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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-196/13

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con il ricorso, la Commissione europea ha chiesto alla Corte di dichiarare la Repubblica italiana inadempiente in relazione agli obblighi ad essa incombenti in base alle direttive 74/442/CEE, 91/689/CEE e 1999/31/CE, relative alla gestione dei rifiuti e alle discariche e, contestualmente, di condannarla al pagamento di sanzioni pecuniarie (una penalità giornaliera e una somma forfettaria) nonché al pagamento delle spese.

    Ai sensi della direttiva 74/442/CEE, gli Stati membri sono tenuti ad adottare le misure necessarie (tra cui il divieto di abbandono, scarico e smaltimento incontrollato) per garantire che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute umana e per l'ambiente (articolo 4); essi devono inoltre adottare le misure necessarie perché ogni detentore di rifiuti provveda a consegnarli ad un raccoglitore o provveda lui stesso allo smaltimento, nel rispetto della direttiva (articolo 8); infine, l'articolo 9 subordina l'attività di smaltimento dei rifiuti al rilascio da parte dell'autorità nazionale di un'autorizzazione specifica, che può riguardare un periodo determinato, può essere rinnovata o essere accompagnata da condizione e, infine, può essere rifiutata. Il contenuto di tali articoli è ora riprodotto dagli articoli 13, 15, 23 e 36 della direttiva 2008/98 (che ha abrogato e sostituito la direttiva 2006/12/CE che, a sua volta, aveva abrogato e sostituito la direttiva 74/442/CEE). L'articolo 2 della direttiva 91/689/CEE ha previsto, tra l'altro, l'obbligo di catalogazione e identificazione da parte delle autorità nazionali dei rifiuti pericolosi smaltiti in discarica (anche il contenuto di tale articolo è stato trasposto nell'articolo 35 della direttiva 2008/98/CE, che ha abrogato anche la direttiva 91/689/CEE). Infine, la direttiva 1999/31/CE, all'articolo 4, condiziona il funzionamento delle discariche esistenti alla presentazione di un piano di riassetto sulla base del quale le autorità nazionali possano decidere il proseguimento dell'attività o la chiusura; il successivo articolo 18 prevedeva il termine di due anni dall'entrata in vigore della direttiva per l'adozione da parte degli Stati membri delle misure necessarie e per informare la Commissione.

    Per non avere adottato i provvedimenti necessari all'attuazione delle disposizioni di tali direttive, la Corte di giustizia aveva già riconosciuto l'inadempienza dell'Italia nella sentenza Commissione/Italia (EU:C:2007:250) del 26 aprile 2006, accogliendo il ricorso della Commissione europea. In sede di controllo dell'ottemperanza di tale sentenza, la Commissione ha dedotto il persistere della inadempienza e ha deciso di presentare il presente ricorso, ai sensi dell'articolo 260 TFUE.

    In particolare, la Commissione ha sottolineato l'esistenza sul territorio italiano, oltre il termine indicato dal parere motivato, di un notevole ma incerto numero (tra 368 e 422) di discariche non conformi alla direttiva 74/442, di cui fra 15 e 21 contenenti rifiuti pericolosi non catalogati ed identificati. Per tali siti, i lavori di bonifica non risultano ultimati o, in qualche caso, nemmeno programmati, mentre per alcune di tali discariche era stato disposto il sequestro. Ad avviso della Commissione, l'Italia avrebbe dovuto adottare misure strutturali dal momento che il sistema repressivo previsto dalla normativa nazionale si era dimostrato insufficiente a dare esecuzione alla sentenza (EU:C:2007:250). Inoltre, l'Italia non avrebbe ottemperato ai suoi obblighi avendo anche omesso di valutare la necessità di adottare misure di bonifica e recupero dei siti interessati. Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dall'Italia, le misure che prevedono il divieto di abbandono, scarico e smaltimento incontrollato di rifiuti non esauriscono gli obblighi previsti dalle direttive comunitarie e, laddove operazioni di bonifica fossero state previste, sulla base delle informazioni in possesso della Commissioni, sarebbero ancora in corso. Inoltre, alla scadenza del termine del parere motivato, risultavano irregolari sotto il profilo delle autorizzazioni richieste dalla direttiva 1999/31 almeno 93 discariche in funzione alla data del 16 luglio 2001: per taluni siti non sarebbe stato né approvato né presentato alcun piano di riassetto e non sarebbe stata adottata alcuna decisione in ordine alla chiusura; per altri siti, i dati forniti dalle autorità italiane sarebbero incompleti o poco chiari o addirittura del tutto mancanti.

    L'Italia, invece, ha sostenuto di avere adottato tutte le misure necessarie ai fini dell'esecuzione della sentenza (EU:C:2007:250), avendo messo in sicurezza tutte le discariche; a giudizio dell'Italia, infatti, la direttiva 74/442 non imporrebbe obblighi di ripristino o di bonifica dei siti. Inoltre, non solo tutte le 218 discariche considerate abusive dalla Commissione erano inattive alla data della scadenza del termine previsto dal parere motivato ma la maggior parte dei siti sarebbe stata anche bonificata o in corso di riassegnazione agli utilizzi fondiari tradizionali. Pertanto, dal momento che le discariche giudicate non conformi erano chiuse, le disposizioni relative ai piani di riassetto non sarebbero state più applicabili.

    Inoltre, ad avviso dell'Italia, l'ampliamento del numero delle discariche considerate dalla Commissione avrebbe imposto alla stessa Commissione l'obbligo di inviare un nuovo parere motivato. Da ultimo, l'Italia ha contestato il fatto che nell'ordinamento nazionale non vi sono norme in palese contrasto con la normativa europea.

    La Corte, preliminarmente, in sede di giudizio sulla ricevibilità del ricorso, respinge le argomentazioni dell'Italia in merito all'illegittimo ampliamento del numero delle discariche oggetto del ricorso, dal momento che, come già nella sentenza (EU:C:2007:250), la Corte constata l'esistenza di un inadempimento di carattere generale e persistente. Essa, infatti, non fa riferimento ai singoli siti ritenuti non conformi né a disposizioni specifiche dell'ordinamento giudicate inadeguate, ma piuttosto alla mancanza di misure di carattere strutturale che pongano in essere una riforma in grado di dare esecuzione alla sentenza.

    Entrando poi nel merito del giudizio, in primo luogo, la Corte ritiene che, come afferma la Commissione, l'Italia ha continuato a violare l'articolo 4 della direttiva 74/442/CEE. Infatti, se è vero, come sostiene l'Italia, che l'articolo 4 della direttiva 74/442/CEE non impone agli Stati membri di bonificare i siti delle discariche abusive, lasciando loro un margine di discrezionalità nell'adozione di misure che salvaguardino la salute e l'ambiente, è anche vero che la constatazione di un degrado rilevante dell'ambiente per un periodo prolungato, in assenza di interventi delle autorità competenti, rivela l'abuso da parte dello Stato membro del margine di discrezionalità. La mera chiusura di una discarica o la copertura dei rifiuti con terra e detriti non sono pertanto sufficienti ad adempiere gli obblighi posti dall'articolo 4 della direttiva 74/442/CEE. Al contrario, ai sensi di tale norma, lo Stato membro è tenuto a verificare se sia necessaria la bonifica del sito e, all'occorrenza, a bonificarlo.

    A tale proposito, l'Italia non può sostenere di non essere stata al corrente che la completa esecuzione della sentenza (EU:C:2007:250) comportasse anche l'adozione di misure relative alle discariche abusive, dal momento che i sopralluoghi e le ispezioni menzionati nei rapporti inviati alla Commissione attestano la piena consapevolezza delle autorità italiane della minaccia per la salute e l'ambiente rappresentata da tali siti. Inoltre, anche quando i lavori di bonifica fossero stati programmati, è pacifico che, alla data di scadenza del termine fissato dal parere motivato (30 settembre 2009), in certi siti i lavori erano ancora in corso o non erano ancora iniziati; per altri siti, l'Italia non ha fornito alcuna indicazione utile a determinare la data entro la quale tali bonifiche sarebbero iniziate.

    L'Italia risulta inadempiente anche con riferimento all'articolo 8 della direttiva 74/442/CEE, dal momento che impone agli Stati membri di accertarsi che il detentore di rifiuti li consegni ad un raccoglitore autorizzato o provveda egli stesso secondo le disposizioni della direttiva. Ad avviso della Corte, tale obbligo non è soddisfatto quando lo Stato membro si limita ad ordinare il sequestro della discarica e ad avviare un procedimento penale.

    Ad avviso della Corte, inoltre, l'Italia non ha adempiuto neanche all'obbligo, previsto dall'articolo 9 della direttiva 74/442/CEE, di subordinare l'attività di smaltimento dei rifiuti ad una specifica autorizzazione rilasciata dalle autorità competenti. Anche in questo caso, la mera chiusura di una discarica non è sufficiente a garantire il rispetto della norma, essendo piuttosto necessaria una specifica attività di controllo e vigilanza per l'accertamento della regolarità delle attività svolte nelle discariche, che garantisca, eventualmente, la cessazione delle operazioni svolte irregolarmente e l'effettiva applicazione di sanzioni.

    Con riferimento a tale rilievo, l'Italia si è limitata ad affermare che tutte le discariche indicate dalla Commissione risultavano chiuse alla scadenza del termine impartito. Inoltre, nelle memorie difensive, l'Italia ha riconosciuto che i gestori di alcune di tali discariche non hanno mai disposto dell'autorizzazione.

    La Corte dichiara l'inadempimento dell'Italia anche con riferimento agli obblighi di catalogazione e identificazione dei rifiuti pericolosi depositati in discarica. Infatti, l'Italia non ha sostenuto, e tantomeno dimostrato, di avere provveduto, entro il termine impartito, in tal senso.

    Infine, ad avviso della Corte, l'Italia ha violato anche l'obbligo di subordinare la continuazione dell'attività di una discarica all'approvazione di un piano di riassetto, come previsto dall'articolo 14 della direttiva 1999/31/CE. A tale riguardo, l'Italia si è limitata ad affermare che tutte le discariche indicate dalla Commissione come irregolari quanto al piano di riassetto, erano chiuse alla scadenza del termine. Tuttavia, come risulta dalla documentazione prodotta dall'Italia, alcune di tali discariche sono state aperte senza autorizzazione e per tali siti non è stato adottato alcun provvedimento di chiusura.

    Quanto alla determinazione dell'ammontare delle pene pecuniarie, la Corte preliminarmente ricorda che rientra tra le sue prerogative stabilire le sanzioni pecuniarie adeguate, in particolare per prevenire la reiterazione di analoghe infrazioni al diritto dell'Unione.

    La possibilità di irrogare una sanzione pecuniaria dipende dall'accertamento del perdurare dell'inadempimento fino all'esame dei fatti da parte della Corte: nel caso in specie, risulta alla Commissione che, al momento della discussione del ricorso, 200 discariche italiane non erano ancora conformi alle disposizioni europee.

    Da tali elementi, pertanto, la Corte deduce la persistenza dell'inadempimento e osserva che la condanna al versamento di una penale costituisce un mezzo finanziario adeguato a sollecitare l'Italia all'adozione delle misure necessarie per garantire la completa esecuzione della sentenza (EU:C:2007:250), ponendo fine all'inadempimento. I criteri da prendere in considerazione per fissarne l'importo sono, pertanto: la durata dell'inadempimento, il suo grado di gravità e la capacità di pagamento dello Stato membro, determinata sulla base della recente evoluzione del Prodotto interno lordo (PIL). Nell'applicazione di tali criteri, la Corte deve tenere conto delle conseguenze dell'omessa esecuzione sugli interessi pubblici e privati nonché dell'urgenza di indurre lo Stato membro a conformarsi ai suoi obblighi.

    L'inadempimento dell'Italia risulta grave in quanto l'obbligo di smaltire i rifiuti senza pregiudizio per la salute umana e l'ambiente costituisce uno degli obiettivi della politica ambientale dell'UE. Inoltre, il fatto che la controversia in esame riguardi la mancata esecuzione di una sentenza avente ad oggetto una prassi generale e persistente aumenta la gravità dell'inadempimento. Inoltre, pur tenendo conto dei notevoli progressi compiuti dall'Italia, essi sono stati compiuti con grande lentezza e, alla data di discussione del ricorso, numerose sono ancora le discariche abusive in funzione. Pertanto, la Corte calcola la durata dell'inadempimento in oltre sette anni.

    Per tenere conto dei progressi compiuti, la Corte giudica opportuno condannare l'Italia al pagamento di una penalità decrescente su base semestrale in ragione del numero di siti messi a norma, computando due volte le discariche contenenti rifiuti pericolosi, sulla base delle prove dell'adozione delle misure necessarie, trasmesse alla Commissione prima della fine di ciascun semestre.

    La penalità semestrale, da versare alla Commissione, sul conto "Risorse proprie dell'Unione europea", è calcolata, per il primo semestre successivo alla sentenza, a partire da un importo iniziale di 42.800 euro, dal quale saranno detratti 400.000 euro per ciascuna discarica contenenti rifiuti pericolosi messa a norma e 200.000 euro per le altre discariche regolarizzate.

    Ad avviso della Corte, il numero elevato di discariche non conformi e il gran numero di procedure di infrazione in materia di rifiuti delle quali è stata investita sono indice del fatto che la prevenzione effettiva della futura reiterazione di analoghe infrazioni al diritto dell'Unione richiede l'adozione di una misura dissuasiva, quale la condanna al pagamento di una somma forfettaria, correlata alle caratteristiche dell'inadempimento rilevato e al comportamento specifico dello Stato membro. Anche in questo caso, i criteri per il calcolo dell'ammontare sono la gravità dell'inadempimento, la sua durata dopo la pronuncia della sentenza e la capacità di pagamento dello Stato interessato. Dal momento che l'inadempimento italiano ha carattere generale e persistente, che le discariche si trovano nella quasi totalità delle regioni italiane e che alcune di esse contengono rifiuti pericolosi, la Corte giudica equo condannare l'Italia al pagamento di una somma forfettaria di 40 milioni di euro.

    Infine, essendo parte soccombente, l'Italia è condannata anche al pagamento delle spese.

  • C-113/13

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: XII COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 49 e 56 del TFUE, che riguardano i principi di trasparenza e di parità di trattamento ed è stata presentata nell'ambito di una controversia relativa ad alcune delibere della Regione Liguria concernenti l'organizzazione, a livello regionale e locale, dei trasporti sanitari di urgenza ed emergenza.

    Le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici sono regolamentate a livello dell'Unione europea dalladirettiva 2004/18/UE(abrogata, a decorrere dal 18 aprile 2016, dalla direttiva 2014/24/UE). Essa prevede l'applicazione di procedure diverse, a seconda dell'oggetto dell'appalto nonché del valore (entro o oltre una determinata soglia di valore). Nell'ordinamento italiano, il principio dell'attività di volontariato dei cittadini è tutelato dall'articolo 118 della Costituzione. La Regione Liguria, con la legge regionale n. 41/2006, ha disciplinato, tra l'altro, la partecipazione delle associazioni di volontariato alla realizzazione degli obiettivi del servizio sanitario regionale e, all'articolo 75-ter, ha disposto l'affidamento del trasporto sanitario alle associazioni di volontariato, alla CRI e ad altre associazioni autorizzate, sulla base di apposite convenzioni, a loro volta basate su uno specifico accordo quadro. A tali soggetti è dovuto esclusivamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute, determinato sulla base di criteri di economicità, efficienza e non sovracompensazione dei costi sostenuti, nonché di una frazione dei costi fissi e durevoli nel tempo. Tali convenzioni sono state stipulate con le associazioni di volontariato aderenti all'ANPAS e con la CRI.

    Avverso le delibere della ASL n. 5, sulla base delle quali sono state concluse le convenzioni, le cooperative San Lorenzo e Croce Verde Cogema hanno presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale vertente, in via principale, sull'incompatibilità con il diritto dell'UE e, in particolare, con i principi di libertà di stabilimento, libera prestazione di servizi, parità di trattamento e non discriminazione, della normativa regionale che prevede che i trasporti sanitari siano affidati in via prioritaria alle associazioni di volontariato e alla Croce Rossa Italiana nonché alle altre istituzioni o enti pubblici autorizzati, il che costituirebbe una discriminazione nei confronti di soggetti che non svolgono un'attività di volontariato, attivi in tale settore di attività. In subordine, tali cooperative contestano che le convenzioni controverse stabiliscano semplici rimborsi spese. In sede di appello, il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte di giustizia se le disposizioni del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici e le regole di concorrenza del Trattato siano contrarie ad una normativa nazionale che prevede che le amministrazioni locali debbano affidare la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza e di emergenza, in via prioritaria e con affidamento diretto, senza alcuna forma di pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, le quali ricevono il rimborso delle spese effettivamente sostenute e di una frazione dei costi fissi e durevoli nel tempo.

    La Corte, preliminarmente, dichiara che l'accordo quadro regionale e le relative convenzioni rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva 2004/18, in materia di appalti pubblici. Sul presupposto della natura mista dei servizi in discussione, trova applicazione l'articolo 22 della citata direttiva che prevede che gli appalti pubblici, o, eventualmente, gli accordi quadro il cui valore sia superiore alla soglia rilevante fissata all'articolo 7 della menzionata direttiva e che riguardano siffatti servizi devono essere aggiudicati conformemente a tutte le norme procedurali di cui agli articoli da 23 a 55 della medesima direttiva se il valore dei servizi di trasporto, indicato nell'allegato II A, risulta superiore al valore dei servizi medici, indicato all'allegato II B. Allorché invece il valore dei servizi di cui all'allegato II B risulta superiore a quello dei servizi di cui all'allegato II A, l'appalto deve essere aggiudicato in conformità dei soli articoli 23 e 35, paragrafo 4, della direttiva 2004/18 e non sono applicabili a tali appalti le altre norme relative al coordinamento delle procedure previste dalla direttiva 2004/18, segnatamente quelle riguardanti gli obblighi di gara con pubblicità previa e quelle relative ai criteri di attribuzione degli appalti in parola.

    Il legislatore dell'Unione, infatti, si è basato sulla presunzione che gli appalti relativi ai servizi ricompresi nell'allegato II B della direttiva 2004/18 non presentino, data la loro natura specifica, un interesse transfrontaliero tale da giustificare che la loro aggiudicazione avvenga in esito ad una procedura di gara d'appalto intesa a consentire a imprese di altri Stati membri di venire a conoscenza del bando e di partecipare alla gara d'appalto

    Spetta al giudice del rinvio verificare se l'accordo quadro regionale sia superiore al valore oltre il quale è necessaria l'applicazione delle norme riguardanti la pubblicità dell'appalto e determinare il valore rispettivo dei servizi di trasporto e dei servizi medici.

    Nel caso in cui il valore dell'accordo quadro regionale superi la soglia di valore fissato e il valore dei servizi di trasporto sia superiore a quello dei servizi medici, l'affidamento in via prioritaria e senza gara alle associazioni di volontariato sarebbe contrario alla direttiva 2004/18. Se, al contrario, il giudice del rinvio constata il mancato raggiungimento del valore limite, non sarebbe applicabile la procedura ad evidenza pubblica ma i principi generali di trasparenza e di parità di trattamento (articoli 49 e 56 TFUE).

    Ciò nondimeno, affinché tali principi siano applicabili in materia di appalti pubblici ad attività i cui elementi rilevanti si collocano tutti all'interno di un solo Stato membro, è necessario che l'appalto presenti un interesse trasfrontaliero certo. L'individuazione degli elementi necessari per consentire alla Corte di verificare se sussista tale interesse dovrebbe essere effettuata dal giudice del rinvio, sulla base di criteri oggettivi (per esempio, l'importo dell'appalto, il luogo di esecuzione, le caratteristiche tecniche, nonché l'esistenza di denunce presentate da operatori di altri Stati membri). Una volta verificata l'esistenza dell'interesse transfrontaliero certo, ad avviso della Corte, è innegabile che la normativa regionale che esclude dall'affidamento del servizio di trasporto sanitario una parte degli operatori di mercato sia contraria ai principi di libera circolazione dei servizi e di tutela della concorrenza.

    Tuttavia, La Corte osserva che, sulla base della normativa regionale in esame, le modalità di organizzazione del servizio di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza sono improntate ai principi di universalità, di solidarietà, di efficienza economica e di adeguatezza, giacché il ricorso in via prioritaria alle associazioni di volontariato appare volto a garantire che tale servizio, di interesse generale, sia assicurato in condizioni di equilibrio economico. Si tratta di obiettivi parimenti tutelati dal diritto dell'Unione.

    Inoltre, sulla base dell'ordinamento dell'Unione, gli Stati membri hanno margini di discrezionalità per configurare il loro sistemi previdenziali e di sanità pubblica, potendo decidere i livelli di tutela e le modalità per garantirli, controllando i costi ed evitando sprechi economici.

    In questo quadro, ad avviso della Corte, uno Stato membro può ritenere che il ricorso alle associazioni di volontariato corrisponda alla finalità sociale del trasporto sanitario d'urgenza e che sia idoneo a contribuire al controllo dei costi legati a tale servizio. Proprio per questo, è altresì necessario che le associazioni di volontariato perseguano i medesimi obiettivi e non traggano profitto dalle loro prestazioni. Anche l'accertamento di tali condizioni spetta al giudice del rinvio.

    Sulla base di tali considerazioni, la Corte conclude che gli articoli 49 e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non sono contrari ad una normativa nazionale che prevede l'affidamento diretto e in via prioritaria del servizio di trasporto sanitario d'urgenza e di emergenza ad associazioni di volontariato convenzionate, purché l'ambito normativo e convenzionale in cui si svolge l'attività delle associazioni contribuisca effettivamente alle finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza del bilancio.

  • C-428/13

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 03/12/2014

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 7, paragrafo 2, e 8, paragrafo 6, della direttiva 2011/64/UE relativa alla struttura e alle aliquote dell'accisa applicata al tabacco lavorato.

    Tale domanda è stata sollevata nell'ambito di una controversia tra il Ministero dell'economia e delle finanze e l'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), da un lato, e la Yesmoke Tobacco SpA dall'altro, in merito alla decisione del direttore generale dell'AAMS, dell'11 gennaio 2012, di introdurre un'accisa minima unicamente sulle sigarette con un prezzo di vendita al pubblico inferiore a quello delle sigarette della classe di prezzo più richiesta.

    In particolare, con tale decisione, in base all'articolo 39-octies, comma 4, del decreto legislativo 504/95, veniva fissata al 115% dell'importo base l'accisa minima sulle sigarette con prezzo di vendita al pubblico inferiore a quello delle sigarette appartenenti alla classe di prezzo più richiesta. La società italiana Yesmoke Tobacco SpA, che produce e commercializza sigarette a un prezzo inferiore a quello della classe di prezzo più richiesta, ha impugnato la decisione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio. Quest'ultimo ha annullato la decisione dell'AAMS, ritenendo che essa reintroducesse de facto un prezzo di rivendita minimo per i tabacchi lavorati, in elusione, a suo giudizio, della sentenza della Corte di giustizia C-571/08. Contro la sentenza di annullamento il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'AAMS hanno proposto appello al Consiglio di Stato.

    Con la sua domanda pregiudiziale il Consiglio di Stato domanda alla Corte se la citata direttiva consenta una disposizione nazionale che stabilisca non già un'accisa minima identica per tutte le sigarette, bensì un'accisa minima applicabile unicamente alle sigarette con un prezzo di vendita al pubblico inferiore a quello delle sigarette della classe di prezzo più richiesta.

    In via preliminare, la Corte di giustizia rileva che la direttiva 2011/64/UE fissa i principi generali dell'armonizzazione delle strutture e delle aliquote d'accisa per il tabacco lavorato e ha l'obiettivo di garantire, da un lato, il buon funzionamento del mercato interno nonché condizioni neutre di concorrenza nel settore del tabacco.

    In particolare, la Corte osserva che l'art. 7, paragrafi 1 e 2, della citata direttiva stabilisce che:

    • le sigarette prodotte nell'Unione e quelle importate da Paesi terzi sono soggette, in ciascuno degli Stati membri, a un'accisa ad valorem calcolata sul prezzo massimo di vendita al minuto, compresi i dazi doganali, nonché a un'accisa specifica calcolata per unità di prodotto;
    • l'aliquota dell'accisa ad valorem e l'importo dell'accisa specifica devono essere uguali per tutte le sigarette.

    Per altro verso, l'art. 8, paragrafo 6, della direttiva stabilisce che gli Stati membri possono applicare un'accisa minima sulle sigarette.

    Quando gli Stati membri si avvalgono della facoltà offerta dalla direttiva di introdurre un'accisa minima, la regolamentazione che adottano deve inserirsi nel contesto definito dalla stessa direttiva senza contravvenire ai suoi obiettivi (tutela della concorrenza). L'applicazione di soglie d'imposta che variano in funzione delle caratteristiche o del prezzo delle sigarette comporterebbe distorsioni alla concorrenza tra le differenti sigarette e sarebbe contraria all'obiettivo di garantire il corretto funzionamento del mercato interno e condizioni neutre di concorrenza perseguito dalla direttiva.

    La Corte dichiara pertanto che la normativa italiana attua un sistema in cui l'importo prelevato sulle sigarette della classe di prezzo più richiesta, in applicazione dell'accisa globale, è inferiore all'importo prelevato a titolo dell'accisa minima sulle sigarette meno costose, con la conseguenza di creare distorsioni di concorrenza e di contravvenire agli obiettivi della direttiva.

     

  • C-344/13 e C-367/13

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 03/12/2014

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 52 e 56 del Trattato sul funzionamento dell'UE (TFUE), relativi – rispettivamente – al principio di libera circolazione dei servizi e alle deroghe al principio di libertà di stabilimento giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.

    Tale domanda è stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Roma nell'ambito di una controversia tra l'Agenzia delle Entrate e i Sig.ri Cristiano Blanco e Pier Paolo Fabretti, i quali avevano proposto ricorso avverso alcuni avvisi di accertamento, con i quali si contestava l'omessa dichiarazione di varie vincite ottenute in case da gioco all'estero. I ricorrenti sostenevano che gli avvisi di accertamento emessi nei loro confronti violassero il principio della libera prestazione dei servizi previsto dal citato articolo 56 del TFUE ed il principio di non discriminazione sancito dall'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, dato che le vincite realizzate in Italia sono esenti da imposta.

    L'art. 69, paragrafo 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica (DPR) n.917, del 22 dicembre 1986, recante approvazione del testo unico delle imposte sui redditi considera quali redditi diversi, come tali facenti parte della base imponibile dell'imposta sul reddito, "le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico ed i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte".

    Tuttavia, tale disposizione non si applica alle vincite corrisposte da case da gioco italiane, in quanto, a norma dell'articolo 30, settimo comma, del citato DPR, la ritenuta sulle vincite versate da tali stabilimenti è compresa nell'imposta sugli spettacoli, divenuta l'imposta sugli intrattenimenti, introdotta dal decreto legislativo 60/1999.

    Il giudice del rinvio rileva che, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia, tale diversità di trattamento potrebbe essere considerata giustificata qualora rientrasse in una disposizione derogatoria intesa a garantire l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sanità pubblica, restando conforme al principio di proporzionalità.

    Secondo il giudice del rinvio, la normativa italiana mirerebbe non tanto a proteggere le case da gioco nazionali, quanto a scoraggiare le pratiche del riciclaggio e dell'autoriciclaggio di capitali all'estero, nonché a limitare le fughe all'estero o l'introduzione in Italia di capitali privi di origini controllabili.

    Sulla base di queste considerazioni, la Commissione tributaria provinciale di Roma chiede alla Corte di giustizia di valutare:

    -       se una normativa nazionale possa assoggettare all'imposta sul reddito le vincite da giochi d'azzardo realizzate in altri Stati membri, mentre quelle conseguite nelle case da gioco nazionali non subiscono tale prelievo (esistenza di una restrizione della libera prestazione dei servizi);

    -       se motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica consentano di giustificare tale diversità di trattamento (esistenza di una giustificazione alla restrizione).

    Ad avviso della Corte, la differenza di trattamento fiscale riduce l'attrattività di uno spostamento in un altro Stato membro allo scopo di praticare giochi d'azzardo, e dunque costituisce una violazione dell'art. 56 del TFUE che, sulla base di giurisprudenza consolidata, esige la soppressione di qualsiasi restrizione quando essa è idonea a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro.

    Con riferimento al secondo punto, ovvero alla possibilità di giustificare la disparità di trattamento fiscale con gli obiettivi di prevenzione del riciclaggio e autoriciclaggio di capitali e di limitazioni all'ingresso di capitali di origine incerta, la Corte osserva che le autorità di uno Stato membro non possono presumere, in maniera generale e senza distinzioni, che gli organismi e gli enti stabiliti in un altro Stato membro si dedichino ad attività criminali. Inoltre, il fatto di escludere, in via generale, il beneficio di un'esenzione fiscale risulta sproporzionato, in quanto va al di là di quanto è necessario per lottare contro il riciclaggio di capitali, essendovi a tal fine altri mezzi a disposizione degli Stati membri. La Corte aggiunge che la disparità di trattamento non può essere invocata come strumento per combattere la ludopatia - e dunque per tutelare la sanità pubblica - dal momento che l'esenzione fiscale per le vincite ottenute nelle case da gioco situate nel territorio nazionale può, al contrario, incoraggiare i consumatori a partecipare ai giochi d'azzardo.

  • C-323/13

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 03/12/2014

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con il suo ricorso, la Commissione europea chiede alla Corte di dichiarare la Repubblica italiana inadempiente in relazione agli obblighi ad essa incombenti in base al combinato disposto degli articoli 1, paragrafo 1, e 6, lettera a), della direttiva 1999/31/CE, relativa alle discariche dei rifiuti, nonché degli articoli 4, 13 e 16 della direttiva 2008/98/CE, relativa ai rifiuti.

    In particolare, la direttiva 1999/31/CE ha la finalità di prevenire o ridurre le ripercussione negative sull'ambiente e i rischi per la salute umana derivanti dalle discariche e definisce il trattamento dei rifiuti come l'insieme dei processi (fisici, termici, chimici, biologici, inclusa la cernita) che modificano le caratteristiche dei rifiuti allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa e di facilitarne il trasporto o favorirne il recupero (articoli 1 e 2). L'articolo 6, lettera a), dispone che gli Stati membri provvedano affinché solo i rifiuti trattati vengano posti in discarica. Anche la direttiva 2008/98/CE ha lo scopo di proteggere la salute umana e l'ambiente attraverso la riduzione della produzione dei rifiuti e la promozione dell'applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti. Quest'ultima stabilisce un ordine di priorità nella gestione dei rifiuti, in cui lo smaltimento costituisce l'ultimo stadio (articolo 4). L'articolo 13 prevede l'obbligo per gli Stati membri di prendere le misure necessarie affinché la gestione dei rifiuti avvenga senza pregiudizio per la salute umana e per l'ambiente. L'articolo 16 prevede la creazione da parte degli Stati membri di una rete integrata di impianti per lo smaltimento e il recupero dei rifiuti urbani non differenziati.

    Ad avviso della Commissione, la violazione di tali disposizioni riguarda la discarica di Malagrotta nel Lazio, che raccoglieva rifiuti non trattati (la mera triturazione e compressione dei rifiuti indifferenziati non costituisce, per la Commissione, un trattamento conforme alla normativa europea) e il deficit di capacità di trattamento meccanico-biologico (TMB) del SubATO (sub-ambito territoriale ottimale) di Roma e di quello di Latina. Nel corso della fase contenziosa (procedura di infrazione 2011/4021), le autorità italiane hanno riconosciuto la fondatezza delle contestazioni della Commissione, preannunciando l'adozione di misure volte al loro superamento entro il 2014 (la chiusura della discarica di Malagrotta, l'avvio della raccolta differenziata dei rifiuti della città di Roma, la costruzione di una discarica temporanea per lo stoccaggio dei rifiuti trattati e l'adozione di un cronoprogramma).

    La Commissione, ritenendo insoddisfacenti le risposte delle autorità italiane, ha deciso di proporre il ricorso in esame.

    In merito al primo rilievo della Commissione (la triturazione o compressione dei rifiuti indifferenziati destinati a discarica non evita o riduce gli effetti negativi a carico dell'ambiente e della salute umana, in violazione degli articoli 1, paragrafo 1, e 6, lettera), della direttiva 1999/31/CE nonché degli articoli 4 e 13 della direttiva 2008/98/CE), le autorità italiane contestano il ritardo con cui la Commissione, pur essendo a conoscenza dei dati fin dal 2009 (anno in cui è iniziata la fase precontenziosa di EU-Pilot), ha deciso la costituzione in mora dell'Italia (2011) e affermano che, in ogni caso, il termine concesso per conformarsi al diritto europeo non può essere inferiore al ritardo della comunicazione dell'avvio della procedura di infrazione. Quanto al secondo motivo del ricorso (il deficit di capacità di TMB nei SubAto di Roma e di Latina), le autorità italiane ricordano, da un lato, di avere riconosciuto l'esistenza di tale deficit e, dall'altro, di averne previsto il superamento a decorrere dal 2014. Il ritardo nella realizzazione delle misure preannunciate sarebbe da addebitarsi non solo all'incapacità delle autorità nazionali di adattare velocemente la disciplina in vigore alle direttive europee ma anche ai comportamenti fraudolenti di alcuni gestori delle discariche nel frattempo condannati penalmente. Pertanto, ad avviso delle autorità italiane, il ricorso in esame costituirebbe un processo alle intenzioni da parte della Commissione, essendo quest'ultima informata del fatto che sono state adottate nuove disposizioni nazionali e che la situazione riguardante il trattamento dei rifiuti sarebbe nettamente migliorata.

    Con riferimento alle posizioni delle parti, la Corte afferma che la fondatezza dell'inadempimento degli obblighi di trattamento dei rifiuti contestato dalla Commissione all'Italia è ammessa dalle stesse autorità italiane e che, secondo una costante giurisprudenza, l'esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato (nel caso di specie due mesi dalla ricezione del medesimo, inviato con lettera del 1^ giugno 2012), non potendosi prendere in considerazione dalla Corte le modifiche successivamente intervenute. Inoltre, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni (per esempio, la presenza di organizzazioni criminali) del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l'inosservanza degli obblighi e dei termini previsti da una direttiva. Infine, spetta alla Commissione, sulla base dell'articolo 258 TFUE, valutare l'opportunità di agire contro uno Stato membro che si ritiene abbia violato le disposizioni del Trattato, scegliendo anche il momento in cui iniziare il procedimento per inadempimento. La Corte, dal canto suo, è tenuta ad accertare se l'inadempimento contestato sussiste o no, senza che le spetti pronunciarsi sull'esercizio del potere discrezionale della Commissione.

    Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, la Corte ritiene fondata la censura della Commissione, che rileva la violazione da parte dell'Italia degli articoli 1, paragrafo 1, e 6, lettera a), della direttiva 1999/31/CE nonché degli articoli 4 e 13 della direttiva 2008/98/CE, non avendo adottato le misure necessarie a che la gestione dei rifiuti urbani avvenga senza pregiudizio per l'ambiente e la salute umana.

    Quanto al secondo rilievo (violazione dell'articolo 16 della direttiva 2008/98/CE in relazione al deficit di capacità di TMB), la Corte sottolinea che la mancanza di una rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti urbani è stata riconosciuta dalle stesse autorità italiane nel luglio 2012. Gli ulteriori elementi dedotti dall'Italia riguardano misure adottate successivamente alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato. Inoltre, le affermazioni italiane sull'utilizzo di altri impianti nella regione Lazio sarebbero state smentite sia da provvedimenti amministrativi sia da notizie di stampa sulla formalizzazione di accordi nel 2013 per portare i rifiuti fuori dalla regione. Pertanto, ad avviso della Corte, dato che l'esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e dato che è incontestato che, alla scadenza di tale termine, la situazione nella regione Lazio non era conforme alle prescrizioni dell'articolo 16 della direttiva 2008/98/CE, anche il secondo rilievo sollevato dalla Commissione è fondato.

    Per tali motivi, la Corte dichiara che la Repubblica italiana, non avendo adottato le misure necessarie per assicurare che il trattamento dei rifiuti urbani conferite nelle discariche dei SubAto di Roma (ad esclusione di quella di Cecchina) e di Latina avvenga in modo da limitare gli effetti negativi a carico dell'ambiente e della salute umana, è venuta meno agli obblighi posti degli articoli 1, paragrafo 1, e 6, lettera), della direttiva 1999/31/CE nonché degli articoli 4 e 13 della direttiva 2008/98/CE. Inoltre, non avendo creato una rete integrata ed adeguata di impianti di gestione dei rifiuti, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi previsti dall'articolo 16 della direttiva 2008/98/CE. La Corte condanna quindi l'Italia al pagamento delle spese.

  • C-270/13

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    Assegnata in data: 03/12/2014

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 45 TFUE che stabilisce il diritto della libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'UE e il divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità.

    La domanda è stata proposta dal Consiglio di Stato nell'ambito di una controversia avente ad oggetto la nomina del presidente dell'autorità portuale di Brindisi. Nel procedimento di nomina, le autorità competenti avevano designato una terna di esperti nei settori dell'economia dei trasporti e portuale, tra i quali sig. Casilli e il sig. Haralambidis. Il primo aveva proposto ricorso innanzi al TAR Puglia avverso il decreto del 7 giugno 2011 con cui il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti aveva nominato il sig. Haralambidis, adducendo il fatto che quest'ultimo non poteva essere nominato presidente dell' autorità in quanto privo della cittadinanza italiana. A seguito di accoglimento del ricorso sul fondamento dell'articolo 51 della Costituzione italiana, il sig. Haralambidis aveva adito il Consiglio di Stato.

    In particolare, il giudice del rinvio chiede alla Corte se l'articolo 45 TFUE possa essere interpretato nel senso di consentire ad uno Stato membro di riservare ai propri cittadini l'esercizio delle funzioni di presidente di un'autorità portuale, in quanto di natura pubblicistica e rivestenti carattere fiduciario.

    La Corte di giustizia, sulla base della legislazione italiana (in particolare, la legge n. 84/94), ritiene che la figura del presidente di un'autorità portuale sia riconducibile alla più generale nozione di lavoratore, ricadente nell'ambito di applicazione dell'articolo 45 TFUE.

    Nel caso di specie, le attività del presidente di un'autorità portuale sono esercitate sotto la direzione e il controllo del Ministro, che lo nomina e che, nei casi previsti dalla legge, lo può revocare. Inoltre, come corrispettivo per lo svolgimento dei suoi compiti, è versata al presidente una remunerazione con le caratteristiche di prevedibilità e regolarità, insite in un rapporto di lavoro subordinato. La Corte aggiunge che la natura di diritto pubblico del rapporto di lavoro è irrilevante ai fini dell'applicazione dell'articolo 45 TFUE.

    In secondo luogo, la Corte precisa la portata della deroga contemplata dall'articolo 45, paragrafo 4, TFUE, per gli impieghi nella pubblica amministrazione, chiarendo che essa è applicabile nei limiti di quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi nazionali. Nel caso di specie, la Corte non rinviene, tra i compiti attribuiti al presidente di un'autorità portuale, l'esercizio dei pubblici poteri e funzioni il cui obiettivo è la tutela degli interessi generali dello Stato. I poteri di imperio ad esso attribuiti (il potere di ingiungere la rimessa in pristino dei luoghi, in caso di occupazione abusiva di zone demaniali, e il compito di assicurare la navigazione nell'ambito portuale), pur rientrando in linea di principio nella deroga alla libera circolazione dei lavoratori, non sono esercitati in via abituale e rappresentano una parte residuale dell'attività svolta, la quale presenta in generale un carattere tecnico e di gestione economica che non può essere modificato dal loro esercizio.

    Per tali motivi, ad avviso della Corte, un'esclusione generale dell'accesso dei cittadini di altri Stati membri alla carica di presidente di un'autorità portuale costituisce una discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dai paragrafi 1-3 dell'articolo 45 TFUE, e il successivo paragrafo 4 deve essere interpretato nel senso che non consente a uno Stato membro di riservare ai propri cittadini l'esercizio delle funzioni di presidente di un'autorità portuale

  • C-221/13

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 03/12/2014

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva 97/81/CE nell'ambito di una controversia in merito ad un provvedimento del Ministero della Giustizia che disposto la trasformazione del contratto di lavoro a tempo parziale in uno a tempo pieno senza il consenso della dipendente.
    Sulla base di quanto disposto dalla legge n. 183/2010, il Ministero della Giustizia ha unilateralmente imposto il regime di lavoro a tempo pieno alla dipendente (funzionaria del Ministero della giustizia in servizio presso l'organo giurisdizionale del rinvio). Quest'ultima ha proposto ricorso dinanzi al giudice del rinvio (Tribunale ordinario di Trento) chiedendo l'annullamento delle decisioni del Ministero della Giustizia e del dirigente amministrativo del medesimo Tribunale che, adito dalla ricorrente, le aveva ordinato di assoggettarsi al nuovo regime.
    Il giudice del rinvio chiede se l'accordo quadro, e in particolare la clausola 5, punto 2, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in base alla quale il datore di lavoro può disporre la trasformazione di un contratto di lavoro a tempo parziale in un contratto di lavoro a tempo pieno, senza il consenso del lavoratore interessato.
    Ad avviso della Corte, la direttiva e l'accordo quadro vincolano gli Stati membri per quanto riguarda il risultato da raggiungere (superamento delle discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, miglioramento della qualità del lavoro a tempo parziale, promozione dello sviluppo del lavoro a tempo parziale) ma lasciano alle autorità nazionali la scelta della forma e dei mezzi. L'accordo quadro, inoltre, enuncia principi generali e prescrizioni minime relative al tempo parziale, tra le quali vi è quello in base al quale il rifiuto di un lavoratore di passare a tempo pieno non costituisce un motivo valido per il licenziamento (clausola 5, punto 2). Tale principio, ad avviso della Corte, non impone, pertanto, agli Stati membri, di adottare una normativa che subordini al consenso del lavoratore la trasformazione del suo contratto a tempo pieno. Esso piuttosto è volto unicamente ad escludere che l'opposizione del lavoratore possa costituire motivo del suo licenziamento.
    Per tali motivi, ad avviso della Corte, l'accordo quadro a tempo parziale, allegato alla direttiva 97/81/CE, e in particolare la clausola 5, punto 2, deve essere interpretato nel senso che non osta, in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale, a una normativa nazionale in base alla quale il datore di lavoro può disporre la trasformazione di un contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato.

  • C-85/13

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 04/09/2014

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con il suo ricorso, la Commissione europea chiede alla Corte di giustizia di dichiarare la Repubblica italiana inadempiente per non avere ottemperato agli obblighi ad essa incombenti in base agli articoli 3, 4, 5 e 10 della direttiva 91/271/CEE, come modificata dal regolamento n. 1137/2008, in materia di acque reflue urbane.
    L'articolo 3 della direttiva dispone l'obbligo per gli Stati membri di provvedere affinché tutti gli agglomerati urbani siano provvisti di reti fognarie per le acque reflue urbane. In particolare, per quelli con più di 10.000 abitanti e le cui acque reflue si immettono in acque recipienti considerate, ai sensi del successivo articolo 5, aree sensibili, il termine a provvedere è fissato al 31 dicembre 1998. L'articolo 4 dispone l'obbligo per gli Stati membri di provvedere affinché le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente. L'articolo 5 dispone che gli Stati membri individuano le aree sensibili e provvedano affinché le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico in aree sensibili, ad un trattamento più spinto di quello secondario, entro il 31 dicembre 1998 per tutti gli scarichi provenienti da agglomerati con oltre 10.000 abitanti. L'articolo 10, infine, dispone che gli Stati membri provvedano affinché la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane garantiscano prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali e, nella progettazione, si tenga conto delle variazioni stagionali di carico.
    Come disposto dall'articolo 15 della direttiva (obblighi informativi a carico degli Stati membri), la Commissione europea, con lettera del 29 maggio 2007, ha invitato il governo italiano a fornire, entro sei mesi, informazioni dettagliate in merito all'attuazione della direttiva. Le risposte a tale richiesta, ad avviso della Commissione, sono state trasmesse ben oltre il termine, non riguardavano l'intero territorio nazionale e, inoltre, si basavano su dati imprecisi. La Commissione ha in particolare giudicato le informazioni trasmesse insufficienti ai fini della verifica del rispetto della direttiva con riferimento agli agglomerati urbani con più di 10.000 abitanti, che scaricano le loro acque reflue in aree sensibili o nei relativi bacini drenanti. Secondo la Commissione, quindi, l'Italia sarebbe risultata inadempiente agli obblighi previsti dagli articolo 3, 4, 5 e 10 della direttiva, continuando a violare sistematicamente tali disposizioni. Di conseguenza, la Commissione, il 26 giugno 2009, ha inviato al governo italiano una lettera di diffida, invitandolo a presentare le sue osservazioni entro due mesi, e ha trasmesso un elenco di 525 agglomerati con più di 10.000 abitanti, che scaricano le acque reflue in aree sensibili non in conformità con la direttiva.
    Dopo che il governo italiano, con lettera del 27 ottobre 2009, ha risposto ammettendo l'incompletezza dei dati presentati e l'esistenza di situazioni di non conformità alla direttiva, la Commissione, con lettera del 20 marzo 2011, ha emesso un parere motivato, ai sensi dell'articolo 258 del TFUE, invitando il governo italiano ad adottare le misure necessarie entro il termine di due mesi con riferimento ad un elenco di 159 agglomerati non ritenuti conformi sulla base dei dati disponibili (procedura di infrazione n. 2009/2034).
    Il governo italiano, con lettera del 27 luglio 2009, ha inviato una nuova analisi dettagliata in base alla quale risultavano essere 153 gli agglomerati non conformi alla direttiva e, contestualmente, indicava i progressi ottenuti.
    Le informazioni fornite dal governo italiano, tuttavia, non sono state ritenute sufficienti al superamento dei rilievi con riferimento a 50 agglomerati con più di 10.000 abitanti, rispetto ai quali la Commissione disponeva di prove sufficienti di non conformità alla direttiva alla data di scadenza del termine impartito per la risposta. La Commissione ha quindi deciso di proporre ricorso alla Corte di giustizia.
    Nel corso del procedimento, la Commissione ha confermato i suoi rilievi per 41 dei 50 agglomerati inizialmente indicati. Il governo italiano ha ammesso l'inadempimento limitatamente a 36 agglomerati e, rispetto ai rimanenti agglomerati, ha fatto riferimento ad analisi di controllo successive alla scadenza del termine previsto dal parere motivato.
    La Corte, richiamando consolidata giurisprudenza, ha osservato che l'esistenza di un inadempimento dev'essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e che i mutamenti avvenuti in seguito non possono essere presi in considerazione. Sulla base di tale argomentazione, la Corte ha ritenuto il ricorso fondato ed ha dichiarato che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli articoli 3, 4, 5 e 10 della direttiva 91/271/CEE (come modificata dal regolamento n. 1137/2008), condannandola alle spese.

  • C-606/12 (cause riunite C-606/12, C-607/12)

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 04/09/2014

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull'interpretazione dell'art. 17, paragrafo 2, lettera f) della direttiva 2006/112/CE, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, e sono state proposte nell'ambito di una controversia insorta tra la Dresser‑Rand Francia e l'Agenzia delle entrate (Direzione Provinciale, Ufficio Controlli di Genova), in merito ad avvisi di accertamento finalizzati al recupero dell'imposta sul valore aggiunto non assolta in riferimento agli anni d'imposta 2007 e 2008.

    La Dresser‑Rand Francia produce compressori industriali a gas naturale. Nell'esercizio di tale attività, ha stipulato un contratto con un cliente finale, una società di diritto spagnolo, per la fornitura di beni complessi. Per l'esecuzione di tale contratto, la Dresser‑Rand Francia ha utilizzato compressori importati dal suo stabilimento cinese a cura della Dresser‑Rand Italia Srl (in prosieguo: la «Dresser‑Rand Italia») e ha introdotto nel territorio italiano in provenienza dalla Francia taluni ulteriori componenti necessari per l'utilizzo dei compressori importati. Successivamente, essa ha stipulato con la FB ITMI SpA (in prosieguo: la «FB ITMI»), società terza con sede in Italia, un contratto relativo alla fornitura di ulteriori componenti necessari al funzionamento e all'installazione dei beni in questione presso il cliente finale. La FB ITMI ha spedito direttamente tali beni assemblati al cliente finale, emettendo fattura nei confronti della Dresser‑Rand Italia per le operazioni relative alle prestazioni di assemblaggio e adattamento accessorie, nonché di consegna dei beni in questione. La Dresser‑Rand Italia, nella qualità di rappresentante fiscale della Dresser‑Rand Francia, ha proceduto alla fatturazione del complesso di beni inviati al cliente finale.

    Facendo leva sul proprio status di esportatore abituale, la Dresser‑Rand Italia ha ritenuto di poter ricevere i beni e i servizi forniti dalla FB ITMI senza versare l'IVA, sulla base dell'articolo 8, commi 1, lettera c), e 2, del DPR n. 633/1972, mentre l'Agenzia delle entrate contesta tale possibilità. In particolare, la Dresser‑Rand Francia ritiene che il trasferimento di compressori dalla Francia verso l'Italia costituisca un acquisto intracomunitario assimilato, in base al citato articolo 17, paragrafo 1 della direttiva direttiva 2006/112/CE, in quanto si tratta del trasferimento di un bene mobile materiale effettuato dal soggetto passivo, fuori dal territorio dello Stato membro in cui si trova il bene, ma nella Comunità, per le esigenze della sua impresa. La Dresser‑Rand Francia precisa anche che la vendita dei beni assemblati al cliente finale, a partire dal territorio italiano, costituisce una cessione intracomunitaria. Secondo l'Agenzia delle entrate, invece, il trasferimento di beni dalla Francia verso l'Italia ricade nell'ambito di applicazione dell'articolo 17, paragrafo 2, lettera f), della direttiva, in quanto non costituisce acquisto intracomunitario l'introduzione nel territorio dello Stato di beni oggetto di perfezionamento e manipolazioni se tali beni sono successivamente trasportati o spediti al committente, soggetto passivo di imposta, nello Stato membro di provenienza o per conto suo in altro Stato membro ovvero fuori del territorio della Comunità. L'Agenzia delle entrate asserisce, dunque, che il contratto concluso tra la Dresser‑Rand Francia e la FB ITMI ha ad oggetto non la fornitura di un bene nuovo, ma la prestazione di un servizio. Di conseguenza, l'operazione prevista da tale contratto non potrebbe essere assimilata ad una cessione di beni, ai sensi dell'articolo 17, paragrafo 1, della suddetta direttiva.

    La Commissione tributaria provinciale di Genova ha deciso di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte se l'articolo 17, paragrafo 2, lettera f), della direttiva 2006/112/CE debba essere interpretato nel senso che preclude alla legislazione o alla prassi degli Stati membri la facoltà di prevedere che la spedizione o il trasporto dei beni non siano trattati come trasferimento a destinazione di un altro Stato membro se non alla condizione che i beni ritornino nello Stato membro a partire dal quale erano stati inizialmente spediti o trasportati.

    La Corte rileva che il testo stesso dell'art. 17, paragrafo 2 lettera f) della direttiva 2006/112/CE prevede esplicitamente che la spedizionedi un bene ai fini della prestazione di un servizio resa al soggetto passivo non si considera trasferimento a destinazione di un altro Stato membro, qualora tale bene sia successivamente rispedito al soggetto passivo nello Stato membro di origine, cioè quello a partire dal quale esso era stato inizialmente spedito. La Corte aggiunge che la deroga prevista da tale disposizione deve essere interpretata alla luce dell'obiettivo perseguito dal regime transitorio dell'IVA applicabile al commercio intracomunitario di trasferire il gettito fiscale allo Stato membro in cui avviene il consumo finale dei beni ceduti. L'applicazione dell'art. 17, paragrafo 2 lettera f) della direttiva è quindi subordinata alla condizione necessaria che il bene sia rispedito nel suo Stato membro di origine.

    Nella controversia in questione i beni non sono stati rispediti verso lo Stato membro di origine, cioè verso la Francia, dopo l'esecuzione in Italia dei lavori sugli stessi: pertanto, non essendo stata soddisfatta la condizione relativa alla rispedizione del bene nello Stato membro di origine, l'articolo 17, paragrafo 2, lettera f) della direttiva 2006/112/CE non è applicabile alla controversia.

  • C-595/12

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 04/09/2014

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 2, paragrafo 2, lettera c), 14, paragrafo 2, e 15 della direttiva 2006/54/CE, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.

    L'articolo 2, par. 2, lett. c), considera discriminazione qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità. L'articolo 14, par. 1, lett. c), vieta qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, fondata sul sesso, anche con riferimento agli enti di diritto privato, per quanto riguarda l'occupazione e le condizioni di lavoro. Con riferimento all'accesso al lavoro, compresa la formazione, il successivo paragrafo 2 prevede che gli Stati membri possano stabilire una differenza di trattamento solo in relazione alla specifica natura dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato. L'articolo 15 prevede che, al rientro dal congedo per maternità, la lavoratrice ha diritto a riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente e di beneficiare dei miglioramenti eventualmente intervenuti.

    La domanda è stata presentata dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nell'ambito di una controversia avente ad oggetto l'esclusione di una dipendente dell'Amministrazione penitenziaria da un corso di formazione per la qualifica di vicecommissario di polizia penitenziaria a seguito della sua assenza per un congedo obbligatorio di maternità. In particolare, tale Amministrazione ha comunicato alla dipendente la sua dimissione dal corso, con perdita della retribuzione, e l'ammissione a frequentare il corso successivamente organizzato.

    Sulla base dell'articolo 9 del decreto legislativo n. 146/2000, i vincitori del concorso per vice commissario penitenziario, nominati in prova, devono frequentare un corso di formazione di dodici mesi al termine del quale devono sostenere un esame. L'articolo 10 dispone che, in caso di assenza per giustificato motivo per più di trenta giorni, anche se determinata dal congedo per maternità, il dipendente è ammesso a frequentare il corso successivo.

    Ad avviso del giudice amministrativo, tale ultima norma comporterebbe un pregiudizio per la ricorrente la quale, a causa della maternità, si troverebbe in condizioni svantaggiate rispetto ai colleghi maschi, vincitori del medesimo concorso e ammessi al corso di formazione. Ciò anche perché la ricorrente perderebbe la retribuzione e i contributi previdenziali di cui avrebbe beneficiato se avesse potuto seguire il corso iniziale. Inoltre, il diritto della lavoratrice a frequentare il corso successivo non obbliga l'amministrazione interessata a organizzare tale corso, che potrebbe tenersi, a discrezione dell'amministrazione stessa, anche dopo molti anni dal precedente.

    Alla luce di tali premesse, il giudice amministrativo regionale ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

    1)    se l'articolo 15 della direttiva sia, in primo luogo, applicabile alla frequenza di un corso di formazione professionale e se, sulla base della sua interpretazione, la lavoratrice ha il diritto di essere riammessa al medesimo corso interrotto per maternità o se, al contrario, possa essere iscritta la corso successivo, la cui effettuazione è incerta;

    2)    se l'articolo 2, par. 2, lett. c), della direttiva debba essere interpretato nel senso di assicurare alla lavoratrice una protezione assoluta tale da non potere essere compressa nemmeno da una norma nazionale che persegue l'obiettivo di assicurare un'adeguata formazione professionale ma le impedisce di accedere al medesimo corso frequentato dai colleghi vincitori dello stesso concorso;

    3)    se l'articolo 14, par. 2, della direttiva debba essere interpretato nel senso di consentire allo Stato membro di ritardare l'accesso al lavoro in danno della lavoratrice che non abbia potuto godere di una formazione completa a causa della maternità;

    4)    se tale ultima disposizione, unitamente al principio di proporzionalità, possa essere interpretato nel senso di non consentire che una normativa nazionale preveda le dimissioni dal corso di formazione di una lavoratrice in maternità piuttosto che assicurare corsi paralleli di recupero;

    5)    se la direttiva 2006/54 rechi norme direttamente applicabili dal giudice nazionale.

    Con riferimento alle prime due questioni, ad avviso della Corte di Giustizia, sulla base di una corretta interpretazione dell'articolo 15 della direttiva, una normativa nazionale non può, neanche per motivi di interesse pubblico, escludere una donna in congedo per maternità da un corso di formazione professionale, pur garantendole il diritto a partecipare ad un corso successivo, la cui effettuazione rimane incerta.

    Infatti, la norma nazionale, comportando la perdita dell'opportunità di beneficiare di migliori condizioni di lavoro, configura un trattamento sfavorevole ai sensi dell'articolo 15 della direttiva. Inoltre, l'interesse pubblico di fare accedere ai livelli superiori personale adeguatamente formato non risulta perseguito dalla normativa italiana nel rispetto del principio di proporzionalità. Infatti, da un lato, l'esclusione dal corso è automatica a causa dell'assenza per maternità e non è prevista la possibilità per la lavoratrice di sostenere l'esame finale per la verifica della preparazione comunque acquisita, dall'altro, non è previsto un obbligo per le autorità competenti di organizzare corsi a scadenze predeterminate.

    Con riferimento alla terza e alla quarta questione, ad avviso della Corte, l'articolo 14, par. 2, della direttiva non può essere applicato al caso in esame dal momento che non è prevista l'applicazione di disposizioni che riservano una particolare attività ai soli lavoratori di sesso maschile.

    Infine, con riferimento all'ultima questione, la Corte richiama consolidata giurisprudenza, secondo la quale in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, esse possono essere invocate dai singoli dinanzi al giudice nazionale nei confronti dello Stato membro. Secondo la Corte, le disposizioni degli articoli 14, paragrafo 1, lett. c), e 15 della direttiva soddisfano tali requisiti, per cui sono tali da produrre un effetto diretto. Esse pertanto possono essere applicate dal giudice nazionale, il quale avrà l'obbligo di disapplicare all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.

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