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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-281/14

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    Assegnata in data: 12/04/2016

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con l’impugnazione proposta il 9 giugno 2014, la Società per l’aeroporto civile di Bergamo-Orio al Serio (SACBO) SpA (in prosieguo: la «SACBO») chiede l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale dell’Unione europea del 31 marzo 2014 (T-270/13), che ha dichiarato irricevibile il ricorso della SACBO diretto all’annullamento dell’atto 18 marzo 2013 dell’Agenzia esecutiva per l’innovazione e le reti (INEA) (in prosieguo: l’«atto controverso»), relativo a taluni costi sostenuti in occasione della realizzazione di uno studio di fattibilità per lo sviluppo dell’intermodalità dell’aeroporto di Bergamo-Orio al Serio (Italia) a seguito del contributo finanziario concesso dalla Commissione europea all’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC). La SACBO è una società di diritto privato, concessionaria della gestione e dello sviluppo dell’aeroporto di Bergamo-Orio al Serio in forza di una convenzione aeroportuale conclusa con l’ENAC. Nel maggio 2009, a seguito del bando annuale promosso dalla Commissione ai sensi del regolamento (CE) n. 680/2007, che stabilisce i principi generali per la concessione di un contributo finanziario della Comunità nel settore delle reti transeuropee dei trasporti e dell’energia, l’ENAC, su iniziativa della SACBO, ha presentato domanda di finanziamento di uno studio di fattibilità sull’intermodalità dell’aeroporto di Bergamo-Orio al Serio, ottenendo un contributo finanziario dell’UE (assegnato con la decisione C(2010)4456), pari a 800 mila euro. I rapporti giuridici tra l’ENAC e la SACBO relativi alla concessione del contributo sono stati disciplinati sulla base di una convenzione conclusa tra le due parti, che prevedeva, in particolare, che la SACBO avrebbe cofinanziato lo studio e sostenuto l’onere delle spese considerate non finanziabili dalla Commissione. Allorché lo studio di fattibilità è stato portato a termine, l’INEA ha informato l’ENAC, mediante l’atto controverso, che taluni costi sostenuti non potevano essere considerati finanziabili a causa, sostanzialmente, del mancato rispetto delle norme applicabili in materia di appalti pubblici e che, conseguentemente, la somma di 158 517,54 euro avrebbe dovuto essere rimborsata a titolo di importo pagato in eccesso. Nella sua ordinanza del 31 marzo 2014, il Tribunale dell’UE ha ritenuto che la SACBO, in quanto non direttamente interessata dall’atto controverso, non fosse legittimata a proporre ricorso di annullamento avverso il medesimo, poiché l’ENAC era il titolare del diritto al contributo finanziario e il solo beneficiario di quest’ultimo. Secondo il Tribunale, sebbene l’ENAC dovesse procedere al recupero di un importo pagato in eccesso a carico della SACBO, ciò sarebbe riconducibile non già all’applicazione dell’atto controverso, bensì all’applicazione della convenzione tra queste conclusa. La SACBO chiede di annullare l’ordinanza del Tribunale, rilevando in particolare: • la violazione dell'articolo 263, quarto comma, del Trattato su funzionamento dell’UE (TFUE), in quanto il Tribunale non avrebbe tenuto conto del fatto che la SACBO è co-destinataria formale dell'atto controverso e destinataria materiale dello stesso, in quanto co-finanziatrice, responsabile dell’intero investimento e soggetto attuatore dello stesso, che subisce perciò tutti gli effetti della decisione impugnata, sia per mancato recupero degli investimenti operati, sia in rapporto alle somme da restituire; • la violazione degli articoli 107 e 108 TFUE, avendo il Tribunale omesso di considerare che la ripetizione da parte di ENAC del cofinanziamento è atto dovuto in forza del diritto UE, costituendo la mancata restituzione un illegittimo aiuto di Stato; • il vizio dell’ordinanza al punto in cui non ha considerato che il provvedimento stabilisce già in modo chiaro e definitivo l’entità del finanziamento e le somme da restituire, sicché costituisce di per sé l’obbligo di restituzione, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale da parte dell’ENAC. Nella sentenza, la Corte di giustizia rileva quanto segue: • il Tribunale ha enunciato, senza incorrere in alcun errore di diritto, le due condizioni cumulative che un soggetto deve soddisfare per essere considerato direttamente interessato da un atto oggetto di un ricorso, ai sensi dell’articolo 263, quarto comma, TFUE, vale a dire, in primo luogo, che tale atto produca effetti direttamente sulla situazione giuridica di detto soggetto e, in secondo luogo, che esso non lasci alcun potere discrezionale ai destinatari dello stesso incaricati della sua applicazione, la quale deve avere carattere meramente automatico e derivare dalla sola normativa dell’Unione, senza intervento di altre norme intermedie; • nel caso di specie, il Tribunale ha legittimamente considerato che, nel caso in cui l’ENAC richiedesse dalla SACBO la restituzione di una somma equivalente a quanto percepito in eccesso, tale restituzione dipenderebbe dalla convenzione conclusa tra dette due parti, ma non costituirebbe un effetto giuridico immediato dell’atto controverso; • con riferimento alla condizione che l'atto non lasci alcun potere discrezionale ai destinatari del medesimo incaricati della sua applicazione, la Corte osserva che, nell’ipotesi in cui l’ENAC decidesse di non richiedere alla SACBO la restituzione della somma di cui trattasi, il fatto che tale somma possa essere qualificata quale aiuto di Stato non significa che tale aiuto sia necessariamente incompatibile con il mercato interno e, dunque, non consente, di per sé solo, di escludere la possibilità di una rinuncia dell’ENAC a richiederne il rimborso. Ciò vale a maggior ragione in quanto la somma di cui trattasi è inferiore al limite massimo di 200 mila euro stabilito dai regolamenti (CE) n. 1998/2006 e (UE) n. 1407/2013, relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del TFUE europea agli aiuti «de minimis». In secondo luogo, la ripetizione di tale somma non sarebbe inevitabile, posto che nella propria giurisprudenza la Corte ha ammesso che i giudici nazionali possano non ingiungere la ripetizione di un aiuto di Stato versato illegittimamente allorché tale ripetizione è inopportuna a motivo di circostanze eccezionali. Sulla base di queste motivazioni, la Corte di giustizia dichiara che: • l’impugnazione è respinta; • la Società per l’aeroporto civile di Bergamo-Orio al Serio (SACBO) SpA è condannata alle spese.
  • Causa T-44/11

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    Assegnata in data: 29/09/2015

    Commissione: XIII COMMISSIONE (AGRICOLTURA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con atto depositato nella cancelleria del Tribunale il 17 gennaio 2011, l’Italia ha proposto un ricorso avente ad oggetto l’annullamento parziale della decisione 2010/668/UE della Commissione europea, nella parte in cui esclude dal finanziamento dell’Unione europea talune spese effettuate dall’Italia nell’ambito del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG), sezione Garanzia, del Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). In particolare, l’Italia chiede al Tribunale di annullare la decisione impugnata nella parte in cui le ha inflitto: • per gli esercizi finanziari 2004, 2005 e 2006, una rettifica finanziaria puntuale e forfettaria (2%), per un totale di 1,6 milioni di euro, relativa a diverse carenze nel settore dell’aiuto per il latte scremato in polvere; • una rettifica finanziaria specifica per l’esercizio finanziario 2009, per un totale di 14,2 milioni di euro, relativa all’organizzazione del sistema di recupero degli organismi pagatori Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) e Servizio autonomo interventi nel settore agricolo (SAISA). In via preliminare, il Tribunale rileva che il FEAOG finanzia solo gli interventi nei mercati agricoli eseguiti in conformità con le norme dell’Unione (regolamento (CE) 729/70, art. 5, par. 2, lett. c), e regolamento (CE) 1258/99, art. 7, par. 4). Spetta alla Commissione europea l’onere di provare l’esistenza di eventuali violazioni, ma non è tenuta a dimostrare esaurientemente l’insufficienza dei controlli effettuati dalle amministrazioni nazionali o l’inesattezza dei dati trasmessi; al contrario, sono gli Stati membri interessati che devono dimostrare la sussistenza dei presupposti per ottenere il finanziamento negato dalla Commissione. A sostegno del proprio ricorso, l’Italia adduce, tra gli altri, i seguenti argomenti: • un difetto di motivazione della decisione impugnata: a tale riguardo, il Tribunale osserva che la motivazione richiesta dall’articolo 296 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) deve fare apparire in forma chiara e non equivoca l’iter logico seguito dall’Istituzione da cui esso promana, in modo da consentire agli interessati di conoscere le ragioni del provvedimento adottato e al giudice dell’Unione di esercitare il proprio controllo. Nel caso in questione, la decisione è stata adottata sulla base di una relazione di sintesi nonché di una corrispondenza tra la Commissione e lo Stato membro interessato, che pertanto è stato strettamente associato al processo di elaborazione della decisione stessa. Inoltre, sulla base di una giurisprudenza consolidata, spettava all’Italia fornire la prova più circostanziata ed esauriente possibile della veridicità dei propri dati o controlli nonché, eventualmente, dell’inesattezza delle affermazioni della Commissione per quanto concerne le carenze del suo sistema di recupero degli aiuti indebitamente percepiti dai beneficiari; • una violazione del principio di proporzionalità: tale principio, sancito all’articolo 5, paragrafo 4, TUE, è parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione ed esige che gli strumenti istituiti da una disposizione del diritto dell’Unione siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti e non vadano oltre quanto è necessario per raggiungerli. Nel caso di specie, con riferimento al primo punto (carenze nel settore dell’aiuto per il latte scremato in polvere), il Tribunale osserva che le carenze constatate riguardavano controlli essenziali relativi alla qualità del latte in polvere, il che autorizzava l’applicazione di una rettifica forfettaria del 5%: tuttavia, i servizi della Commissione hanno fissato un tasso forfettario inferiore (2%), che pertanto non può essere considerato sproporzionato. Con riguardo al secondo punto (sistema di recupero dei organismi pagatori), il Tribunale sottolinea che la Commissione può giungere fino a rifiutare la presa in carico da parte del FEAOG di tutte le spese sostenute se constata che non sussistono meccanismi di controllo sufficienti; • un’applicazione retroattiva del regolamento (CE) 1290/2005, relativo al finanziamento della politica agricola comune: ad avviso dell’Italia, poiché' il regolamento si applica a decorrere dall’esercizio finanziario 2007, non è applicabile retroattivamente per sanzionare situazioni anteriori. Ad avviso del Tribunale, invece, la decisione impugnata non si basa sulle disposizioni del regolamento citato, bensì su quelle del regolamento (CE) 1258/1999, applicabili all’epoca dei fatti; • l’assenza di irregolarità o negligenze: l’Italia sostiene che, nel corso del procedimento amministrativo, è stata dimostrata la diligenza delle autorità italiane nel trattamento delle situazioni oggetto della rettifica in questione, e che le azioni di recupero dei crediti si sono protratte per molti anni per ragioni di carattere esclusivamente processuale, conformemente all’ordinamento giuridico nazionale e alle procedure esistenti. A tale riguardo, il Tribunale rileva che, a norma dei regolamenti citati, gli Stati membri devono adottare le misure necessarie per assicurare l’effettività delle operazioni finanziate dal FEAOG, per prevenire e perseguire le irregolarità e per recuperare le somme perse in seguito a irregolarità o negligenze. La libertà di scegliere le misure e rimedi giurisdizionali non deve tuttavia pregiudicare la rapidità, la buona organizzazione e la completezza dei controlli e delle indagini richieste a tal fine. Pertanto, l’Italia non può giustificare l’inadempimento dell'obbligo di rettificare con celerità le irregolarità commesse facendo valere lungaggini dei procedimenti amministrativi o giudiziari. Peraltro, la gravità delle carenze riscontrate dalla Commissione ha trovato conferma nella circostanze che, per l’AGEA, soltanto il 2% dei crediti iscritti risultanti da irregolarità è stato effettivamente recuperato nel periodo dal 2002 al 2006. Per quanto riguarda il SAISA, nello stesso periodo, la percentuale di recupero è stata del 7%; • una violazione del principio ne bis in idem: l’Italia rileva che la rettifica finanziaria imposta dalla Commissione violerebbe il principio del ne bis in idem in quanto essa sarebbe già stata sanzionata una volta, con la rettifica finanziaria forfettaria pari al 50% dei crediti non riscossi imposta dalla decisione 2007/327/CE. A tale riguardo, il Tribunale osserva che, anche ammettendo una parziale coincidenza tra i casi di irregolarità oggetto della decisione 2007/327 e i casi di irregolarità oggetto della decisione impugnata, la prima è fondata sull’articolo 32, paragrafo 5, dal regolamento n. 1290/2005, mentre la seconda è fondata sull’articolo 8, paragrafo 2, del regolamento n. 1258/1999, nonché sull’articolo 32, paragrafo 8, del regolamento n. 1290/2005. Ne consegue che le due rettifiche non sono fondate sulla stessa base giuridica; • estinzione del potere sanzionatorio della Commissione e superamento del termine ragionevole: secondo l’Italia, in base all’art. 3 del regolamento (CE, Euratom) 2988/95, relativo alla tutela degli interessi finanziari della Comunità, le sanzioni amministrative destinate a tutelare il bilancio dell’Unione avrebbero un termine di prescrizione di quattro anni; inoltre, le rettifiche finanziarie sarebbero illegittime a causa del superamento del termine ragionevole per la conclusioni delle indagini. Sotto questi profili, il Tribunale rileva, in primo luogo, che il regolamento citato non è applicabile alla fattispecie in questione, dato che esso riguarda le violazioni di una disposizione del diritto dell’Unione derivanti da un atto o da un’omissione di un operatore economico e non di uno Stato membro. In secondo luogo, i regolamenti (CE) 1258/1999 e 1290/2005 non prevedono un termine specifico che la Commissione deve rispettare per adottare una decisione che impone una rettifica finanziaria; tuttavia, in forza di un principio generale del diritto dell’Unione, la Commissione è tenuta ad osservare un termine ragionevole nell’ambito dei suoi procedimenti amministrativi, la cui entità va valutata alla luce delle circostanze proprie di ciascun caso e, in particolare, del contesto in cui esso si inserisce, delle varie fasi procedurali espletate, della complessità del caso nonché degli interessi delle diverse parti interessate. Nel caso in questione, i procedimenti amministrativi si sono protratti per un periodo di circa sette anni (dal 2003 al 2010), nel corso dei quali, tuttavia, le parti hanno tentato di giungere ad un accordo per mezzo di riunioni bilaterali e facendo ricorso all’organo di conciliazione. Peraltro, spettava alle autorità italiane garantire il regolare svolgimento del processo di liquidazione dei conti, e dunque il ritardo della Commissione nel trattamento del caso deve essere imputato, in una certa misura, all’Italia. Inoltre, il superamento del termine ragionevole può costituire un motivo di annullamento di una decisione della Commissione solo qualora sia stato dimostrato che ha pregiudicato le garanzie richieste dallo Stato membro per esprimere il proprio punto di vista o qualora l’eccessivo periodo di tempo decorso possa avere influenza sul contenuto stesso della decisione adottata in esito al procedimento amministrativo; entrambe le circostanze, secondo il Tribunale non ricorrono nella fattispecie in oggetto; • una violazione del principio della tutela del legittimo affidamento: tale principio costituisce uno dei principi fondamentali del diritto dell’Unione, e si estende a chiunque si trovi in una situazione dalla quale risulti che l’amministrazione dell’Unione, avendogli fornito assicurazioni precise, ha suscitato in lui aspettative fondate. A tale proposito, il Tribunale constata che, nel suo ricorso, l’Italia non determina minimamente i fatti che avrebbero potuto far sorgere in essa un legittimo affidamento e che dal fascicolo non emerge che la Commissione abbia, in qualche maniera, agito in modo tale da far sorgere siffatto legittimo affidamento. Sulla base di questa argomentazioni il Tribunale respinge il ricorso e condanna l’Italia al pagamento delle proprie spese, nonché di quelle sostenute dalla Commissione europea.
  • C-593/13

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    Assegnata in data: 21/07/2015

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione degli articoli 49, 51 e 56 TFUE e degli articoli 14 e 16 della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno. Il giudice del rinvio chiede: se i principi del Trattato sulla libertà di stabilimento (articolo 49 TFUE) e sulla libera prestazione di servizi (articolo 56 TFUE), nonché quelli di cui alla direttiva 2006/123, ostino all'adozione e all' applicazione di una normativa nazionale che sancisce che per le Società organismi di attestazione (SOA), costituite nella forma delle società per azioni, "la sede legale deve essere nel territorio della Repubblica italiana"; se la deroga di cui all'articolo 51 TFUE, relativa alle attività che partecipino, sia pure occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri, debba essere interpretata nel senso di ricomprendere un'attività come quella di attestazione svolta da organismi di diritto privato, i quali per un verso, devono essere costituiti nella forma delle società per azioni ed operano in un mercato concorrenziale, e, per altro verso, partecipano dell'esercizio di pubblici poteri e, per questo, sono sottoposti ad autorizzazione e a stringenti controlli da parte dell'Autorità di vigilanza.

    Le questioni pregiudiziali sono state sollevate nell'ambito di una controversia instaurata a seguito di ricorso al TAR Lazio presentato dalle società Rina Services SpA, Rina SpA, SOA Rina Organismo di Attestazione SpA, volto a contestare la legittimità dell'articolo 64, paragrafo 1, del decreto del Presidente della Repubblica 207/2010, recante esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 163/2006, là dove prevede che la sede legale delle SOA deve essere ubicata nel territorio della Repubblica italiana. Il TAR Lazio ha accolto il ricorso giudicando tale requisito contrario agli articoli 14 e 16 della direttiva 2006/123. La Presidenza del Consiglio dei Ministri e gli altri resistenti hanno quindi proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato, facendo valere che l'attività svolta dalle SOA partecipa all'esercizio di poteri pubblici ai sensi dell'articolo 51 TFUE e che, di conseguenza, è sottratta all'ambito di applicazione sia della direttiva servizi, che degli articoli 49 e 56 TFUE.

    Con riferimento alla seconda questione, la Corte richiama la sua precedente decisione SOA Nazionale Costruttori (C-327/12), nella quale aveva concluso che la verifica ad opera delle SOA non può essere considerata un'attività riconducibile all'autonomia decisionale propria dell'esercizio di prerogative dei pubblici poteri, dato che siffatta verifica è definita in tutti i suoi aspetti dal quadro normativo nazionale ed è eseguita sotto una vigilanza statale diretta. Nel caso in discussione, non avendo il giudice del rinvio menzionato nella domanda pregiudiziale alcuna modifica nella natura delle attività esercitate dalle SOA, la Corte conferma che l'articolo 51, primo comma, TFUE deve essere interpretato nel senso che l'eccezione al diritto di stabilimento prevista da tale disposizione non si applica alle attività di attestazione esercitate dalle società aventi la qualità di organismi di attestazione.

    Riguardo all'altra questione sollevata, la Corte osserva che la disciplina italiana, nella parte in cui obbliga le SOA ad avere la loro sede legale nel territorio nazionale, limita la libertà di queste ultime di scegliere tra essere stabilite a titolo principale o a titolo secondario. La Corte respinge inoltre l'argomento addotto dalla Repubblica italiana secondo cui l'obbligatorietà della sede legale delle SOA nel territorio nazionale sarebbe giustificata dalla necessità del controllo da parte delle amministrazione pubbliche sulle attività delle predette società, posto che la formulazione dell'articolo 14 non contiene alcun elemento atto ad indicare che gli Stati membri dispongano della facoltà di giustificare il mantenimento dei requisiti vietati nelle loro normative nazionali.

    La Corte dichiara quindi che l'articolo 51, primo comma, TFUE deve essere interpretato nel senso che l'eccezione al diritto di stabilimento prevista da tale disposizione non si applica alle attività di attestazione esercitate dalle società aventi la qualità di organismi di attestazione e che l'articolo 14 della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro in forza della quale è imposto alle SOA di avere la loro sede legale nel proprio territorio.

  • C-534/13

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    Assegnata in data: 15/05/2015

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dei principi del diritto dell'Unione europea in materia ambientale, in particolare di principi del "chi inquina paga", di precauzione, dell'azione preventiva e della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, come previsti dall'articolo 191, paragrafo 2, del TFUE, ai considerando 13 e 24 e agli articoli 1 e 8, paragrafo 3, della direttiva 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

    L'articolo 191 del TFUE afferma che la finalità della politica ambientale dell'Unione è un elevato livello di tutela e che tale politica è fondata sui principi di precauzione e di azione preventiva, sul principio di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni ambientale nonché sul principio "chi inquina paga". La direttiva 2004/35/CE dispone, tra l'altro, che: sulla base del principio "chi inquina paga", l'operatore la cui attività ha causato un danno o la minaccia di danno ambientale è considerato finanziariamente responsabile; al fine dell'individuazione della responsabilità, il danno deve essere concreto e quantificabile e deve sussistere un nesso causale tra il danno e gli inquinatori individuati; nel caso intervenga l'amministrazione competente, il costo dell'intervento è posto a carico dell'operatore; l'operatore non è tenuto a sostenere i costi delle misure quando il danno deriva da eventi indipendenti dalla sua volontà; la direttiva non si applica al danno cagionato prima dello scadere del termine della sua attuazione. Infine, la direttiva prevede la possibilità per gli Stati membri di adottare disposizioni più severe (compresa l'individuazione di attività e soggetti responsabili ulteriori da assoggettare agli obblighi di prevenzione e riparazione del danno ambientale) e si applica unicamente al danno causato da un evento verificatosi dopo il 30 aprile 2007, se derivante da attività poste in essere successivamente a tale data o se derivante da attività svolte anteriormente a tale data ma non terminate prima di essa.

    Nel diritto italiano, la materia è disciplinata dal decreto legislativo n. 152/2006 (codice ambientale).

    In particolare, nel testo in vigore alla data dei fatti del procedimento principale, il codice disciplina gli oneri ricadenti sul soggetto responsabile dell'inquinamento (art. 242), prevede la diffida del responsabile da parte della Provincia per l'adozione delle misure necessarie alla riduzione o al recupero del danno ambientale e l'intervento della Provincia stessa in caso di inerzia del responsabile (art. 244 e 250) e dispone la qualifica degli interventi effettuati dall'amministrazione come oneri reali sui siti contaminati e l'obbligo del proprietario non responsabile dell'inquinamento di rimborsare l'amministrazione soltanto nei limiti del valore di mercato del sito, determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi (art. 253).

    Le tre controversie principali riguardano specifiche misure di messa in sicurezza relative a terreni contaminati da diverse sostanze chimiche situati nella Provincia di Massa Carrara.

    Con provvedimenti amministrativi del 18 maggio 2007, del 16 settembre e del 7 novembre 2011, le autorità italiane hanno ingiunto l'esecuzione di misure specifiche alle società proprietarie dei siti (Twins Automation, Ivan e Fipa Group), in relazione ad eventi prodottosi prima dell'acquisto dei terreni. In particolare, in conseguenza della produzione di pesticidi e diserbanti, tali terreni erano stati contaminati. Le decisioni sono state indirizzate alle tre imprese in qualità di custodi dell'area. Il Tribunale amministrativo regionale della Toscana, adito dalle tre società, ha annullato i provvedimenti amministrativi in quanto le tre società non sono autrici della contaminazione contestata. Il Consiglio di Stato, appellato dalle autorità ministeriali, ha rilevato che la giurisprudenza italiana non è concorde sull'interpretazione delle disposizioni del codice ambientale, con particolare riferimento agli obblighi del proprietario del sito contaminato. Infatti, una parte ritiene che il proprietario sia tenuto ad adottare le misure necessarie anche qualora non sia l'autore della contaminazione, mentre un'altra parte esclude qualsiasi responsabilità del proprietario non responsabile della contaminazione e nega, di conseguenza, che l'amministrazione possa esigere da tale soggetto l'esecuzione delle misure di messa in sicurezza del sito. Il Consiglio di Stato ha quindi sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte la questione della compatibilità con i principi dell'UE in materia ambientale di una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del codice dell'ambiente, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all'autorità amministrativa di imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento, prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica.

    La Corte di giustizia preliminarmente chiarisce che il principio "chi inquina paga", rivolto all'azione dell'Unione, non può essere invocato come tale dalle autorità competenti in materia ambientale per imporre misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale; esso tuttavia può trovare applicazione nei limiti in cui è attuato dalla direttiva 2004/35/CE, ovvero per garantire la realizzazione degli obiettivi e dei principi della politica ambientale europea.

    Con riferimento all'applicabilità della direttiva ratione temporis, la Corte precisa che spetta comunque al giudice del rinvio verificare, sulla base della valutazione dei fatti, se i danni oggetto delle misure imposte dalle autorità nazionali rientrino o meno nell'ambito di applicazione della direttiva 2004/35/CE.

    A seguito di tale accertamento, risulta necessario individuare l'operatore responsabile del danno ambientale, sulla base di quanto stabilito dalla direttiva medesima. Quest'ultima prevede in primo luogo un regime di responsabilità ambientale oggettiva per l'operatore che eserciti una delle attività indicate dall'allegato III (articolo 3, paragrafo 1, lett. a). Nel caso di specie tuttavia nessuna delle parti svolge attualmente una di tali attività, per cui occorre esaminare entro quali limiti possa trovare applicazione il regime di responsabilità ambientale soggettiva previsto dall'articolo 3, paragrafo 1, lettera b), il quale si riferisce ai danni provocati da attività diverse da quelle elencate in caso di comportamento doloso o colposo dell'operatore. Anche con riferimento a tale regime di responsabilità la Corte chiarisce la necessità di accertare il nesso causale tra l'azione di uno o più operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile.

    Poiché dagli elementi forniti alla Corte e dalla formulazione stessa della questione pregiudiziale emerge che le appellate nel procedimento principale non hanno contribuito alla formazione dei danni ambientali di cui trattasi, circostanza che spetta al giudice del rinvio confermare, non è possibile applicare al caso in specie la direttiva 2004/35/CE. Risulta pertanto applicabile la normativa nazionale che non consente di imporre misure di riparazione al proprietario non responsabile della contaminazione, ma solo il rimborso dei costi degli interventi intrapresi dall'autorità amministrativa, nei limiti del valore del terreno, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi.

    Sulla base di tali elementi, pertanto, la Corte dichiara che la direttiva 2004/35/CE non contrasta con una normativa nazionale che, nel caso in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di riparazione al proprietario del sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto solo al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione degli interventi.

  • C-66/13

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 3, paragrafo 2, TFUE e 216 TFUE, in combinato disposto con l'articolo 5 della direttiva 2001/77/UE, sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, e con l'accordo tra la Comunità europea e la Confederazione svizzera del 22 luglio 1972 (accordo di libero scambio).

    L'accordo di libero scambio ha lo scopo di promuovere lo sviluppo delle relazioni economiche tra la Comunità economica europea e la Svizzera, assicurando condizioni eque di concorrenza ed eliminando gli ostacoli agli scambi.

    La direttiva 2001/77, abrogata dalla direttiva 2009/28/CE, mira a promuovere le fonti energetiche rinnovabili e, a tale scopo, prevede la possibilità per gli Stati membri di introdurre regimi di sostegno (certificati verdi, aiuti agli investimenti, esenzioni o sgravi fiscali, restituzioni di imposta o regimi di sostegno diretto dei prezzi) in vista di una relazione da parte della Commissione sui risultati conseguiti, prodromica alla eventuale presentazione di una proposta di quadro comunitario in materia di regimi di sostegno dell'elettricità prodotta da fonti energetiche rinnovabili. L'articolo 5 della direttiva prevede che, entro il 27 ottobre 2003, gli Stati membri provvedano a garantire l'origine dell'energia elettrica da fonti rinnovabili immessa sul mercato interno, mediante il rilascio su richiesta di garanzie di origine da parte di organismi incaricati. Le garanzie di origine sono reciprocamente riconosciute dagli Stati membri.

    Per quanto riguarda l'ordinamento italiano, l'articolo 11 del decreto legislativo n. 79/1999 prevede l'obbligo per gli operatori che abbiano prodotto o importato energia ad immettere nel sistema elettrico nazionale, nell'anno successivo, una quota di elettricità prodotta da fonti rinnovabili (elettricità verde) o, in alternativa, acquistando l'equivalente quota da altri produttori o acquistando certificati verdi dal gestore della rete (GSE). Il decreto ministeriale di attuazione dell'11 novembre 1999 dispone che gli impianti di produzione dell'energia verde importata siano ubicati in Paesi esteri che adottino analoghi strumenti di promozione delle fonti rinnovabili. Nel caso si tratti di Paesi non appartenenti all'Unione europea, la possibilità di importazione è subordinata alla stipula di una convenzione tra il gestore della rete di trasmissione nazionale e l'analoga autorità locale. L'articolo 20 del successivo decreto legislativo n. 387/2003, di attuazione della direttiva n. 2001/77/CE, prevede che i soggetti che importano energia verde da Paesi appartenenti alla UE possono richiedere l'esenzione dall'obbligo di acquistare certificati verdi, allegando la copia conforme della garanzia di origine rilasciata da tali Paesi. Nel caso si tratti di Paesi non appartenenti alla UE, tale esenzione è subordinata alla stipula di un accordo tra l'Italia e lo Stato terzo. Tale accordo è stato stipulato tra l'Italia e la Svizzera il 6 marzo 2006 e prevede il reciproco riconoscimento delle garanzie di origine a partire dal 2006. Ai sensi del medesimo decreto legislativo (articolo 4), spetta al GSE verificare il rispetto degli obblighi e comunicare le inadempienze all'Autorità per l'energia elettrica e il gas (di seguito AEEG), competente ad infliggere le sanzioni.

    Nel corso del 2005, la Green Network SpA ha importato in Italia una quota di energia elettrica proveniente dalla Svizzera, certificata dall'autorità competente come prodotta da fonti rinnovabili. Sulla base dell'articolo 20 del decreto legislativo n. 387/2003, per il 2006, la Green Network ha chiesto al GSE un'esenzione dall'obbligo di acquistare certificati verdi. Il GSE ha respinto la richiesta in quanto nel 2005 non era stato ancora stipulato l'accordo tra l'Italia e la Svizzera. Non avendo la Green Network adempiuto all'obbligo disposto dal GSE di acquistare certificati verdi, l'AEEG le ha inflitto il pagamento di una sanzione pecuniaria. A seguito di reiezione del suo ricorso da parte del TAR della Lombardia, la Green Network ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato, sostenendo che l'articolo 20 del decreto legislativo n. 387/2003 (che subordina la richiesta di esenzione dall'acquisto dei certificati verdi alla stipula di un accordo tra l'Italia ed uno Stato terzo) è incompatibile con gli articoli 3, paragrafo 2, TFUE e 216 TFUE, in quanto l'Unione dispone di una competenza esterna esclusiva per la conclusione di accordi con Stati terzi. Pertanto, ad avviso della Green Network, dovrebbe trovare nuovamente applicazione il DM del 1999, che subordina l'importazione di energia verde da Paesi terzi ad un accordo stipulato tra gli operatori di rete. Tale accordo tra operatori di rete relativo al mutuo riconoscimento dei certificati sarebbe intervenuto in forma tacita tra il Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (a cui è subentrato il GSE) e l'analogo operatore svizzero.

    A seguito di rinvio pregiudiziale, la Corte ha dichiarato che la Comunità dispone di una competenza esterna esclusiva che non è compatibile con una norma nazionale, come l'articolo 20 del decreto legislativo n. 387/2003, che subordina alla conclusione di un accordo tra lo Stato membro e uno Stato terzo la concessione di un'esenzione dall'obbligo di acquisto di certificati verdi.

    Ad avviso della Corte, un accordo di tale genere (che assicura le garanzie di origine verde di elettricità importata in uno Stato membro), ampliando il campo di applicazione del meccanismo di certificazione previsto dalla direttiva 2001/77, è tale da modificare la portata delle norme comuni. In secondo luogo, considerando che la direttiva 2001/77 ha lo scopo di promuovere la produzione di energia verde negli Stati membri, è innegabile che un accordo come quello tra Italia e Svizzera, che consente esenzioni dall'acquisto di certificati verdi nel caso di importazione di energia verde da un Paese terzo, potrebbe interferire con gli obiettivi della direttiva e con l'obbligo degli Stati membri di aumentare la loro produzione di energia verde. Pertanto, la conclusione di tali accordi, in mancanza di un'autorizzazione da parte della direttiva 2001/77, può pregiudicare il buon funzionamento del sistema istituito dalla direttiva e il raggiungimento dei suoi obiettivi.

    In secondo luogo, la Corte ha dichiarato che è contraria al diritto dell'Unione anche l'applicazione di una norma nazionale, quale il decreto ministeriale di attuazione dell'11 novembre 1999, che mira sostanzialmente, al pari della sopra richiamata disposizione del decreto legislativo n. 387/2003, ad attuare meccanismi transfrontalieri destinati ad attestare che l'energia elettrica importata da uno Stato terzo e immessa nel mercato italiano è elettricità verde. Il principio di leale cooperazione osta infatti a che, dopo che la contrarietà al diritto comunitario di una disposizione quale la prima disposizione nazionale controversa sia stata constatata e quest'ultima sia stata pertanto disapplicata da un giudice nazionale, sia applicata in sostituzione una norma interna che, al pari della seconda disposizione nazionale controversa, è sostanzialmente analoga a quella che è stata in tal modo disapplicata.

  • C-568/13

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: XII COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione degli articoli 1, lettera c) e 37 della direttiva 92/50/CEE, relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi e degli articoli 1, paragrafo 8, primo comma, e 55 della direttiva 2004/18/CE, relativa alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (abrogata, a decorrere dal 18 aprile 2016, dalla direttiva 2014/24/UE).

    La direttiva 92/50 include, all'articolo 1, lettera c), gli enti pubblici che forniscono servizi nella nozione di prestatori di servizi e, all'articolo 37, definisce la procedura per la verifica delle offerte anormalmente basse. Tali disposizioni sono state riprodotte nella direttiva 2004/18 (articoli 1 e 55), che ha rifuso in unico testo le direttive in materia di appalti pubblici di servizi, di forniture e di lavori. Tra gli elementi costitutivi dell'offerta da considerare nel corso della procedura di verifica delle offerte anormalmente basse è aggiunta l'eventualità che l'offerente ottenga un aiuto di Stato. La sussistenza di tale eventualità può determinare il respingimento dell'offerta solo se l'offerente non è in grado di dimostrare che l'aiuto era stato concesso legalmente.
    Per quanto riguarda l'ordinamento italiano, sulla base del decreto legislativo n. 502/1992, le aziende sanitarie sono enti pubblici economici che assolvono compiti di natura essenzialmente tecnica con la veste giuridica di aziende pubbliche dotate di autonomia imprenditoriale. Le direttive 92/50 e 2004/18 sono state trasposte nell'ordinamento italiano, rispettivamente, dal decreto legislativo n. 157/1995 e dal decreto legislativo n. 163/2006.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata proposta dal Consiglio di Stato nell'ambito di una controversia sollevata dalla Data Medical Service in relazione all'aggiudicazione da parte della Regione Lombardia dell'appalto del servizio triennale di elaborazione dati per la valutazione esterna della qualità dei farmaci. L'appalto è stato aggiudicato, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, all'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi-Firenze, che ha proposto i propri servizi ad un prezzo del 59 per cento inferiore a quello del secondo classificato.

    Il Consiglio di Stato, adito in appello dall'Azienda contro la sentenza del TAR Lombardia di accoglimento del ricorso della Data Medical Service, ha sospeso il procedimento per sottoporre alla Corte europea due questioni pregiudiziali, vertenti rispettivamente: sulla compatibilità con l'art. 1 della direttiva 92/50 di una normativa interna interpretata nel senso di escludere un'azienda ospedaliera avente natura di ente pubblico economico dalla partecipazione alle gare; sulla compatibilità con il diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici (in particolare con i principi generali di libera concorrenza, non discriminazione, proporzionalità) di una normativa nazionale che permetta ad un soggetto che beneficia stabilmente di risorse pubbliche e che è affidatario in via diretta del servizio pubblico sanitario, di lucrare da tale situazione un vantaggio competitivo determinante nel confronto concorrenziale con altri operatori economici senza che siano previste al contempo misure correttive volte ad evitare un simile effetto distorsivo della concorrenza.

    Rispondendo alla prima questione, la Corte ha dichiarato che l'articolo 1, lettera c), della direttiva 92/50 non consente ad una normativa nazionale che esclude la partecipazione di un'azienda ospedaliera pubblica dalle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, a causa della sua natura di ente pubblico economico.

    La possibilità di partecipazione di tali soggetti risulta chiaramente dal tenore letterale della disposizione ed è stata più volte ribadita dalla Corte; inoltre, la massima apertura possibile alla concorrenza è uno degli obiettivi della normativa dell'Unione in materia di appalti pubblici: un'interpretazione restrittiva della nozione di operatore economico da ammettere alle gare di appalto avrebbe come conseguenza di sottrarre alle norme dell'Unione in materia di appalti i contratti conclusi dalle amministrazioni aggiudicatrici e organismi senza scopo di lucro, aggiudicati informalmente. In secondo luogo, la Corte, pur riconoscendo l'ampia discrezionalità degli Stati membri di disciplinare le attività dei soggetti, quali le università e gli istituti di ricerca, non aventi scopo di lucro, ma volti principalmente alla didattica e alla ricerca, ha dichiarato che gli Stati membri non possono vietare a tali soggetti, se autorizzati a offrire taluni servizi contro corrispettivo sul mercato, di partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici aventi ad oggetto la prestazione degli stessi servizi. Un tale divieto, infatti, contrasterebbe con l'articolo 1 della direttiva 92/50.

    Rispondendo alla seconda questione, la Corte ha dichiarato che non è contraria alla direttiva 92/50 - né ai principi di libera concorrenza, di non discriminazione e di proporzionalità - una normativa nazionale che consente ad un'azienda ospedaliera pubblica, partecipante ad una gara di appalto, di presentare un'offerta alla quale non è possibile fare concorrenza, grazie ai finanziamenti pubblici di cui essa beneficia, senza contestualmente prevedere misure correttive per prevenire le eventuali distorsioni della concorrenza che ne derivano. Tuttavia, tale finanziamento può essere preso in considerazione dall'amministrazione aggiudicatrice, che ha la facoltà di respingere l'offerta.

    La Corte, a tale proposito, ha constatato che il legislatore dell'Unione, pur essendo consapevole della diversa natura dei concorrenti che partecipano ad un appalto pubblico, non ha previsto altri meccanismi correttivi oltre a quello della verifica e dell'eventuale rigetto delle offerte anormalmente basse.

    Benché le amministrazioni aggiudicatrici debbano trattare gli operatori economici su un piano di parità e in modo non discriminatorio, la direttiva 92/50 e la giurisprudenza della Corte non consentono di escludere un offerente, a priori e senza esami ulteriori, dalla partecipazione ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per il solo motivo che, grazie a sovvenzioni pubbliche di cui beneficia, esso è in grado di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli dei concorrenti. Ciò nonostante, in talune circostanze particolari, l'amministrazione aggiudicatrice ha la facoltà di prendere in considerazione tali sovvenzioni, in particolare, gli aiuti non conformi al Trattato, al fine, eventualmente, di escludere i soggetti che ne beneficiano. Inoltre, come previsto dalla direttiva 92/50, l'amministrazione aggiudicatrice può respingere un'offerta anormalmente bassa non soltanto nel caso in cui l'offerente beneficia di un aiuto di Stato e, in ogni caso, è tenuta a chiedere al candidato di fornire giustificazioni incardinando un dibattito effettivo in contraddittorio. Infine, ad avviso della Corte, dal momento che la direttiva 92/50 non reca una definizione in merito, spetta agli Stati membri stabilire le modalità di calcolo di una soglia di anomalia, tenendo conto che il carattere anormalmente basso deve essere valutato rispetto alla prestazione.

  • C-551/13

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla Commissione tributaria provinciale di Cagliari, verte sull'interpretazione della direttiva 2008/98/UE,in materia di rifiuti.

    La direttiva 2008/98/CE dispone, all'articolo 15, che gli Stati membri adottino le misure necessarie a garantire che ogni produttore di rifiuti possa provvedere personalmente al loro trattamento oppure li consegni ad un soggetto che effettua le operazioni di smaltimento. Nel diritto italiano, la materia è stata disciplinata dal decreto legislativo n. 152/2006 (in particolare, l'articolo 188) e, successivamente, dal decreto legislativo n. 205/2010, che ha disposto la trasposizione nell'ordinamento italiano della direttiva 2008/98/CE. Questo ha, da un lato, modificato l'articolo 188 del decreto legislativo n. 152/2006, riproducendo il contenuto dell'articolo 15 della direttiva, dall'altro, ha introdotto un sistema di tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) la cui entrata in vigore è stata più volte rinviata nel tempo con successivi provvedimenti legislativi, l'ultimo dei quali, il decreto-legge n. 101/2013 , ha disposto, tra l'altro, che, nei dieci mesi successivi alla data del 1° ottobre 2013, continuino ad applicarsi gli adempimenti e gli obblighi previsti dal testo previgente dell'articolo 188.

    Il procedimento principale riguarda una controversia che oppone la SETAR, proprietaria di un complesso turistico alberghiero nella località di S'Oru e Mari e il comune di Quartu S. Elena, in merito al rifiuto di pagare la tassa comunale per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU).

    In particolare, il 30 novembre 2010, la SETAR ha comunicato al comune di Quartu S. Elena che non avrebbe più corrisposto, a decorrere dal 1° gennaio 2011, la TARSU in quanto, a partire da tale data, si sarebbe avvalsa di un'impresa specializzata, ai sensi dell'articolo 188 del decreto legislativo n. 152/2006 e dell'articolo 15 della direttiva 2008/98/CE. Il comune, ritenendo la SETAR comunque obbligata al pagamento della TARSU, ha inviato una cartella di pagamento, oggetto della controversia nel procedimento principale, che imponeva il pagamento della tassa, calcolata sulla base delle tariffe per il 2011. Nelle more del giudizio dinanzi al TAR, adito dalla SETAR avverso la cartella di pagamento, il comune di Quartu S. Elena ha ridotto l'importo richiesto, mediante l'invio di una seconda cartella di pagamento, anch'essa oggetto di ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Cagliari.

    La Corte di giustizia è stata chiamata in via pregiudiziale a verificare, da un lato, se il diritto dell'Unione europea e la direttiva 2008/98/CE siano contrari ad una normativa nazionale di trasposizione della direttiva che subordini la sua entrata in vigore all'adozione di un atto interno successivo alla scadenza del termine di trasposizione fissato dalla direttiva stessa; dall'altro, se l'articolo 15 della direttiva sia contrario ad una normativa nazionale che non preveda la possibilità per il produttore di rifiuti di provvedere personalmente allo smaltimento, con conseguente esonero dal pagamento della relativa tassa comunale.

    Nel merito, la Corte ha ricordato preliminarmente che gli Stati membri hanno l'obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per il conseguimento del risultato prescritto da una direttiva entro i termini da essa fissati, anche se dispongono di un ampio potere discrezionale quanto alla scelta dei mezzi. Nella fattispecie, l'articolo 40 della direttiva 2008/98/CE ha fissato al 12 dicembre 2010 il termine entro il quale gli Stati membri avrebbero dovuto provvedere alla sua trasposizione. Tale direttiva, peraltro, non reca disposizioni derogatorie relative all'entrata in vigore delle misure previste.

    Di conseguenza, la Corte ha dichiarato che il diritto dell'Unione e la direttiva 2008/98/CE sono contrari ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che trasponga una disposizione di tale direttiva ma entri in vigore subordinatamente all'adozione di un atto interno successivo alla scadenza del termine fissato dalla direttiva stessa.

    Sulla seconda questione, la Corte ha rilevato che l'articolo 15 della direttiva non obbliga gli Stati membri a prevedere la possibilità per un produttore di rifiuti di provvedere personalmente allo smaltimento, con conseguente esonero dal pagamento della relativa tassa comunale. L'articolo 15, infatti, permette allo Stato membro di scegliere tra un ventaglio di opzioni (tra cui anche lo smaltimento personale) le modalità di smaltimento dei rifiuti. Quanto al finanziamento del sistema di gestione dei rifiuti, l'articolo 14 della direttiva obbliga gli Stati membri a prevedere che i costi siano sostenuti dall'insieme dei produttori e dei detentori dei rifiuti, mediante una modalità di loro scelta (tassa, canone o altro) calcolata in modo tale da non eccedere quanto necessario, sulla base del principio di proporzionalità. Spetta al giudice del rinvio verificare se la TARSU non comporti che ad un produttore di rifiuti come la SETAR, che provvede personalmente al loro smaltimento, siano imputati costi manifestamente sproporzionati rispetto alla quantità di rifiuti prodotti e conferiti al sistema di gestione.

    Sulla base di tali considerazioni, pertanto, la Corte ha dichiarato che l'articolo 15 della direttiva non è contraria ad una normativa nazionale che non prevede la possibilità per un produttore di rifiuti di provvedere personalmente al loro smaltimento, con conseguente esonero dal pagamento di una tassa comunale, purché tale normativa sia conforme ai requisiti del principio di proporzionalità.

  • C-546/13

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l'interpretazione delle sottovoci 8471 60 90 e 8518 22 90 della nomenclatura combinata (in prosieguo: la «NC») di cui all'allegato I del regolamento (CEE) n. 2658/87, relativo alla nomenclatura tariffaria e statistica ed alla tariffa doganale comune.

    L'Organizzazione mondiale delle dogane (OMD), ha elaborato il sistema armonizzato di designazione e di codificazione delle merci (in prosieguo: il «SA»), istituito con un'apposita convenzione internazionale, conclusa a Bruxelles il 14 giugno 1983 e approvata, a nome della Comunità economica europea, dalla decisione 87/369/CEE.

    Ai sensi della convenzione SA, ciascuna parte contraente si impegna a far sì che le sue nomenclature tariffarie e statistiche siano conformi al SA, e ad utilizzare tutte le voci e le sottovoci di quest'ultimo, senza aggiunte o modifiche, nonché i relativi codici numerici

    Nel periodo dicembre 2001–ottobre 2003 l'ADL ha importato nell'Unione casse acustiche prodotte dalla Harman Multimedia, società stabilita negli Stati Uniti, e destinate ad essere utilizzate esclusivamente quali unità periferiche di uscita per computer a marchio Apple.

    Ai fini della dichiarazione doganale l'ADL ha classificato le casse acustiche importate nella sottovoce 8471 60 90 della NC, quali periferiche per computer, beneficiando in tal modo dell'esenzione daziaria. Nell'anno 2005 l'Ufficio di Verona dell'Agenzia delle dogane, in esito a un procedimento di revisione dell'accertamento doganale, ha proceduto a contabilizzare a posteriori il dazio dovuto dall'ADL, rilevando che le casse acustiche in questione avrebbero dovuto essere classificate nella sottovoce 8518 22 90 della NC, quali altoparlanti, soggetti all'applicazione di dazi con aliquota del 4,5%. A seguito di domanda di annullamento dei provvedimenti applicativi del dazio nei confronti dell'ADL, con sentenza del 10 luglio 2009 la Commissione tributaria della regione Veneto ha ritenuto che le casse acustiche in questione fossero state correttamente classificate quali periferiche per computer, in quanto dalle istruzioni tecniche delle medesime risultava che erano utilizzabili esclusivamente se collegate con cavo USB ad un computer a marchio Apple, risultando incompatibili sia con strumentazioni audio diverse da personal computer, sia con personal computer con sistemi operativi diversi da MAC OS 9. L'Agenzia delle Dogane ha impugnato tale sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo che i prodotti importati erano descritti come casse acustiche ("speakers multimediali") e presentavano pertanto tutte le caratteristiche per essere classificati quali altoparlanti.

    La Corte di cassazione ha dunque chiesto alla Corte di giustizia dell'UE di chiarire se i prodotti importati dall'ADL si debbano classificare quali unità di uscita di macchine automatiche per l'elaborazione dell'informazione (ovvero dei personal computer) alla sottovoce 8471 60 90 della NC, o quali altoparlanti, alla sottovoce 8518 22 90 della NC.

    Ad avviso della Corte di giustizia, secondo costante giurisprudenza, per garantire la certezza del diritto e facilitare i controlli, il criterio decisivo per la classificazione doganale delle merci va ricercato nelle loro caratteristiche e proprietà oggettive, quali definite nel testo della voce della NC e delle note delle sezioni o dei capitoli.

    Nel caso di specie, la Corte rileva che, a norma della NC, le macchine che, pur lavorando con un computer, esercitano una specifica funzione diversa dall'elaborazione dell'informazione, sono da classificare nella voce corrispondente alla propria specifica funzione.

    Pertanto, i prodotti importati dall'ADL, la cui specifica funzione consiste nel riprodurre il suono mediante la trasformazione di un segnale elettromagnetico in onde sonore, svolgono una funzione diversa dall'elaborazione dell'informazione; la circostanza che un altoparlante debba essere collegato ad un altro apparecchio, come una macchina automatica per l'elaborazione dell'informazione, non osta a che esso sia classificato nella voce corrispondente alla sua specifica funzione (la8518 22 90 della NC), ovvero come altoparlante e come tale soggetto all'applicazione di dazi.

  • C-385/13 P

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia si pronuncia sulla domanda di annullamento, proposta dalla Repubblica italiana, avente ad oggetto la sentenza del Tribunale dell'Unione europea (T-99/09 e T-308/09) con la quale sono stati respinti i ricorsi contro le decisioni della Commissione di dichiarare inammissibili le domande di pagamenti intermedi dell'Italia per il rimborso delle spese effettuate, dopo il 29 giugno 2007, relativamente alla misura 1.7 del programma operativo Campania (PO Campania).

    Nel quadro del sostegno per gli interventi strutturali dell'Unione nelle regioni interessate dall'obiettivo 1 in Italia, la Commissione, nel 2000, ha approvato il programma operativo Campania («PO Campania»), per spese effettuate fra il 5 ottobre 1999 e il 31 dicembre 2008, termine successivamente prorogato al 30 giugno 2009. La misura 1.7 contenuta nel programma concerneva svariate operazioni relative al sistema regionale di gestione e di smaltimento dei rifiuti (realizzazione di impianti di compostaggio, di discariche per lo smaltimento del rifiuto residuale rispetto alla raccolta differenziata, attivazione di Ambiti Territoriali Ottimali e dei relativi piani di gestione e di trattamento dei rifiuti, sostegno ai Comuni associati per la gestione del sistema di raccolta differenziata dei rifiuti urbani, aiuto alle imprese per l'adeguamento degli impianti destinati al recupero di materia derivata dai rifiuti, attività di coordinamento, logistica e supporto alle imprese di raccolta e recupero di rifiuti provenienti da particolari categorie produttive, costituzione di un catasto-osservatorio con funzione di sistema di monitoraggio quali-quantitativo dei rifiuti). Le azioni effettuate in attuazione alla misura 1.7, destinate al miglioramento del sistema di raccolta e di smaltimento dei rifiuti, sono state pari a EUR 93.268.731,59, di cui il 50% –EUR 46.634.365,80 – a carico dei Fondi strutturali (FESR).
    In materia di gestione e smaltimento dei rifiuti in Campania, la Commissione aveva avviato nel 2007 una procedura d'infrazione nei confronti dell'Italia (n. 2007/2195), addebitandole di non aver garantito che i rifiuti fossero smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e senza recare pregiudizio all'ambiente e quindi di non aver creato una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento, in violazione della direttiva sui rifiuti (2006/12/CE). Nel 2010, la Corte di giustizia aveva accolto il ricorso presentato dalla Commissione ex articolo 226 CE, constatando l'inadempimento dell'Italia (C-297/08).
    Con lettera del 31 marzo 2008, la Commissione ha informato le autorità italiane che, essendo in corso una specifica procedura di infrazione in materia, non avrebbe provvisoriamente dato luogo ai pagamenti intermedi relativi ai rimborsi delle spese relative alla misura 1.7 del PO Campania sulla base dell'articolo 32, paragrafo 3, primo comma, lettera f), del regolamento n. 1260/99. Tale ultima disposizione stabilisce che i pagamenti del FESR sono subordinati, tra l'altro, all'assenza di procedure di infrazione in corso. Nella successiva corrispondenza,la Commissione ha chiarito che la data dalla quale avrebbe considerato inammissibili le spese relative alla misura 1.7 sarebbe stata il 29 giugno 2007, data di notifica all'Italia della decisione di avviare la procedura d'infrazione. La Commissione, con successive lettere del 2 e del 6 febbraio e del 20 maggio 2009, ha quindi dichiarato l'inammissibilità di alcune domande di pagamento intermedio presentate dalle autorità italiane. In particolare, la Commissione ha dichiarato inammissibile il rimborso di 12.700.931,62 euro per spese effettuate dopo il 17 maggio 2006 (successivamente, tale importo è stato rettificato in considerazione del ricalcolo del periodo di inammissibilità a decorrere dal 29 giugno 2007) e il rimborso di 18.544.968,76 euro.
    Con due successivi ricorsi, l'Italia ha chiesto al Tribunale di annullare le suddette decisioni della Commissione, contestando in particolare la presunta violazione del sopra richiamato articolo 32, par. 3, primo comma, lett. f), del regolamento 1260/1999.
    Il Tribunale ha respinto i ricorsi dell'Italia ritenendo che la Commissione, per giustificare la dichiarazione di inammissibilità di pagamenti intermedi in relazione all'esistenza di una procedura d'infrazione in corso, abbia dimostrato che l'oggetto di tale procedura presenta un collegamento sufficientemente diretto con la «misura» cui si riferiscono le «operazioni» di cui alle domande di pagamento in questione. Infatti, da un lato, risulta chiaramente che la procedura di infrazione riguardava l'intero sistema di gestione e smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, inclusi quindi il recupero o raccolta e l'inefficacia della raccolta differenziata; dall'altro, gli interventi facenti parte della misura 1.7 si riferivano anche alla creazione di un sistema di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e alla realizzazione di discariche per lo smaltimento dei rifiuti, come fase finale della raccolta differenziata medesima.

    La Corte richiama gli argomenti del Tribunale, che sulla base del dettato dell'articolo 32, paragrafo 3, primo comma, lettera f), del regolamento n. 1260/1999, ha correttamente attribuito alla nozione di misura (nel caso in specie, la misura 1.7 del PO Campania) una portata generale e l'ha posta in relazione con l'oggetto della procedura di infrazione 2007/2195, constatando che la Commissione ha dimostrato la sussistenza tra i due termini di un nesso sufficientemente diretto. La Corte giudica irricevibili i motivi addotti dall'Italia, in particolare osservando, da un lato, che essi non contengono alcun approfondimento specifico che consenta di individuare un errore di diritto commesso dal Tribunale e, dall'altro, con riferimento all'argomento attinente all'incoerenza del contesto fattuale, che la constatazione dei fatti e la valutazione di tali elementi, salvo il caso di un loro snaturamento, non costituiscono una questione di diritto, come tale soggetta al sindacato della Corte. La Corte respinge anche il motivo relativo al vizio di motivazione della sentenza, avendo il Tribunale debitamente analizzato gli argomenti addotti dalla Repubblica italiana, nonché gli ulteriori motivi proposti, molti dei quali, limitandosi a riproporre le argomentazioni addotte in primo grado, sono giudicati irricevibili.

    La Corte respinge quindi l'impugnazione econdanna l'Italia alle spese.

  • C-22/13 (cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13, C-418/13)

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    Assegnata in data: 26/01/2015

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia si pronuncia sulle questioni pregiudiziali proposte dal Tribunale di Napoli e dalla Corte costituzionale nell'ambito di controversie aventi ad oggetto la successione di contratti di lavoro a tempo determinato nella scuola.

    Tali controversie riguardavano in particolare successivi contratti stipulati da insegnanti e personale amministrativo per la copertura dei medesimi posti con i medesimi datori di lavoro (il Ministero dell'istruzione e, in un caso, il comune di Napoli) per un periodo di tempo complessivo che andava da un minimo di quattro anni a un massimo di undici anni. Gli attori nei procedimenti principali chiedevano la conversione dei rispettivi contratti in contratti di lavoro a tempo indeterminato o, in subordine, il risarcimento del danno subito.

    Nell'ordinamento italiano, il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore pubblico è disciplinato dal decreto legislativo n. 165/2001 (in particolare, articolo 36, comma 5) e dal decreto legislativo n. 368/2001, di attuazione della direttiva 1999/70/UE (relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato). Quest'ultimo, all'articolo 5, comma 4-bis, dispone la trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato qualora, per effetto di successione di contratti a termine successivi, si superino i trentasei mesi. In base all' articolo 10, tale disposizione non si applica ai contratti a tempo determinato per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA. A tale personale, limitatamente al settore della scuola statale, è applicabile, invece, l'articolo 4 della legge n. 124/1999 che, in combinato disposto con l'articolo 1 del D.M. 13 giugno 2007, n. 131 , disciplina le supplenze. In particolare, gli incarichi dei docenti e del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) della scuola statale sono di tre tipi: supplenze annuali, per posti vacanti e disponibili, in quanto privi di titolare, il cui termine corrisponde a quello dell'anno scolastico (31 agosto); supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche (30 giugno), su posti non vacanti ma ugualmente disponibili; supplenze temporanee o brevi, per ogni altra necessità. Infine, ai sensi degli articoli 399 e 401 del DM n. 131/2007, l'accesso al ruolo del personale docente della scuola statale avviene per il 50 per cento mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle graduatorie permanenti nelle quali figurano i docenti che hanno vinto il concorso, senza ottenere un posto di ruolo e quelli che hanno seguito i corsi di abilitazione (sistema del doppio canale). Per la chiamata dei docenti supplenti si attinge a tali graduatorie: la successione delle supplenze da parte di uno stesso docente ne comporta l'avanzamento in graduatoria e può condurlo all'immissione in ruolo.

    I giudici del rinvio chiedono alla Corte se la normativa italiana sia compatibile con l'ordinamento europeo e in particolare con la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, la quale prevede che, per prevenire l'abuso del ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato, gli Stati membri devono introdurre nei rispettivi ordinamenti specifici limiti con riferimento, in alternativa o cumulativamente: a ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti; alla durata massima totale; al numero dei rinnovi.

    In particolare, i giudici del rinvio chiedono se tale clausola possa essere interpretata nel senso che osta alla normativa nazionale che autorizza, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti a tempo determinato per la copertura dei posti vacanti e disponibili, senza indicare tempi certi per l'espletamento di tali concorsi ed escludendo qualsiasi possibilità di risarcimento del danno.

    La Corte, in primo luogo, afferma l'applicabilità dell'accordo quadro allegato alla direttiva, e quindi anche della clausola 5, punto 1, al personale assunto nel settore dell'insegnamento. Pertanto, lo Stato italiano è obbligato ad introdurre almeno una delle misure indicate da tale clausola per limitare l'abuso del ricorso a contratti successivi. Esso dispone di un'ampia discrezionalità nella scelta delle misure da introdurre, tenendo conto anche delle esigenze di settori e di categorie specifiche di lavoratori. Inoltre, dal momento che la normativa europea non prevede specifiche sanzioni, spetta alle autorità nazionali, in questo caso all'Italia, adottare misure di carattere proporzionato, energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate. Pertanto, qualora si verifichi un ricorso eccessivo a contratti successivi, si deve potere applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, al fine di sanzionare l'abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell'Unione.

    A tale proposito, ad avviso della Corte, è pacifico che la normativa italiana non presenti alcuna misura che limiti la durata totale dei contratti o il numero dei rinnovi (lettere b) e c) del punto 1 della clausola 5), ne' prevede norme equivalenti per la prevenzione degli abusi ai sensi della clausola 5, punto 1. In assenza di tali misure, il ricorso a contratti successivi deve essere giustificato da ragioni obiettive.

    Per ragioni obiettive si intendono circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e sono, pertanto, tali da giustificare l'utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Tali circostanze possono risultare dalla particolare natura delle funzioni da esercitare, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità sociale.

    Ad avviso della Corte, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale e astratto, il ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato non sarebbe coerente con tale principio, non consentendo di stabilire criteri oggettivi e trasparenti per verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un'esigenza reale, se sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e se sia necessario a tale fine. Tuttavia, la normativa italiana che consente il rinnovo dei contratti a tempo determinato per la sostituzione, da un lato, del personale in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali e, dall'altro, del personale momentaneamente impossibilitato a svolgere le sue funzioni, non è in astratto incompatibile con l'accordo quadro: la copertura dei posti vacanti costituisce una ragione obiettiva che giustifica sia la durata determinata dei contratti sia il loro rinnovo. Tale normativa, inoltre, appare coerente con il perseguimento di obiettivi sociali (quali la tutela della gravidanza e la conciliazione degli obblighi familiari e professionali da parte degli insegnanti di ruolo) e permette allo Stato di adempiere all'obbligo di organizzare il servizio scolastico, garantendo la necessaria flessibilità per un adeguamento costante tra il numero dei docenti e il numero di studenti, elementi non sempre prevedibili a priori.

    La Corte però aggiunge che l'osservanza della clausola 5, punto 1, lettera a), dell'accordo quadro richiede che si verifichi concretamente che il rinnovo di successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato miri a soddisfare esigenze provvisorie. Nel caso di specie, in violazione di tale clausola, la normativa nazionale consente di soddisfare esigenze permanenti nelle scuole statali derivanti dalla mancanza strutturale di personale di ruolo, dal momento che non esiste alcuna certezza riguardo alla tempistica né dell'effettuazione delle procedure concorsuali né dell'immissione in ruolo dei docenti vincitori.

    La normativa italiana non reca nemmeno misure sanzionatorie del ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato, in assenza di disposizioni che riconoscano il risarcimento del danno al personale delle scuole statali che sia stato indebitamente assoggettato a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato e non essendo consentita la trasformazione di tali rapporti di lavoro in contratti a tempo indeterminato.

    Tale trasformazione per il lavoratore si realizza soltanto nella possibilità di essere immesso in ruolo per effetto dell'avanzamento in graduatoria, che, rivestendo carattere aleatorio, non può essere considerata sanzione a carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo al fine di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell'accordo quadro.

    Sulla base di tali elementi, la Corte giudica la normativa italiana non conforme all'accordo quadro e dichiara che la clausola 5, punto 1, dell'accordo medesimo deve essere interpretata nel senso che osta alle norme italiane che autorizzano, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione del personale di ruolo nelle scuole statali, il rinnovo di contratti a tempo determinato per la copertura dei posti vacanti e disponibili di docenti e personale amministrativo, senza indicare tempi certi per l'espletamento di tali procedure ed escludendo qualsiasi possibilità di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito. Tale normativa infatti non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti per verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad una esigenza reale, sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e sia necessario a tale fine né prevede alcuna misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato.

    Si segnala che la legge di stabilità 2015 (legge n. 190/2014, articolo 1, commi 4 e 5) destina specifiche risorse al finanziamento, tra l'altro, ad un piano straordinario di assunzioni nel settore della scuola

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