime speciale delle agenzie di viaggio, ovvero la semplificazione delle regole relative all'IVA, da un lato, e la ripartizione del gettito tra gli Stati membri, dall'altro: in questo senso, l'impostazione basata sul cliente, contrariamente a quella basata sul viaggiatore, consentirebbe di rispettare il principio della neutralità dell'IVA, trattando alla stessa maniera gli operatori che vendono direttamente pacchetti di viaggio ai viaggiatori e quelli che vendono tali viaggi ad altri operatori. Inoltre, l'impostazione della Commissione solleverebbe un problema di ordine pratico, nel senso che, se il regime speciale delle agenzie di viaggio si applicasse solo alle vendite al viaggiatore, consumatore finale, potrebbe risultare necessario verificare, caso per caso, se l'acquirente di un viaggio sia effettivamente la persona che lo sfrutterà e se egli non rivenderà il viaggio ad un altro soggetto.

    La Corte di giustizia respinge il ricorso della Commissione, sostenendo che un'interpretazione puramente letterale del regime speciale delle agenzie di viaggio fondata sul testo di una o più versioni linguistiche ad esclusione delle altre non può essere accolta, poiché – secondo una giurisprudenza costante – occorre considerare che le norme del diritto dell'Unione devono essere interpretate e applicate in modo uniforme alla luce delle versioni in tutte le lingue dell'Unione. In caso di disparità tra le diverse versioni, la disposizione deve essere interpretata in funzione dell'impianto sistematico e della finalità della normativa di cui fa parte: nel caso specifico, la semplificazione delle norme IVA e la corretta ripartizione del gettito tra gli Stati membri.

    Ad avviso della Corte, l'impostazione basata sul cliente è quella più idonea a conseguire entrambi gli obiettivi, in quanto consente alle agenzie di viaggio di fruire di regole semplificate a prescindere dal tipo di clienti cui forniscono le loro prestazioni e favorisce, in tal modo, un'equilibrata ripartizione del gettito tra gli Stati membri. La circostanza che nel 1977, all'epoca in cui è stato adottato il regime speciale delle agenzie di viaggio, la maggioranza di queste ultime vendesse i propri servizi direttamente al consumatore finale non implica che il legislatore abbia inteso circoscrivere tale regime speciale a questo tipo di vendite ed escludere dallo stesso le vendite ad altri operatori. Infatti, quando un operatore organizza un pacchetto e lo vende ad un'agenzia di viaggio che lo rivende successivamente ad un consumatore finale, è il primo operatore che si assume il compito di combinare differenti prestazioni acquistate presso diversi terzi assoggettati all'IVA. Considerata la finalità del regime speciale delle agenzie di viaggio, ciò che rileva è che il suddetto operatore possa fruire di regole semplificate in materia di IVA e che queste ultime non rimangano appannaggio dell'agenzia di viaggio, la quale, in un'ipotesi del genere, si limita a rivendere al consumatore finale il pacchetto acquistato presso detto operatore.

    Quanto poi al rischio che le agenzie di viaggio applichino il regime speciale anche quando agiscono in qualità di intermediario, la Corte non lo ritiene fondato, considerata l'espressa menzione contenuta nell'articolo 306 della direttiva IVA, che esclude in ogni caso siffatta possibilità.

  • C-228/12 (cause riunite C-228/12, C-229/12, C-230/12, C-231/12, C-232/12, C-254/12, C-255/12, C-256/12, C-257/12, C-258/12)

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    Assegnata in data: 23/10/2013

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

       La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 12 della direttiva 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, concernente le autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (di seguito "direttiva autorizzazioni"). La domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra le società italiane Vodafone Omnitel NV, Fastweb Spa, Wind telecomunicazioni Spa, Telecom Italia Spa, Sky Italia Srl, da un lato, e, dall'altro, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), la Presidenza del Consiglio dei ministri, la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e il Ministero dell'economia e delle finanze, in merito al mancato pagamento da parte delle suddette società di contributi dovuti per il finanziamento dei costi operativi dell'AGCOM come previsto dalla legge n. 266/2005.

    In base alla normativa nazionale (articolo 1, commi 65 e 66, della legge n. 266/2005), gli operatori che prestano un servizio di pubblica utilità in Italia, tra i quali rientrano quelli che prestano servizi o una rete di comunicazione elettronica, sono tenuti a versare un contributo obbligatorio a titolo dei costi operativi delle autorità di controllo di detti servizi. L'importo di tale contributo è fissato con una delibera dell'autorità interessata, nel limite massimo previsto dalla legge del 2‰ della cifra d'affari dei predetti operatori. l'AGCOM è abilitata a stabilire la misura e le modalità del contributo, con atti di natura regolamentare che devono essere sottoposti all'approvazione del Presidente del Consiglio dei ministri. Per quanto riguarda la normativa europea, l'articolo 12, par. 1, della "direttiva autorizzazioni" prevede che i diritti amministrativi imposti alle imprese che prestano servizi o reti ai sensi dell'autorizzazione generale o che hanno ricevuto una concessione dei diritti d'uso coprono complessivamente i soli costi amministrativi che saranno sostenuti per la gestione, il controllo e l'applicazione del regime di autorizzazione generale, dei diritti d'uso e degli obblighi specifici di cui all'articolo 6, paragrafo 2, che possono comprendere i costi di cooperazione internazionale, di armonizzazione e di standardizzazione, di analisi di mercato, di sorveglianza del rispetto delle disposizioni e di altri controlli di mercato, nonché di preparazione e di applicazione del diritto derivato e delle decisioni amministrative, quali decisioni in materia di accesso e interconnessione (lettera a); tali diritti sono imposti alle singole imprese in modo proporzionato, obiettivo e trasparente che minimizzi i costi amministrativi aggiuntivi e gli oneri accessori (lettera b).

    A seguito di indagine amministrativa per verificare il rispetto degli obblighi di contribuzione di cui alla legge n. 266/2005, l'AGCOM ha comunicato alle società sopra menzionate una delibera con cui informava tali società del fatto che, dal 2006 al 2010, una parte dei contributi dovuti a titolo dei suoi costi operativi non era stata versata e le diffidava a pagare tali importi entro un termine di 30 giorni. Detti operatori hanno, quindi, proposto ricorso al TAR Lazio per l'annullamento di tali delibere, contestando gli importi richiesti, i quali coprirebbero voci non direttamente collegate a spese di funzionamento sostenute da tale autorità ai fini della regolamentazione ex ante del mercato strumentale al rilascio di autorizzazioni.

    Il TAR Lazio osserva come la normativa nazionale preveda, tramite diritti imposti agli operatori del settore regolamentato, la copertura di tutti i costi dell'AGCOM non coperti dal finanziamento statale mediante un meccanismo basato sui ricavi delle vendite e delle prestazioni di tali operatori, consentendo di modificare il contributo imposto a ciascuno di essi in funzione della sua capacità economica. Dal diritto dell'Unione risulta invece che l'imposizione di diritti amministrativi agli operatori si giustifica esclusivamente sulla base dei costi effettivamente sopportati dalle Autorità nazionali di regolamentazione non per lo svolgimento di qualsivoglia tipologia di attività, bensì in funzione dell'esercizio dell'attività di regolamentazione del mercato ex ante strumentale al rilascio di autorizzazioni. Il giudice amministrativo sospende quindi il procedimento e pone la questione pregiudiziale della compatibilità della legge n. 266 del 2005, con le disposizioni europee richiamate.

    La Corte osserva che, se è consentito agli Stati membri imporre alle imprese prestanti servizi o reti di comunicazione elettronica un diritto per finanziare le attività dell'Autorità nazionale di regolamentazione, ciò vale, tuttavia, a condizione che tale diritto sia esclusivamente destinato alla copertura dei costi relativi alle attività menzionate all'articolo 12, paragrafo 1, lettera a), della "direttiva autorizzazioni". Siffatti diritti non possono quindi comprendere altre voci di spesa e, come rileva il giudice del rinvio, non sono volti a coprire i costi amministrativi di qualsivoglia tipologia sostenuti dall'Autorità. Spetta al giudice del rinvio verificare che la totalità dei ricavi ottenuti a titolo di detto diritto non superi i costi complessivi relativi alle attività di cui all'articolo 12, par. 1, lett. a) e che lo stesso diritto sia imposto alle singole imprese in modo proporzionato, obiettivo e trasparente.

    La Corte quindi dichiara che l'articolo 12 della direttiva "autorizzazioni" deve essere interpretato nel senso che esso non osta alla disciplina di uno Stato membro ai sensi della quale le imprese che prestano servizi o reti di comunicazione elettronica sono tenute a versare un diritto destinato a coprire i costi complessivamente sostenuti dall'autorità nazionale di regolamentazione e non finanziati dallo Stato, il cui importo è determinato in funzione dei ricavi realizzati da tali imprese, a condizione che tale diritto sia esclusivamente destinato alla copertura di costi relativi alle attività menzionate al paragrafo 1, lettera a), di tale disposizione, che la totalità dei ricavi ottenuti a titolo di detto diritto non superi i costi complessivi relativi a tali attività e che lo stesso diritto sia imposto alle singole imprese in modo proporzionato, obiettivo e trasparente, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

  • C-136/12

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    Assegnata in data: 23/10/2013

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 101 TFUE (associazioni tra imprese e accordi tra imprese) e 267 TFUE (interpretazione dei trattati). Il rinvio pregiudiziale è stato disposto dal Consiglio di Stato nell'ambito di due controversie tra il Consiglio nazionale dei geologi (CNG) e l'Autorità garante della concorrenza e del mercato aventi ad oggetto l'accertamento da parte dell'Autorità di un'intesa restrittiva della concorrenza posta in essere dal CNG mediante la determinazione di tariffe minime.

    In particolare, il codice deontologico approvato dal CNG prevede che, pur in considerazione di quanto disposto dal decreto-legge n. 223/2006 in materia di abolizione delle tariffe professionali minime, la tariffa professionale praticata dai geologi, al fine di garantire ai consumatori la qualità della prestazione, deve essere determinata tenendo conto dell'importanza e della difficoltà dell'incarico, del decoro professionale, delle conoscenze tecniche e dell'impegno richiesti.

    Con delibera del 23 giugno 2010, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha accertato che l'obbligo imposto agli iscritti dal CNG di uniformare i propri comportamenti economici mediante l'applicazione della tariffa professionale e il conseguente impedimento ad adottare comportamenti indipendenti sul mercato, configurerebbero una decisione di associazione di imprese con effetto restrittivo della concorrenza, in violazione dell'articolo 101 TFUE. In sede di impugnazione della delibera, il TAR Lazio ha respinto il ricorso del CNG, al contempo dichiarando che la motivazione della delibera dell'Autorità era in parte erronea. Sia il CNG sia l'Autorità hanno quindi impugnato la sentenza al Consiglio di Stato che, da un lato, ha sottoposto alla Corte di giustizia in via pregiudiziale alcune questioni relative alla portata dell'articolo 267, paragrafo terzo, del TFUE (concernenti essenzialmente la competenza del giudice del rinvio a scegliere e riformulare le questioni sollevate da una delle parti nel procedimento principale) e dall'altro ha riformulato le questioni proposte dal CNG vertenti sulla normativa dell'Unione in materia di concorrenza.

    Con riferimento alle questioni di merito, la Corte di giustizia ha affermato che l'individuazione da parte del CNG di criteri di commisurazione delle tariffe professionali, tra i quali la qualità e l'importanza della prestazione nonché la dignità professionale, costituisce una decisione di un'associazione di imprese, ai sensi dell'articolo 101, paragrafo 1, del TFUE, potenzialmente idonea a produrre effetti restrittivi della concorrenza.

    La Corte ha in particolare argomentato rilevando che:

    - quando adotta un atto come il codice deontologico, l'Ordine nazionale dei geologi deve essere considerato come un'associazione di imprese ai sensi dell'articolo 101, par. 1, TFUE. In tale ambito, esso infatti non esercita né una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà, né prerogative tipiche dei pubblici poteri, ma piuttosto appare come l'organo di regolamentazione di una professione il cui esercizio costituisce, peraltro, un'attività economica;

    - in considerazione del carattere vincolante del codice deontologico rispetto ai geologi e della possibilità di infliggere a questi ultimi sanzioni in caso di inosservanza del predetto codice, le relative disposizioni sono da ritenersi costitutive di una decisione ai sensi dell'articolo 101 TFUE.

    - tale decisione è suscettibile di produrre effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno. Posto che il diritto italiano dispone l'appartenenza obbligatoria, su tutto il territorio della Repubblica italiana, dei geologi all'ordine professionale (il che implica il loro assoggettamento a regole deontologiche e la loro responsabilità disciplinare per la violazione di tali regole), tale decisione si estende a tutto il territorio di uno Stato membro, producendo, per sua stessa natura, l'effetto di consolidare la compartimentazione dei mercati a livello nazionale.

    La Corte ha tuttavia aggiunto che non ogni decisione di un'associazione di imprese ricade necessariamente sotto il divieto sancito all'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, dovendo anche tenersi in considerazione il contesto globale nel quale la decisione si colloca e dei suoi obiettivi, che consistono, nel caso di specie, nel fornire le garanzie necessarie ai consumatori finali dei servizi di cui trattasi.

    La Corte ha concluso che spetta al giudice del rinvio valutare se gli effetti restrittivi della concorrenza si producono in concreto e se i criteri individuati per la fissazione della tariffa professionale e, in particolare, il criterio della dignità della professione, siano funzionali al conseguimento dell'obiettivo di garantire i beneficiari della qualità della prestazione dei geologi.

  • C-312/11

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    Assegnata in data: 06/08/2013

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte si pronuncia sul ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia per il mancato corretto recepimento dell'articolo 5 della direttiva 2000/78/CE che istituisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro dei disabili, recepita nell'ordinamento italiano dal decreto legislativo n. 216/2003.

    Ad avviso della Commissione europea, l'Italia, non imponendo a tutti i datori di lavoro di prevedere soluzioni applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l'articolo 5 della direttiva. In particolare, dopo una fase precontenziosa aperta dalla Commissione con una lettera di diffida all'Italia il 15 dicembre 2006, la Commissione europea ha emesso un parere motivato il 29 ottobre 2009 e, dopo la risposta italiana di conferma della propria posizione del 13 gennaio 2010, ha presentato, il 20 giugno 2011, il ricorso in oggetto. In particolare, secondo la Commissione europea, il decreto legislativo n. 216/2003 non contiene tutte le misure di applicazione di tale direttiva e, in particolare, quelle recate dall'articolo 5, posto peraltro che le misure relative al trattamento dei disabili in materia di occupazione sono previste dalla legge n. 68/1999.

    In ogni caso, secondo la Commissione, non esiste nell'ordinamento italiano alcuna disposizione che recepisca l'obbligo generale previsto dall'articolo 5 della direttiva. Le garanzie e le agevolazioni disposte dalle norme italiane non riguardano tutti i disabili, non gravano su tutti i datori di lavoro e non riguardano neppure tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Infine, l'attuazione delle soluzioni in favore dei disabili previste dalla legislazione italiana, richiedendo l'adozione di ulteriori provvedimenti da parte delle autorità locali o la conclusione di apposite convenzioni, non conferisce ai disabili diritti invocabili direttamente in giudizio.

    Nel suo controricorso, l'Italia ribadisce il carattere estremamente avanzato della legislazione nazionale in materia di tutela dei disabili e sottolinea il fatto che essa non è di competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, il concetto di disabilità posto alla base dela legge quadro n. 104/1992 è pienamente conforme a quello della normativa europea (anche se la direttiva 2000/78 non definisce la nozione di handicap) così come quello di adeguatezza e di proporzionalità delle misure, che, ad avviso italiano, si ritrova testualmente nell'articolo 5 della direttiva 2000/78. Anche le categorie di disabili, cui si applica la legge n. 68/1999, si basano sulla classificazione internazionale elaborata dalla Organizzazione mondiale della sanità. Quanto all'immediatezza e all'operatività delle misure, ad avviso dell'Italia, la legge n. 104/1992 si applica a tutti i disabili e a tutti i datori di lavoro. La previsione della soglia dimensionale di 15 dipendenti al di sotto della quale non è previsto l'obbligo per le imprese di assumere lavoratori con una certa percentuale di handicap, come disposto dalla legge n. 68/1999, è conforme al principio di proporzionalità e non esclude le medesime imprese dall'applicazione delle norme che prevedono l'eliminazione delle disparità di trattamento collegate alla disabilità, così come non impedisce loro di stipulare convenzioni per l'inserimento lavorativo dei disabili e di beneficiare di taluni incentivi collegati all'assunzione di disabili. Infine, anche le disposizioni recate dalla legge n. 381/1991 e dal decreto legislativo n. 81/2008 sono applicabili a tutti i disabili. Infine, il decreto legislativo n. 216/2003, che recepisce la direttiva, prevede la tutela giurisdizionale, sul piano civile, del principio di parità del trattamento, senza distinzione in funzione della gravità dell'handicap e, sul piano del diritto pubblico, il DPR n. 333/2000 (Regolamento di esecuzione della legge n. 68/1999, recante norme per il diritto al lavoro dei disabili) prevede un sistema sanzionatorio a vari livelli in caso di inottemperanza agli obblighi previsti dalla legge n. 68/1999.

    Ad avviso della Commissione, però, le disposizioni citate dall'Italia, peraltro mai richiamate nel corso del procedimento precontenzioso, non possono essere considerate, nemmeno nel loro insieme, sufficienti all'attuazione dell'articolo 5 della direttiva. Infatti, il sistema italiano di promozione dell'integrazione lavorativa dei disabili è essenzialmente fondato su incentivi, agevolazioni e iniziative a carico dell'autorità pubbliche e si basa solo in minima parte su obblighi imposti ai datori di lavoro, contrariamente a quanto previsto dall'articolo 5 della direttiva.

    Sulla base dell'articolo 5 della direttiva, in combinato disposto con i considerando 20 e 21, la Corte afferma quindi che gli Stati membri devono stabilire un obbligo per tutti i datori di lavoro di adottare provvedimenti efficaci e pratici in funzione delle esigenze delle situazioni concrete (senza tuttavia imporre ai medesimi un onere sproporzionato), non essendo sufficiente la previsione di misure di incentivo e di sostegno. Con riferimento alla legislazione italiana, ad avviso della Corte, né la legge n. 104/1992 né la legge n. 381/1999 garantiscono che tutti i datori di lavoro siano tenuti ad adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete; la legge n. 68/1999, avendo lo scopo di favorire l'accesso all'impiego di taluni disabili, non è volta a disciplinare quanto richiesto dall'articolo 5 della direttiva; il decreto legislativo n. 81/2008, infine, disciplina solo l'aspetto dell'adeguamento delle mansioni alla disabilità dell'interessato. Pertanto la legislazione italiana non assicura una trasposizione corretta e completa dell'articolo 5 della direttiva 2000/78.

    La Corte, ritenendo fondate le motivazioni del ricorso, dichiara quindi che l'Italia è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l'articolo 5 della direttiva 2000/78 e la condanna alle spese.

    Da ultimo, si segnala che con l'articolo 9, comma 4-ter, del decreto-legge n. 76/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 99/2013), l'Italia ha provveduto ad adeguare il nostro ordinamento a quanto disposto dall'articolo 5 della direttiva 2000/78, introducendo il principio dell'obbligatorietà a provvedere per i datori di lavoro pubblici e privati

  • C-233/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/08/2013

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte si pronuncia sul ricorso in via pregiudiziale proposto, ai sensi dell'articolo 267 TFUE, dal Tribunale di La Spezia, con ordinanza del 16 aprile 2012, nel procedimento Simone Gardella contro l'Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS) in merito al rifiuto dell'Istituto previdenziale di trasferire al regime previdenziale dell'Ufficio europeo dei brevetti (UEB), con sede a Monaco di Baviera, i diritti a pensione maturati in Italia. In particolare, la domanda verte sull'interpretazione degli articoli 20, 45, 48 e da 145 a 147 TFUE nonché dell'articolo 15 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

    Il ricorrente è un cittadino italiano che lavora all'UEB (organizzazione internazionale, come tale disciplinata dal diritto internazionale) dal 1° maggio 2002, dopo un periodo di lavoro prestato in Italia per il quale sono stati versati all'INPS i relativi contributi pensionistici. La domanda del ricorrente di trasferimento del capitale che rappresenta i diritti a pensione maturati in Italia è stata respinta dall'INPS sulla base della mancanza nell'ordinamento italiano di disposizioni che consentano il trasferimento richiesto.

    Il rinvio pregiudiziale ha ad oggetto la compatibilità con il principio della libera circolazione dei lavoratori nell'Unione europea dell'assenza di disposizioni che consentano ai cittadini di uno Stato membro, dipendenti di un'organizzazione internazionale, quale l'UEB, situata nel territorio di un altro Stato membro, di trasferire al regime previdenziale di tale organizzazione il capitale che rappresenta i diritti a pensione da essi maturati in precedenza nel territorio del loro Stato membro d'origine, in assenza di una convenzione internazionale tra tale Stato membro e detta organizzazione internazionale che preveda la possibilità di tale trasferimento.

    L'ordinamento italiano prevede la possibilità di trasferire o ricongiungere i periodi assicurativi, oltre che per i lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato iscritti a forme obbligatorie di previdenza presso enti, Fondi o Gestioni previdenziali nazionali, anche per i funzionari e gli agenti dell'Unione europea (sulla base dello Statuto, direttamente applicabile) e per i dipendenti di organizzazioni internazionali (quali l'Istituto universitario europea e la Banca europea degli investimenti), sulla base di accordi specifici. In assenza di accordo con l'UEB, non esisterebbe alcun obbligo per l'INPS di autorizzare il trasferimento del capitale. Per quanto riguarda la totalizzazione (istituto, previsto dal regolamento (CE) n. 883/2004, che permette al lavoratore di cumulare i periodi contributivi non coincidenti ai fini di una prestazione pensionistica liquidata pro quota dagli enti previdenziali in cui esso è stato assicurato), l'ordinamento italiano ne prevede l'applicazione a tutti i lavoratori che, sulla base del regolamento (CE) n. 883/2004, si spostano all'interno dell'Unione. La totalizzazione, tuttavia, non si applicherebbe ai dipendenti di organismi internazionali, in quanto essi non possono essere considerati, ad avviso del giudice del rinvio, soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri, come previsto dall'articolo 2 del regolamento medesimo.

    Preliminarmente, la Corte accerta che il il ricorrente, essendo un cittadino dell'Unione che, usufruendo del diritto alla libera circolazione, esercita un'attività lavorativa presso uno Stato membro diverso da quello di origine, rientra nell'applicazione dell'articolo 45 TFUE, anche se il suo rapporto di lavoro è con un'organizzazione internazionale (che non può considerarsi né un'istituzione né un organo dell'Unione). Nel caso di specie, non può tuttavia applicarsi lo Statuto dei funzionari dell'Unione europea (regolamento (CEE, Euratom, CECA n. 259/68), che prevede espressamente la facoltà per il lavoratore di fare versare alle Comunità il capitale, attualizzato fino al trasferimento effettivo, dei diritti a pensione già maturati in altro Stato.

    Al contrario, può applicarsi il regolamento (CE) n. 883/2004 che prevede la possibilità per i cittadini degli Stati membri che si spostano all'interno della Comunità, gli apolidi e i rifugiati di richiedere la totalizzazione dei periodi assicurativi, anche se tale possibilità non è prevista dal regolamento dell'UEB (che in ogni caso non può essere considerato un atto giuridico dell'Unione e, pertanto non può produrre effetti in uno Stato membro), che prevede solo la facoltà di richiedere il trasferimento del capitale, sulla base di un accordo specifico.

    La Corte precisa che il regolamento (CE) n. 883/2004 da un lato, non reca né l'obbligo specifico in capo agli Stati membri di prevedere la facoltà per il dipendente di un'organizzazione internazionale di trasferire il capitale relativo ai contributi pensionistici versati né l'obbligo di stipulare con l'organizzazione internazionale una convenzione a tale fine; dall'altro, dispone espressamente che, ai fini della liquidazione del trattamento pensionistico di vecchiaia, l'Istituto previdenziale tiene conto anche dei periodi contributivi maturati sotto la legislazione di ogni altro Stato membro, applicando, pertanto la totalizzazione (articolo 6).

    La Corte conclude quindi che la mancata previsione della facoltà di un dipendente di un'organizzazione internazionale di trasferire il capitale relativo ai periodi assicurativi già maturati è conforme al diritto dell'Unione, in tal senso respingendo il ricorso. Nel caso però in cui non sia applicabile il meccanismo di trasferimento dei diritti a pensione, la mancata previsione della possibilità di totalizzare i periodi assicurativi per un dipendente di un'organizzazione internazionale con sede presso un altro Stato membro non è conforme all'articolo 45 TFUE in quanto ostacola la libera circolazione dei lavoratori. In sostanza, la Corte afferma gli Stati membri debbano comunque prevedere l'applicazione del principio della totalizzazione.

  • C-100/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/08/2013

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale sulla compatibilità con il diritto dell’Unione europea della giurisprudenza nazionale che, a fronte di un ricorso proposto contro la decisione di aggiudicazione di un appalto da un offerente escluso, fondato sulla motivazione che l’offerta prescelta non sarebbe conforme alle specifiche tecniche dell’appalto, e di un ricorso incidentale dell’aggiudicatario, fondato sull’inosservanza di alcune specifiche tecniche dell’appalto nell’offerta presentata dall’offerente che ha proposto il ricorso principale, posto che entrambe le offerte risultino non conformi alle specifiche tecniche dell’appalto, impone di esaminare in via preliminare il ricorso incidentale e, in caso di fondatezza di quest’ultimo, di dichiarare inammissibile il ricorso principale senza esaminarlo nelmerito.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata il 25 gennaio 2013 dal Tar del Piemonte, nell’ambito di una controversia tra Fastweb SpA, da una parte, e l’Azienda Sanitaria Locale di Alessandria, nonché Telecom Italia SpA ed una controllata di quest’ultima, Path-Net SpA, dall’altra, a proposito dell’aggiudicazione di un appalto pubblico a tale controllata.

    In attuazione di un contratto quadro aggiudicato dal Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (Cnipa) per la fornitura di linee dati e fonia, l’Asl di Alessandria stipula un contratto con Telecom Italia, il cui progetto tecnico è ritenuto preferibile rispetto a quello di Fastweb. Quest’ultima impugna l’aggiudicazione davanti al Tar Piemonte, lamentando il fatto che l’offerta di Telecom non rispetterebbe le specifiche tecniche richieste. Telecom, a sua volta, propone un ricorso incidentale, sostenendo che anche l’offerta di Fastweb è affetta dallo stesso vizio.

    In esito alla verifica dell’idoneità delle offerte presentate dalle due società rispetto al piano di fabbisogni, disposta dal Tar del Piemonte, viene constatato che nessuna delle due offerte risulta conforme all’insieme delle specifiche tecniche imposte dal piano. Secondo il giudice, una simile constatazione dovrebbe logicamente condurre all’accoglimento dei due ricorsi e, di conseguenza, all’annullamento della procedura di aggiudicazione dell’appalto, dal momento che nessun offerente ha presentato un’offerta idonea a dar luogo ad aggiudicazione.

    Tuttavia, il Consiglio di Stato, a proposito di ricorsi in materia di appalti pubblici, con decisione del 7 aprile 2011 resa in adunanza plenaria, ha enunciato un principio di diritto, secondo il quale la legittimazione a ricorrere contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico spetta soltanto al soggetto che abbia legittimamente partecipato alla procedura di aggiudicazione. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, poiché Fastweb è stata erroneamente ammessa alla gara, risulta priva di legittimazione a proporre il ricorso principale ed esso non va neppure esaminato.

    Il Tar del Piemonte esprime dubbi sulla compatibilità di tale giurisprudenza con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, libera concorrenza e tutela giurisdizionale effettiva quali indicati nella direttiva 89/665/CEE, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE, e solleva la questione pregiudiziale innanzi alla Corte.

    Secondo la Corte, se, in un procedimento di ricorso, l’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto e proposto ricorso incidentale solleva un’eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell’offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l’offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall’autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile, in conseguenza dell’esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla compatibilità con le suddette specifiche tecniche sia dell’offerta dell’aggiudicatario che ha ottenuto l’appalto, sia di quella dell’offerente che ha proposto il ricorso principale. Pertnato il giudice amministrativo è tenuto ad esaminare sia il ricorso principale che quello incidentale e, nel caso di specie, ad annullare la procedura per l’impossibilità di procedere alla scelta di un’offerta regolare.

  • C-630/11 P e C-633/11 P

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    Assegnata in data: 16/07/2013

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con la decisione 2008/854/CE del 2 luglio 2008 la Commissione ha dichiarato incompatibili con il mercato comune gli aiuti illegittimamente concessi dalla Regione Sardegna a titolo della legge regionale 11 marzo 1998 - come interpretata dalla deliberazione regionale n. 33/6 - a favore di investimenti iniziali nell'industria alberghiera dell'isola e ha ordinato il recupero di tali aiuti presso i beneficiari. Secondo la Commissione gli aiuti erano da ritenersi incompatibili in quanto concessi a progetti avviati prima della presentazione della domanda d'aiuto, con ciò venendo meno all'obbligo previsto nella decisione di approvazione degli aiuti da parte della Commissione nonchè ai requisiti fissati dagli orientamenti del 1998. I soggetti interessati hanno presentato ricorso al Tribunale dell'Unione europea chedendo l'annullamento di tale decisione sulla base di tredici motivi, tre dei quali relativi a vizi di procedura e dieci relativi a vizi di merito. Con la decisione del 20 settembre 2011 il Tribunale ha respinto la richiesta; contro tale decisione è stata presentata richiesta di annullamento presso la Corte di giustizia. A sostegno delle loro impugnazioni i soggetti ricorrenti hanno fatto valere sette motivi tutti respinti dalla Corte:

    illegittimità della decisione di rettifica, con la quale la Commissione ha esteso e rettificato la precedente decisione di avvio del procedimento, in quanto fondata su circostanze incomplete. Al momento della decisione di avvio infatti la Commissione non era al corrente dell'esistenza della deliberazione regionale n. 33/6, nonostante che in 28 casi gli aiuti fossero stati concessi sulla base di tale strumento. Secondo i ricorrenti il Tribunale avrebbe ritenuto legittima la decisione di rettifica della Commissione, nonostante che i testi normativi che regolano i procedimenti in materia di aiuti di Stato non prevedano espressamente una decisione di rettifica di un procedimento pendente. Secondo la Corte tale constazione non può condurre alla conseguenza di vietare alla Commissione di procedere alla rettifica o al'estensione del procedimento qualora si dovesse rendere conto che l'avvio era fondato su circostanze incomplete;

    violazione dellarticolo 297 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) ("Le altre direttive e le decisioni che designano i destinatari sono notificate ai destinatari e hanno efficacia in virtù di tale notificazione") e dell'articolo 20 del regolamento n. 659/1999 ("A ogni parte interessata che abbia presentato osservazioni e a ogni beneficiario di aiuti individuali viene trasmessa copia della decisione adottata dalla Commissione a norma dell'articolo 7" ) per non aver notificato la decisione di rettifica ai soggetti beneficiari del regime controverso. Su questo punto la Corte concorda con il Tribunale che le decisioni della Commissione in materia di aiuti di Stato hanno sempre come destinatari gli Stati membri interessati e che l'articolo 20 del regolamento si applica alle decisioni della Commissione che concludono il procedimento di indagine formale;

    inosservanza dei termini previsti dal regolamento n. 659/1999. Secondo i ricorrenti il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che la Commissione non fosse tenuta a rispettare i termini previsti dal citato regolamento per quanto riguarda l'avvio del procedimento di indagine formale e la sua conclusione. La Corte concorda con il Tribunale secondo cui i termini di due mesi indicati dal regolamento per l'avvio del procedimento si applicano agli aiuti notificati (e non ai casi in cui il procedimento sia stato avviato a seguito di denuncia, come in questo caso) e che in caso di aiuti illegali la Commissione non sia vincolata ai termini stabiliti;

    erronea qualificazione dell'aiuto come aiuto nuovo e pertanto illegale. Sono in questione gli aiuti concessi ai sensi della legge regionale n. 9/1998, come interpretata dalla deliberazione regionale n. 33/6 che considera ammissibili al regime degli aiuti i lavori avviati prima dell'approvazione del regime da parte della Commisisone e della presentazione della domanda, purché dopo la data di entrata in vigore della legge. Secondo i ricorrenti la deliberazione non avrebbe modificato l'aiuto in maniera sostanziale; si tratterebbe dunque di un aiuto esistente. La Corte concorda con ilTribunale, secondo cui invece la modifica introdotta dalla deliberazione non è puramente formale o amministrativa, perchè proprio dalla deliberazione discende l'incompatibilità del regime di aiuti con il mercato comune;

    errore manifesto di valutazione quanto all'esistenza di un effetto incentivante. Secondo i ricorrenti non si può concludere che l'aiuto sia incentivante per l'economia per il solo fatto che la domanda sia stata effettuata prima dell'inizio dei lavori. Come stabilito dall'articolo 107 del TFUE, possono essere considerati compatibili con il mercato interno gli aiuti destinati a faovire lo sviluppo del tenore di vita delle regioni in cui esso sia anormalmente basso oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, come è il caso della regione Sardegna. Su tali basi la Commissione è autorizzata a rifiutare la concessione di un aiuto se esso non incentiva le imprese beneficiare a favorire lo sviluppo economico. Deve dunque essere dimostrato che l'aiuto è necessario per le regioni svantaggiate e che senza l'aiuto il progetto non sarebbe stato realizzato. La Corte concorda con il tribunale che ha concluso che l'anteriorità della domanda rispetto all'inizio dei lavori costituisce un criterio semplice, pertinente ed adeguato che consente alla Commissione di presumere il carattere necessario dell'aiuto progettato. Nella stessa occasione il Tribunale ha tuttavia ammesso che tale necessità potesse essere dimostrata anche sulla base di criteri diversi, ma non ha considerato tali i motivi addotti dai ricorrenti, vale a dire la certezza di ottenere l'aiuto in quanto corrispondente alle condizioni previste dalla legge regionale; il fatto che la regione Sardegna rientri tra quelle menzionate dall'articolo 107 del TFUE; il fatto di aver benefiziato di un precedente regime di aiuti analogo al regime controverso; il fatto di aver rinunciato a altri aiuti al dine di poter beneficiare dell'aiuto in questione;

    violazione dei principi di imparzialità e di tutela della concorrenza. Secondo i ricorrenti il Tribunale avrebbe violato tali principi, non dichiarando che i soggetti interessati avrebbero dovuto beneficiare dello stesso trattamento di altre dieci imprese che avevano presentato le loro domande prima dell'inizio dei lavori, ma anche prima delle deliberazioni regionali. La Corte ha ritenuto iricevibile tale motivo, in quanto l'impugnazione non ha indicato in modo preciso, come richiesto dall'articolo 256 del TFUE, gli elementi censurati della sentenza di cui si chiede l'annullamento;

    violazione del principio di tutela del legittimo affidamento. Secondo i ricorrenti, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che il legittimo impedimento fosse escluso in quanto la decisione di approvazione esigeva espressamente che la domanda di aiuto fosse presentata prima dell'inizio dei lavori. A tale proposito i ricorrenti sostengono di non essere stati informati dalla regione Sardegna della condizione relativa alla previa presentazione della domanda di aiuto; per di più la regione avrebbe loro consegnato una copia della decisione di approvazione della Commissione in cui tale condizione non era menzionata. La Corte concorda con il Tribunale, secondo cui il diritto di avvalersi della tutela del legittimo impedimento presuppone che rassicurazioni precise, incondizionate e concordanti siano venute da organi o istituzioni dell'Unione europea circa la compatibilità e la regolarità dell'aiuto, cosa che non si è verificata in questo caso.

    Per questi motivi la Corte respinge le impugnazioni e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese.

  • C-512/10

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    Assegnata in data: 16/07/2013

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con il ricorso per inadempimento, ai sensi dell'articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), la Commissione europea chiede alla Corte di giustizia di constatare la violazione da parte della Repubblica di Polonia della normativa UE in materia ferroviaria (direttive 91/440/CEE e 2001/14/CE).

    1) Il primo rilievo mosso dalla Commissione riguarda la mancata adozione di meccanismi efficaci al fine di garantire l'indipendenza organizzativa e gestionale del gestore dell'infrastruttura PLK SA (Polskie Linie Kolejowe Spółka Akcyjna), che esercita le funzioni considerate essenziali (il rilascio alle imprese ferroviarie di licenze che conferiscano loro l'accesso alla rete ferroviaria, l'assegnazione delle linee ferroviarie e la determinazione dei diritti che devono essere versati dalle imprese di trasporto per l'utilizzo della rete), dall'impresa che presta i servizi di trasporto ferroviario. Rispetto a tale censura la Repubblica italiana si è costituita in giudizio a sostegno della Polonia.

    Secondo la Commissione, per garantire un accesso equo e non discriminatorio all'infrastruttura ferroviaria, le funzioni essenziali devono essere assicurate da un soggetto indipendente dalle imprese ferroviarie non soltanto sul piano giuridico, ma anche sul piano economico. Quando le funzioni essenziali sono esercitate da una società dipendente da una holding alla quale appartengono fornitori di servizi di trasporto ferroviario, la suddetta società farebbe parte della medesima «impresa» dei fornitori in questione, a meno che non si dimostri che essa è libera di agire indipendentemente da questi ultimi. Come riferisce l'avvocato generale nelle sue conclusioni, la Repubblica italiana, nella sua memoria d'intervento, sostiene che l'obiettivo della direttiva 91/440 è manifestamente realizzato attraverso il modello organizzativo a holding, poiché le funzioni in questione sono attribuite ad una società che esercita unicamente un'attività di gestione di infrastruttura e non fornisce essa stessa servizi di trasporto ferroviario. Gli Stati membri conserverebbero la facoltà – nell'ambito del potere discrezionale ad essi riconosciuto dalla direttiva e conformemente al principio di sussidiarietà – di autorizzare i gruppi ferroviari nazionali e strutturarsi secondo le modalità che considerano le più adeguate e quindi anche adottando strutture di gruppo controllate da una holding comune. La Commissione ha rinunciato a tale censura.

    2) In secondo luogo, la Commissione addebita alla Repubblica di Polonia di non aver preso le misure atte a garantire in tempo utile l'equilibrio finanziario del gestore dell'infrastruttura (PLK SA), in violazione degli obblighi che incombono agli Stati membri a norma dell'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2001/14, in combinato disposto con l'articolo 7, paragrafi 3 e 4, della direttiva 91/440. Detti articoli impongono infatti che gli Stati membri stabiliscano le modalità necessarie affinché la contabilità del gestore dell'infrastruttura presenti almeno un equilibrio tra il gettito dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura, le eccedenze provenienti da altre attività commerciali e i contributi statali, da un lato, e, dall'altro, i costi di infrastruttura. La Corte ha invece stabilito che uno squilibrio del conto profitti e perdite della società PLK non è sufficiente di per sé a concludere che la Polonia non abbia adempiuto gli obblighi ad essa incombenti. Per giungere a una tale conclusione, occorre infatti dimostrare che lo squilibrio contabile sia intervenuto «in condizioni normali di attività e nell'arco di un periodo ragionevole», mentre la gestione indipendente dell'infrastruttura ferroviaria in Polonia è iniziata solo recentemente. La Corte ha disposto pertanto che, per questa parte, il ricorso venga respinto.

    3) In terzo luogo, la Commissione rileva l'assenza di misure che incentivino il gestore dell'infrastruttura a ridurre i costi di fornitura dell'infrastruttura e a limitare i costi connessi al servizio di infrastruttura o al livello dei diritti di accesso. La Corte ha sostenuto che la legge sul trasporto ferroviario polacca, sebbene preveda come obiettivo la riduzione delle spese e dell'importo dei diritti di utilizzo, ometta di definire come tale obiettivo dovrebbe essere raggiunto e non istituisce neanche un sistema di regolamentazione con adeguati poteri affinché il gestore dell'infrastruttura renda conto della sua gestione ad un'autorità. La Corte ha concluso che la terza censura invocata dalla Commissione a sostegno del proprio ricorso è fondata.

    4) Infine, la Commissione contesta la procedura per il calcolo dei diritti riscossi per l'accesso minimo alle infrastrutture ferroviarie. Secondo la Commissione, tali diritti corrisponderebbero unicamente ai costi generati dai movimenti effettivi di treni e non ai costi fissi che coprono le spese generali del funzionamento dell'infrastruttura che devono sostenersi anche in assenza di movimenti di treni. La Corte ha dichiarato che i costi di manutenzione o di gestione del traffico, nonché gli ammortamenti, non possono essere considerati direttamente imputabili alla prestazione del servizio ferroviario; pertanto, ha concluso che la quarta censura invocata dalla Commissione a sostegno del proprio ricorso è fondata.

  • C-492/11

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 16/07/2013

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia si pronuncia sulla compatibilità rispetto al diritto europeo di vari aspetti della normativa introdotta con il decreto legislativo del 4 marzo 2010, n. 28, recante attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (comunicato alla Commissione europea quale misura nazionale di trasposizione della direttiva 2008/52), e con il decreto ministeriale n. 180 del 2010. La Corte dichiara che non vi è luogo a procedere per le questioni sollevate dal giudice del rinvio.

    Il caso riguardava la richiesta di risarcimento del danno cagionato da un carrello elevatore ad una autovettura, per la quale la parte convenuta aveva chiesto la chiamata in garanzia della compagnia assicuratrice, aspetto che rientrava nel campo di applicazione del procedimento di mediazione obbligatoria previsto dal decreto legislativo n. 28 del 2010. Il giudice del rinvio, oltre a porre la questione della corretta interpretazione circa alcuni aspetti del regime dei termini procedurali, sollevava dubbi sulla compatibilità di molteplici profili del decreto citato con la direttiva 2008/52, l'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione e gli articoli 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e dei diritti fondamentali.

    I principali aspetti della disciplina italiana sulla mediazione obbligatoria sotto esame riguardavano:

    - la valenza probatoria dell'eventuale mancata partecipazione, senza giustificato motivo, ad un procedimento di mediazione obbligatoria;

    - il regime di ripetizione delle spese a carico della parte che ha rifiutato una proposta di conciliazione se la sentenza con la quale è stata definita la causa corrisponde (interamente, e, a certe condizioni, parzialmente) al contenuto della proposta.

    - il termine entro il quale deve concludersi il tentativo di mediazione;

    - il costo della procedura di mediazione.

    Come è noto, con sentenza n. 272/2012, pronunciata il 24 ottobre 2012, la Corte costituzionale italiana ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di taluni articoli del decreto legislativo n. 28/2010: da tale sentenza emerge, in particolare, che, in seguito alla dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'articolo 5, comma 1, del decreto legislativo n. 28/2010, il previo esperimento del procedimento di mediazione in Italia non è più una condizione di procedibilità della domanda giudiziale e le parti ormai non sono più tenute a ricorrere al procedimento di mediazione.

    La Corte di giustizia UE, preso atto di tale modifica ordinamentale italiana, ha pertanto dichiarato che le questioni indicate dal giudice del rinvio riferite a disposizioni successivamente dichiarate costituzionalmente illegittime, stante l'eliminazione dall'ordinamento nazionale, sono divenute prive di oggetto; per quanto riguarda le questioni residue, la Corte di giustizia ha dichiarato che, considerata l'abrogazione recante l'obbligo di partecipare alla mediazione, in ogni caso erano da considerarsi irrilevanti ai fini dell'emananda decisione del procedimento principale.

  • C-345/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 16/07/2013

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte si pronuncia sul ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia per il mancato corretto recepimento di alcune disposizioni della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico nell'edilizia, lette in combinato disposto con l'articolo 29 della direttiva 2010/31/UE (che abroga la direttiva 2002/91/CE, facendo tuttavia salvi gli obblighi degli Stati membri di recepimento e di applicazione della medesima).

    L'Italia ha recepito la direttiva 2002/91/CE con il decreto legislativo n. 192/2005 e con il DM 26 giugno 2009 (linee guida per la certificazione energetica degli edifici). Con una prima lettera di diffida del 18 ottobre 2006, la Commissione ha contestato all'Italia l'omessa comunicazione delle misure di recepimento della medesima direttiva. Con due successive lettere di diffida (rispettivamente, del 14 maggio 2009 e 24 giugno 2010), la Commissione ha contestato all'Italia il recepimento scorretto degli articoli 7, 9 e 10 della direttiva 2002/91/CE, riguardanti l'attestato di certificazione energetica (articolo 7), l'ispezione dei sistemi di condizionamento d'aria (articolo 9), la figura di esperti qualificati per la certificazione e l'ispezione degli edifici e delle caldaie (articolo 10). In mancanza di risposte da parte dell'Italia, la Commissione ha adottato un parere motivato il 24 novembre 2010 (procedura di infrazione n. 2006/2378), seguito da un parere motivato complementare (29 settembre 2011). Non ritenendo soddisfacente la risposta italiana a tale ultimo parere motivato complementare (2 gennaio 2012), la Commissione ha deciso di adire la Corte.

    Con riferimento all'articolo 7, paragrafi 1 e 2 (certificazione energetica) della direttiva 2002/91/CE, la Commissione contesta: il mancato rispetto del termine di attuazione previsto dall'articolo 15 (4 gennaio 2006); la mancata previsione dell'obbligo di inserire nei contratti di locazione una clausola in cui il conduttore dichiari di avere ricevuto un attestato sul rendimento energetico dell'immobile (la direttiva non prevede alcuna deroga in tal senso); l'introduzione di un sistema di autodichiarazione per gli edifici a rendimento energetico basso da parte del proprietario non previsto dalla direttiva e non conforme all'articolo 10 della medesima, secondo cui: a) l'autodichiarazione non permette di raffrontare il rendimento energetico; b) la certificazione energetica degli edifici e l'elaborazione delle raccomandazioni che la corredano debbano essere effettuate da esperti qualificati o riconosciuti e indipendenti. La Commissione, infine, contesta all'Italia l'omessa notifica delle misure di recepimento dell'articolo 9 della direttiva (in materia di ispezioni dei sistemi di condizionamento d'aria) entro il termine previsto dal sopra richiamato articolo 15.

    La Corte, ritenendo fondate le motivazioni del ricorso, dichiara che l'Italia, non avendo previsto l'obbligo di consegnare un attestato sul rendimento energetico in caso di vendita o di locazione di un immobile e avendo omesso di notificare alla Commissione europea le misure di recepimento dell'articolo 9 della direttiva 2002/91/CE, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli articolo 7, paragrafi 1 e 2, e 10 nonché 15, paragrafo 1, della medesima direttiva, letti in combinato disposto con l'articolo 29 della direttiva 2010/31/UE, sulla prestazione energetica nell'edilizia. La Corte condanna l'Italia alle spese.

    Si segnala che l'articolo 6 del decreto-legge n. 63/2013 (in corso di conversione) reca una specifica disciplina degli aspetti della certificazione energetica degli edifici, volta al superamento dei rilievi alla base del contenzioso in esame.

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