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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-14/17

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 26/11/2018

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha dichiarato che, in base all'articolo 34, paragrafo 8, della direttiva 2004/17/CE, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, quando le specifiche tecniche che figurano nei documenti dell'appalto fanno riferimento a un marchio, a un'origine o a una produzione specifica, l'ente aggiudicatore deve esigere che l'offerente fornisca, già nella sua offerta, la prova dell'equivalenza dei prodotti che propone rispetto a quelli definiti nelle citate specifiche tecniche.
  • C-1/17

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 26/11/2018

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha dichiarato che, in base all'articolo 20, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, il datore di lavoro ha il diritto di presentare, dinanzi al giudice regolarmente investito della domanda principale presentata da un lavoratore, una domanda riconvenzionale fondata su un contratto di cessione di credito, concluso tra il datore di lavoro e il titolare originario del credito, in data successiva alla proposizione di tale domanda principale.
  • C-493/15

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 08/05/2017

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla Corte di Cassazione, verte sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE) e degli articoli 2 e 22 della sesta direttiva 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme (in prosieguo: “sesta direttiva”). Tale domanda è stata formulata nell’ambito di una controversia tra l’Agenzia delle Entrate e il sig. Marco Identi in merito ad una cartella di pagamento relativa all’imposta sul valore aggiunto (IVA) e all’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) per l’anno di imposta 2003. Con decreto del 14 aprile 2008, il Tribunale di Mondovì (Italia) ha concesso un’esdebitazione al sig. Identi, socio accomandatario della fallita PVA di Identi Marco e C. Sas, e fallito in proprio. Successivamente a tale decreto, l’Agenzia delle Entrate ha inviato al sig. Identi la citata cartella di pagamento a titolo dell’IVA e dell’IRAP. L’Agenzia delle entrate ha impugnato innanzi alla Corte di Cassazione la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte, del 26 marzo 2012, che ha dichiarato l’illegittimità di tale cartella di pagamento. Il giudice del rinvio rileva che la procedura di esdebitazione, applicabile al debitore, persona fisica, imprenditore commerciale dichiarato fallito, è tesa a consentire al suo beneficiario di “ripartire da zero” dopo aver cancellato tutti i debiti pregressi nei confronti dei creditori concorsuali rimasti insoddisfatti dalla liquidazione fallimentare, affinché tale debitore ridiventi un soggetto economico attivo senza subire limitazioni all’iniziativa o alle proprie potenzialità di favorire la produzione di ricchezza per effetto del peso di tali debiti. Il giudice del rinvio si interroga sulla compatibilità della procedura di esdebitazione con il diritto dell’Unione. In particolare, si chiede se considerazioni pratiche, accertate giudizialmente, quali l’insolvenza del debitore meritevole, o la possibilità di percepire solo una parte del credito IVA, possano giustificare la rinuncia, in tutto o in parte, a tale credito. Sulla base della formulazione dell’articolo 142, terzo comma, della legge fallimentare, che elenca i debiti da cui il debitore può essere liberato, la Corte di Cassazione ritiene che il legislatore nazionale abbia considerato che il soggetto che può beneficiare della procedura di esdebitazione può essere liberato anche dal pagamento dei debiti fiscali. Occorre tuttavia verificare, a suo avviso, se l’applicazione di tale procedura ai debiti IVA non sia contraria al diritto dell’Unione. Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 4, paragrafo 3, TUE e gli articoli 2 e 22 della sesta direttiva nonché le norme in materia di aiuti di Stato, debba essere interpretato nel senso che osta a che i debiti IVA siano dichiarati inesigibili in applicazione di una normativa nazionale che prevede una procedura di esdebitazione con cui un giudice può, a certe condizioni, dichiarare inesigibili i debiti di una persona fisica non liquidati in esito alla procedura fallimentare cui tale soggetto è stato sottoposto. Al riguardo, occorre ricordare che dalle citate disposizioni del TUE e della sesta direttiva emerge che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio. Le risorse proprie dell’Unione comprendono, infatti, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione. Sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, poiché qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde. Pertanto, la Corte di giustizia deve valutare se la possibilità, a certe condizioni, di dichiarare inesigibili debiti IVA in applicazione della procedura di esdebitazione, sia contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio. In premessa, la Corte di giustizia rileva che l’applicazione della procedura di esdebitazione presuppone che il patrimonio del debitore sia stato totalmente liquidato e che la ripartizione tra i creditori dell’attivo risultante da tale liquidazione non abbia permesso di soddisfare l’integralità dei debiti. Inoltre, secondo l’articolo 142, secondo comma, della legge fallimentare, l’esdebitazione può essere concessa solo qualora i creditori concorsuali siano stati soddisfatti almeno in parte. Inoltre, per quanto riguarda lo svolgimento della procedura, l’articolo 143 della legge fallimentare prevede che il curatore ed il comitato dei creditori debbano essere consultati e che i creditori non integralmente soddisfatti, il pubblico ministero e qualunque interessato possano proporre un ricorso avverso la decisione del giudice che dichiara inesigibili i debiti non integralmente soddisfatti nell’ambito della procedura concorsuale. La procedura di esdebitazione implica pertanto un esame caso per caso, svolto da un organo giurisdizionale. Essa consente inoltre allo Stato membro interessato, detentore di un credito IVA, di proporre un ricorso, eventualmente, contro la decisione che dichiara inesigibili i debiti IVA non integralmente soddisfatti, conducendo ad un secondo controllo giurisdizionale. La Corte di giustizia, quindi, ritiene che la procedura di esdebitazione sia assoggettata a condizioni di applicazione rigorose che offrono garanzie per quanto riguarda segnatamente la riscossione dei crediti IVA e che, tenuto conto di tali condizioni, essa non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA. Per quanto concerne la compatibilità con le norme in materia di aiuti di stato, la Corte rileva che la qualifica di una misura nazionale come “aiuto di Stato” richiede, secondo una giurisprudenza costante, che siano soddisfatti tutti i requisiti seguenti: • deve trattarsi di un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali; • tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra Stati membri; • deve concedere un vantaggio selettivo al suo beneficiario; • deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza. Al riguardo, la Corte di giustizia si sofferma sul requisito della selettività del vantaggio, la cui valutazione richiede di stabilire se, nell’ambito di un dato regime giuridico, la misura nazionale in discussione sia tale da favorire «talune imprese o talune produzioni» rispetto ad altre che si trovino in una situazione fattuale e giuridica analoga, tenuto conto dell’obiettivo perseguito da detto regime e che sono quindi oggetto di un trattamento differenziato idoneo, in sostanza, ad essere qualificato come discriminatorio. La Corte osseva che, nel quadro delle disposizioni della legge fallimentare che disciplinano la procedura di esdebitazione, le persone cui il beneficio di tale procedura non è concesso, o perché non rientrano nell’ambito di applicazione di tale procedura, o perché non sono soddisfatti i requisiti previsti all’articolo 142 di detta legge, non si trovano in una situazione fattuale e giuridica analoga a quella delle persone cui detto beneficio è concesso tenuto conto dell’obiettivo perseguito da tali disposizioni, che è di consentire ad una persona fisica dichiarata fallita, debitrice in buona fede, di riprendere un’attività imprenditoriale venendo liberata dai debiti non liquidati in esito della procedura concorsuale cui tale persona è stata sottoposta. Pertanto, ad avviso della Corte, un’esdebitazione quale quella prevista dalla legge fallimentare non può essere qualificata come aiuto di Stato.
  • C-601/14

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    Assegnata in data: 13/03/2017

    Commissione: II COMMISSIONE (GIUSTIZIA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Con la sentenza in oggetto, la Corte ha stabilito che la Repubblica italiana, non avendo adottato tutte le misure necessarie al fine di garantire l'esistenza, nelle situazioni transfrontaliere, di un sistema di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi sul proprio territorio, è venuta meno all'obbligo ad essa incombente in forza dell'articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80.

    La decisione interviene a seguito del procedimento precontenzioso avviato dalla Commissione con la lettera di messa in mora (procedura 2011_4147 per non corretto recepimento della direttiva 2004/80/CE relativa all'indennizzo delle vittime di reato) inviata alle autorità italiane il 25 novembre 2011. La Commissione europea aveva sin da subito contestato all'Italia il fatto di aver previsto, mediante diverse leggi speciali, un sistema di indennizzo soltanto per le vittime di alcuni reati specifici, come le azioni di terrorismo o la criminalità organizzata, mentre nessun sistema di indennizzo sarebbe stato istituito per quanto riguarda i reati intenzionali violenti che non sono coperti da tali leggi speciali, in particolare lo stupro o altre gravi aggressioni di natura sessuale.

    Si segnala tuttavia che la legge 7 luglio 2016, n. 122, sull'adempimento degli obblighi dell'Italia derivanti dall'appartenenza del nostro Paese all'Unione europea (Legge europea 2015-2016), contiene alcune disposizioni in materia di indennizzo in favore delle vittime di reati intenzionali violenti, in attuazione della direttiva 2004/80/CE.

    La Corte non ha potuto valutare se la disciplina italiana sopravvenuta sia in grado di sanare la situazione di inadempimento accertata nella sentenza, in quanto, nonostante quest'ultima sia stata depositata l'11 ottobre 2016, le udienze del relativo procedimento si sono svolte il 29 febbraio 2016 ed il 19 aprile 2016, ovvero precedentemente all'adozione della Legge europea e durante l'esame del relativo disegno di legge, che non è stato invocato dal Governo italiano per dimostrare la compatibilità dell'ordinamento italiano con quello europeo.

  • C-378/15

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    Assegnata in data: 13/03/2017

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 17, paragrafo 5, e dell'articolo 19 della sesta direttiva 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme.

    Tale domanda è stata proposta nell'ambito di una controversia tra la Mercedes Benz Italia Spa e l'Agenzia delle Entrate in merito a detrazioni dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) operate dalla Mercedes Benz nell'anno d'imposta 2004.

    Nella sua dichiarazione IVA per il 2004, la Mercedes Benz ha qualificato l'erogazione di finanziamenti alle società controllate come "accessorie" rispetto alle proprie attività imponibili, circostanza che l'ha portata a escludere gli interessi maturati su tali finanziamenti dal calcolo della percentuale di detrazione di cui all'articolo 19-bis del DPR n. 633/72.

    A seguito di un controllo fiscale effettuato nel corso del 2008 e riguardante l'anno d'imposta 2004, la Mercedes Benz è stata sottoposta, con decisione dell'Agenzia delle Entrate, a un avviso di accertamento per il recupero di IVA non versata pari a 1.755.882 di euro: in particolare, si contestava proprio l'esclusione dal calcolo della percentuale di detrazione degli interessi percepiti sui finanziamenti alle società controllate, dal momento che tale erogazione costituiva una delle principali attività della Mercedes Benz, pari al 71,64% della sua cifra d'affari complessiva.

    La Mercedes Benz ha proposto un ricorso contro tale decisione dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma (Italia), che ha sospeso il procedimento e ha deciso di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: se, ai fini dell'esercizio del diritto di detrazione, ostino all'interpretazione degli articoli 168, 173, 174 e 175 della direttiva 2006/112/CE, la legislazione nazionale (segnatamente, gli articoli 19, comma 5 e 19-bis, del DPR n. 633/72) e la prassi dell'Amministrazione fiscale nazionale, che prevedono l'applicazione del metodo del pro-rata.

    In Italia, infatti, per i soggetti che compiono sia operazioni imponibili sia operazioni esenti (purché non meramente accessorie alle prime), la liquidazione dell'IVA segue la regola del pro-rata matematico: l'IVA detraibile dall'impresa è computata con riferimento alla totalità degli acquisti effettuati dall'impresa stessa (anche a quelli "a monte" delle operazioni esenti), in una percentuale (percentuale di detraibilità) risultante dal rapporto tra fatturato imponibile e fatturato complessivo (quest'ultimo dato dalla somma del fatturato imponibile e di quello esente). Nel sistema del pro-rata matematico, pertanto, non si tengono distinte le operazioni esenti da quelle imponibili, perché entrambe confluiscono in un sistema "promiscuo" in cui l'imposta, con la correlativa detrazione, è determinata in modo unitario, forfettariamente e per approssimazione, in relazione a tutti gli acquisiti effettuati dall'impresa.

    In premessa, sebbene il giudice del rinvio si sia formalmente riferito, nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, agli articoli 168 e da 173 a 175 della direttiva 2006/112/CE, la Corte di giustizia rileva che nell'anno d'imposta di cui al procedimento (il 2004) il diritto a detrazione dei soggetti passivi era principalmente disciplinato dagli articoli 17 e 19 della sesta direttiva 77/388/CEE.

    Nel merito, la Corte ha stabilito che il diritto dell'Unione non osta a una normativa come quella italiana, che prevede per i soggetti ad attività "mista" un trattamento omogeneo delle attività tassate e delle attività esenti, mediante applicazione di un unico pro-rata (della detrazione e della corrispondente imposta) su tutti gli acquisti.

    In particolare, la Corte ha evidenziato che, secondo la direttiva, il pro-rata di detrazione è una frazione al cui numeratore sta il fatturato delle operazioni imponibili e al cui denominatore è collocata la somma di tale fatturato e del fatturato esente. È vero che tale pro-rata di detrazione si applica, di regola, agli acquisti di beni destinati a un utilizzo promiscuo (cioè utilizzati contemporaneamente sia per attività esenti, non meramente accessorie, sia per attività assoggettate a IVA svolte dallo stesso imprenditore). Tuttavia, l'articolo 17, paragrafo 5, terzo comma, della sesta direttiva consente agli Stati membri di ricorrere a metodi di determinazione del diritto a detrazione specifici, a carattere derogatorio: in altre parole, è consentito agli Stati membri applicare il medesimo criterio del pro-rata di detrazione a tutti i beni e servizi destinati ai due tipi di operazioni, ivate o esenti; senza richiedere la promiscuità o contemporaneità della destinazione dei beni: ciò significa che la detrazione pro-rata può applicarsi, in via eccezionale, sia a beni acquistati per essere destinati esclusivamente a operazioni soggette ad IVA, sia a beni acquistati per essere destinati esclusivamente a operazioni esenti (purché non meramente accessorie all'attività imponibile). Secondo la Corte, tale eccezione, come applicata nel sistema italiano, è conforme all'obiettivo della direttiva di autorizzare criteri semplificati di calcolo dell'IVA e della detrazione.

    Circa l'esame della questione se sia consentito a uno Stato membro obbligare un soggetto passivo a riferirsi alla composizione della sua cifra di affari (articolo 19 della sesta direttiva), la Corte ha stabilito che la disciplina italiana (che per identificare le operazioni "meramente accessorie" a quelle imponibili richiede di avere riguardo al fatturato complessivo dell'impresa) è conforme al diritto dell'Unione.

  • C-318/15

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 13/03/2017

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

          La domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte verte sull'interpretazione degli articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), riguardanti, rispettivamente, la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, nonché dei principi generali di parità di trattamento, di non discriminazione e di proporzionalità. Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra la Tecnoedi Costruzioni Srl e il comune di Fossano (Cuneo) avente ad oggetto la regolarità dell'aggiudicazione definitiva, da parte di tale comune, di un appalto pubblico di lavori alla Ge.Co. Italia Spa.

     

         Il considerando 2 della direttiva 2004/18/CE (abrogata e sostituita dalla direttiva 2014/24/UE) stabilisce che l'aggiudicazione degli appalti negli Stati membri per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico è subordinata al rispetto dei principi del Trattato ed in particolare ai principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonché ai principi che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza. Ai sensi dell'articolo 7, lettera c), della citata direttiva, come modificato dal regolamento (UE) n. 1251/2011, applicabile ratione temporis al procedimento principale, tale direttiva si applica agli appalti pubblici di lavori il cui valore stimato al netto dell'imposta sul valore aggiunto sia pari o superiore a 5 milioni di euro. L'articolo 122, comma 9, del decreto legislativo n. 163 del 2006 stabilisce che, per i lavori d'importo inferiore o pari a 1 milione di euro, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, la stazione appaltante può prevedere nel bando l'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia (determinata dall'articolo 86 del medesimo decreto). La facoltà di esclusione automatica non è esercitabile quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci; tuttavia, in ogni caso le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa. In base all'articolo 253 del medesimo decreto, le stazioni appaltanti possono applicare fino al 31 dicembre 2015 le disposizioni di cui all'articolo 122, comma 9, per i contratti di importo inferiore alle soglie di applicazione della direttiva 2004/18/CE.

    Con bando pubblicato il 26 giugno 2013, il comune di Fossano ha indetto una procedura aperta di gara, con il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso, per l'affidamento di lavori di ampliamento e riqualificazione energetica della scuola d'infanzia «Gianni Rodari» d'importo complessivo a base di gara pari a 1.158.899,97 euro. Il disciplinare di gara prevedeva che la presenza di offerte anomale sarebbe stata individuata in modo automatico qualora il numero delle offerte valide fosse stato pari o superiore a dieci. Il 24 luglio 2013 la commissione di gara ha escluso in via automatica le offerte contenenti un ribasso superiore alla soglia di anomalia, dichiarando la Tecnoedi Costruzioni aggiudicataria provvisoria, con un ribasso del 25,397%; successivamente, il 30 luglio 2013 ha riammesso d'ufficio le associazioni temporanee di imprese Niccoli Costruzioni Srl e Selva Mercurio Srl e ha aggiudicato l'appalto in via provvisoria alla Ge.Co. Italia, alla quale, poi, con decisione del 5 settembre 2013, ha aggiudicato l'appalto in via definitiva, con un'offerta al ribasso del 25,427%.

    La Tecnoedi Costruzioni ha presentato ricorso per chiedere l'annullamento delle suddette decisioni e, in via subordinata, del disciplinare di gara per violazione del citato articolo 122, comma 9, ritenendo non consentita l'esclusione automatica delle offerte anormalmente basse per i lavori di importo superiore a un milione di euro. Il giudice del rinvio ha quindi sospeso il giudizio per chiedere alla Corte se gli articoli 49 e 56 e i principi generali del TFUE debbano essere interpretati in senso ostativo alla normativa vigente in Italia che prevede l'esclusione automatica delle offerte anormalmente basse nelle gare per l'aggiudicazione di appalti di lavori sotto soglia che presentino un interesse transfrontaliero. Il giudice del rinvio ha osservato che, sebbene l'appalto in oggetto avesse un importo stimato pari a 1.158.899,97 euro, non è possibile escludere l'esistenza di un interesse transfrontaliero certo poiché il comune di Fossano si trova a meno di 200 Km dal confine con la Francia e, tra le concorrenti ammesse alla gara, vi erano imprese italiane con sedi distanti anche 800 Km da Fossano.

    La Corte afferma che l'aggiudicazione degli appalti che, in considerazione del loro valore, non rientrano nell'ambito di applicazione delle direttive in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici è comunque soggetta alle norme fondamentali e ai principi generali del TFUE e all'obbligo di trasparenza, purché tali appalti presentino criteri oggettivi atti a indicare l'esistenza di un interesse transfrontaliero certo. Tale circostanza non può essere ricavata in via ipotetica da taluni elementi che, considerati in astratto, potrebbero costituire indizi in tal senso, ma deve risultare in modo chiaro da una valutazione concreta delle circostanze dell'appalto in questione. Nel caso di specie, l'appalto di lavori non presenta un interesse transfrontaliero certo soltanto perchè un determinato numero di offerte sono state presentate da imprese aventi sede nello Stato membro considerato e ubicate a una distanza notevole dal luogo di esecuzione dei lavori. Tale elemento, infatti, alla luce delle circostanze proprie della fattispecie, è del tutto insufficiente e, in ogni caso, non può essere il solo di cui si debba tener conto, dato che i potenziali offerenti provenienti da altri Stati membri sono soggetti a vincoli ed oneri supplementari connessi, in particolare, all'obbligo di adeguarsi al quadro giuridico ed amministrativo dello Stato membro di esecuzione nonché ad esigenze linguistiche.

    Per questi motivi, la Corte dichiara irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal TAR Piemonte.

  • C-199/15

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 13/03/2017

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 45 della direttiva 2004/18/CE (abrogata e sostituita dalla direttiva 2014/24/UE), relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi. Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra il consorzio Ciclat Soc. coop, da un lato, e la Consip Spa e l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dall'altro, in merito a una procedura di aggiudicazione per la fornitura di servizi di pulizia e di altri servizi di manutenzione degli immobili, degli istituti scolastici e dei centri di formazione della pubblica amministrazione.

    L'articolo 45 della direttiva 2004/18/CE prevede che può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali secondo la legislazione del paese dove è stabilito o del paese dell'amministrazione aggiudicatrice e che le amministrazioni aggiudicatrici accettano come prova sufficiente, che attesta che l'operatore economico non si trova in nessuna delle situazioni di irregolarità previste, un certificato rilasciato dall'autorità competente dello Stato membro in questione. L'articolo 51 della citata direttiva stabilisce, inoltre, che l'amministrazione aggiudicatrice può invitare gli operatori economici a integrare o chiarire i certificati e i documenti presentati. L'articolo 38 del decreto legislativo n. 163 del 2006 stabilisce che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti, i soggetti che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti. Le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC) sono invece definite dal decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, del 24 ottobre 2007 (articoli 7e 8).

    La Consip ha indetto la procedura di gara in oggetto il 14 luglio 2012 con un bando che imponeva espressamente a ciascun offerente, a pena di esclusione, di dichiarare il possesso dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alla gara stabiliti dall'articolo 38 del decreto legislativo n. 163 del 2006. La data limite per la presentazione delle offerte era fissata al 26 settembre 2012. Il consorzio Ciclat, ha indicato, in sede di offerta, tra le cooperative esecutrici per il caso di aggiudicazione dell'appalto, l'Ancora Soc. coop. Arl, la quale, il 10 settembre 2012, ha dichiarato di non avere commesso violazioni gravi, ovvero ostative al rilascio del DURC, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali. All'esito della procedura di gara, il consorzio Ciclat ha ottenuto il primo posto nella graduatoria provvisoria per il lotto n. 7 e il secondo posto per il lotto n. 12. Su richiesta della Consip, l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha accertato che, alla data della sua dichiarazione, l'Ancora Soc. coop. Arl non era in regola, in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, con il pagamento dei premi assicurativi avendo omesso il versamento della terza rata di tali premi alla scadenza del 16 agosto 2012. Tale terza rata è stata poi versata, unitamente alla quarta e ultima rata, il 5 dicembre 2012, ossia prima che fossero svolti detti controlli o si sapesse dell'esito della gara. La Consip ha deciso di escludere il Ciclat dalla procedura di gara e quest'ultimo ha proposto ricorso dinanzi al TAR Lazio, che lo ha respinto. Il Ciclat ha impugnato tale decisione dinanzi al Consiglio di Stato, facendo valere che il mancato pagamento, entro il termine stabilito, di una delle rate di un premio in regime di autoliquidazione non può essere qualificato come violazione grave e definitivamente accertata, atteso, tra l'altro, lo spontaneo adempimento del rateo contributivo unitamente alla quarta e ultima rata.

     

    Il Consiglio di Stato ha sospeso il procedimento chiedendo alla Corte se l'articolo 45 della direttiva 2004/18/CE, nonché gli articoli 49 e 56 del TFUE, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali, risultante da un certificato richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione, esistente alla data della partecipazione ad una gara d'appalto, non sussisteva più alla data dell'aggiudicazione o della verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice.

    La Corte rileva che l'articolo 45 della citata direttiva:

    • in combinato disposto con l'articolo 51, lascia agli Stati membri il compito di determinare entro quale termine gli interessati devono mettersi in regola con i propri obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e possono procedere a eventuali regolarizzazioni a-posteriori, anche se l'amministrazione aggiudicatrice non può ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni dei documenti dell'appalto, debbono portare all'esclusione dell'offerente;
    • permette agli Stati membri di escludere dalla partecipazione a un appalto pubblico ogni operatore economico che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali e non vieta alle autorità competenti di richiedere d'ufficio agli istituti previdenziali i certificati prescritti. Inoltre, l'operatore economico non può fondarsi su un certificato rilasciato dagli istituti previdenziali, ottenuto prima della presentazione della sua offerta e attestante che esso era in regola con i propri obblighi contributivi in un periodo anteriore a tale presentazione, pur sapendo di non essere più in regola con siffatti obblighi alla data della presentazione della sua offerta;
    • non prevede un'uniformità di applicazione a livello dell'Unione delle cause di esclusione, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. Tale disposizione non obbliga, quindi, gli Stati membri a lasciare un margine di discrezionalità alle amministrazioni aggiudicatrici a tale riguardo.

    Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte dichiara che l'articolo 45 della direttiva 2004/18/CE deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi, che obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d'appalto, anche se non sussisteva più alla data dell'aggiudicazione o della verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice.

  • C-189/15

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 13/03/2017

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2003/96/CE del Consiglio che ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell'elettricità.

    Nel corso del 2014, la Fondazione Santa Lucia, operante nel settore dell'erogazione dei servizi sanitari, ha chiesto al Tar Lombardia l'annullamento degli atti con cui la Autorità nazionale per l'Energia elettrica ed il Gas le ha negato la fruizione degli incentivi fiscali previsti in tema di copertura degli oneri generali del sistema elettrico, riconoscendo tali benefici solo alle imprese c.d. "energivore" del settore manifatturiero.

    Il Tar ha dichiarato irricevibile il ricorso perché tardivo. Adito in appello, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover sospendere il procedimento e formulare una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia, chiedendo se l'articolo 17 della direttiva 2003/96/CE debba essere interpretato nel senso che rientrano nella nozione di "sgravi fiscali" gli incentivi riconosciuti, dal diritto nazionale, alle imprese a forte consumo di energia, quali definite dalla medesima disposizione, relativamente a corrispettivi, come quelli in discussione nel procedimento principale, a copertura degli oneri generali del sistema elettrico.

    In Italia la materia è disciplinata dall'art 39 del decreto-legge 2012/83 (convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134) e da un decreto ministeriale del 5 aprile 2013 che prevede, da un lato, sgravi fiscali ed agevolazioni per le imprese a forte consumo di elettricità e, dall'altro, oneri a carico dei consumatori e delle altre imprese, destinati a finanziare interessi generali, come fonti rinnovabili, messa in sicurezza del nucleare e compensazioni territoriali.

    La Fondazione lamentava l'esclusione da tali benefici, previsti soltanto per alcune tipologie di imprese.

    Il Consiglio di Stato ha chiesto alla Corte Ue, in via pregiudiziale:

    • se sia riconducibile al campo di applicazione della direttiva 2003/96/CE una normativa nazionale la quale, per un verso, reca una definizione di "imprese a forte consumo di energia" compatibile con quella della direttiva e che, per altro verso, riserva a tale tipologia di imprese incentivi in tema di corrispettivi a copertura degli oneri generali del sistema elettrico (e non incentivi relativi alla tassazione dei prodotti energetici e dell'elettricità in quanto tale);
    • se l'ordinamento dell'Unione e, segnatamente, gli articoli 11 e 17 della direttiva citata ostino a una disciplina come quella nazionale la quale, per un verso, opta per l'introduzione di un sistema di agevolazioni sul consumo di prodotti energetici da parte delle imprese "a forte consumo di energia" e, per altro verso, limita la possibilità di fruire di tali agevolazioni in favore delle sole imprese "energivore" che operano nel settore manifatturiero, escludendola nei confronti delle imprese che operano in diversi settori produttivi (e segnatamente, nel caso di specie, nel settore dei servizi sanitari).

    Per rispondere alla prima questione, a parere della Corte di giustizia, occorre accertare se i corrispettivi a copertura degli oneri generali del sistema elettrico abbiano carattere fiscale e, più specificamente, costituiscano imposte indirette di cui all'articolo 4, paragrafo 2, direttiva 2003/96/CE. Tali corrispettivi sono previsti in Italia dal citato articolo 39 del decreto legge 2012/83 e la Corte ritiene, salva diversa valutazione del giudice interno, che abbiano natura di imposta, in quanto gli enti che utilizzano i servizi della rete elettrica hanno l'obbligo giuridico di versare i corrispettivi di cui trattasi alla Cassa conguaglio per il settore elettrico. Essi, inoltre, non sono destinati a finanziare i costi di produzione e distribuzione dell'elettricità ma sono rivolti a finalità di interesse generale, andando a gravare sul consumatore finale del bene o del servizio fornito, essendo inclusi nell'importo indicato nella fattura ed essendo collegati all'elettricità consumata, in quanto risultano decrescenti in funzione dei consumi.

    Rappresentando un'imposta indiretta, i benefici riconosciuti alle imprese "energivore" possono, pertanto, essere equiparati ad uno sgravio fiscale.

    In merito alla seconda questione, la Corte rileva che l'articolo 17 della direttiva citata precisa che gli Stati membri possono prevedere limiti più stringenti alla nozione di "impresa a forte consumo di energia" rispetto al dettato europeo, relativi, ad esempio, al valore del fatturato o alle definizioni del processo produttivo del settore industriale di riferimento.

    Per tale ragione, ad avviso della Corte di giustizia, non è possibile individuare nella scelta discrezionale operata nel decreto ministeriale alcuna lesione al principio di parità di trattamento, in considerazione delle diverse scelte politiche che per tale via il Governo nazionale intende perseguire.

    Da ultimo, secondo la Corte rimane aperta la possibilità di verificare se una siffatta normativa costituisca un aiuto di Stato; ma questa è una questione che non è oggetto della suddetta causa.

  • T-60/06

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 21/06/2016

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza ha per oggetto la domanda di annullamento della decisione 2006/323/CE della Commissione, del 7 dicembre 2005, relativa all’esenzione dall’accisa sugli oli minerali utilizzati come combustibile per la produzione di allumina nelle regioni di Gardanne (Francia), di Shannon (Irlanda) e in Sardegna. In Irlanda, in Italia e in Francia esiste un solo produttore di allumina. In Italia, si tratta dell’Eurallumina SpA, con sede in Sardegna. Dal 1993, l’Italia esenta dall’accisa gli oli minerali utilizzati come combustibile per la produzione di allumina in Sardegna (in prosieguo: l’«esenzione controversa»). L’esenzione controversa è stata introdotta nell’ordinamento italiano con il decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504. Il Consiglio dell’UE ha autorizzato siffatta esenzione e, con decisione del 12 marzo 2001, ha prorogato la sua efficacia fino al 31 dicembre 2006. A seguito di un’indagine formale, la Commissione ha accertato che tali misure, finanziate mediante risorse statali, conferivano un vantaggio alla società beneficiaria, erano selettive, e falsavano la concorrenza. Nel 2005, essa ha dunque adottato la citata decisione 2006/323/CE con la quale ha dichiarato che le esenzioni concesse dalla Francia, dall’Irlanda e dall’Italia sugli oli combustibili pesanti utilizzati nella produzione di allumina costituivano aiuti di Stato illegittimi. La Commissione ha tuttavia deciso che l’aiuto concesso fino al 2 febbraio 2002, benché incompatibile con il mercato comune, non dovesse essere recuperato in quanto il recupero sarebbe stato in contrasto con i principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto. Per contro, la Commissione ha ordinato il recupero degli aiuti concessi tra il 3 febbraio 2002 e il 31 dicembre 2003 (che, in base a quanto calcolato dagli stessi Stati membri ed escludendo gli interessi, ammontavano rispettivamente a circa 786mila euro per la Francia, circa 8 milioni di euro per l’Irlanda e circa 6 milioni di euro per l’Italia): tali aiuti, infatti, sono stati considerati incompatibili con il mercato comune nei limiti in cui i beneficiari non avevano versato un’aliquota pari come minimo a 13,01 euro per 1000 kg di oli combustibili pesanti (si segnala che le aliquote applicabili in Italia erano di 63,75 euro e di 31,39 euro per 1000 kg di olio combustibile pesante con tenore di zolfo rispettivamente superiore e inferiore all'1%). Nel 2006, la Francia, l’Irlanda e l’Italia hanno proposto ricorso dinanzi al Tribunale dell’Unione europea che, nel 2007, ha annullato la decisione della Commissione del 2005, con la motivazione che quest’ultima aveva violato l’obbligo di motivazione. Su impugnazione della Commissione, nel 2009 la Corte di giustizia ha annullato la sentenza del Tribunale per violazione del principio del contraddittorio e dei diritti della difesa e ha rinviato le cause dinanzi al Tribunale. Nel 2012, il Tribunale ha nuovamente annullato la decisione della Commissione del 2005, con la motivazione che essa vanificava parzialmente gli effetti giuridici prodotti dalle decisioni anteriori del Consiglio di autorizzare le esenzioni. In particolare, il Tribunale ha rilevato che le esenzioni controverse non erano imputabili agli Stati membri, bensì al Consiglio e non costituivano dunque aiuti di Stato. Su impugnazione della Commissione, nel 2013, la Corte ha annullato la sentenza del Tribunale rilevando, da un lato, che la questione dell’imputabilità delle esenzioni non era stata sollevata dalle parti, bensì dal Tribunale stesso pur non avendone il potere e, dall’altro, che le decisioni del Consiglio che autorizzano uno Stato membro ad introdurre un’esenzione non producono l’effetto di impedire alla Commissione di esaminare se tale esenzione costituisca un aiuto di Stato. La Corte ha dunque nuovamente rinviato le cause dinanzi al Tribunale. Pronunciandosi per la terza volta, nella sentenza in oggetto, il Tribunale ritiene, contrariamente alle sue prime due sentenze del 2007 e del 2012, che la decisione della Commissione sia valida e che gli aiuti di Stato debbano essere pertanto recuperati per il periodo sopra indicato (dal 3 febbraio 2002 al 31 dicembre 2003). In particolare, il Tribunale ritiene che: • la Commissione europea era competente ad esaminare se, nonostante l’autorizzazione del Consiglio, le esenzioni concesse dai tre Stati membri costituissero un aiuto di Stato. Infatti, le decisioni di autorizzazione del Consiglio lasciano impregiudicati gli effetti delle decisioni adottate dalla Commissione nell’esercizio delle sue competenze in materia di aiuti di Stato; • la Commissione ha rispettato le norme dell’Unione in materia di aiuti di Stato. A tal riguardo, il Tribunale ritiene, tra l’altro, che la soppressione dell’accisa sugli oli minerali abbia conferito alle imprese irlandese, francese ed italiana di cui trattasi un vantaggio rispetto alle altre imprese che utilizzano a loro volta oli minerali; • la Commissione non ha violato il principio del legittimo affidamento: infatti, sebbene non abbia adottato la decisione controversa entro un termine ragionevole (sono infatti trascorsi 49 mesi tra l’avvio del procedimento e l’adozione della decisione controversa), il Tribunale ritiene che tale ritardo non costituisca una circostanza eccezionale tale da far sorgere, in capo alle imprese interessate, un legittimo affidamento quanto alla regolarità degli aiuti. Da un lato, la pubblicazione della decisione di avvio del procedimento di indagine formale ha posto fine al legittimo affidamento che l’Eurallumina poteva avere nella regolarità dell’esenzione controversa, alla luce delle decisioni di autorizzazione del Consiglio; dall’altro, i regimi di aiuto non erano stati notificati alla Commissione. Le imprese interessate non potevano dunque ragionevolmente ritenere, nonostante il ritardo accumulato nel procedimento di esame, che non sussistessero più dubbi in capo alla Commissione e che le esenzioni controverse non incontrassero alcuna obiezione. Ne consegue che la Commissione era legittimata ad ordinare il recupero degli aiuti controversi. Il Tribunale respinge quindi il ricorso e condanna le parti ricorrenti (Repubblica italiana ed Eurallumina SpA) alle spese.
  • C-50/14

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 12/04/2016

    Commissione: XII COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che ha opposto il Consorzio Artigiano Servizio Taxi e Autonoleggio (CASTA) e due gestori di imprese di trasporto all’Azienda sanitaria locale di Ciriè, Chivasso e Ivrea (ASLTO4) e alla Regione Piemonte in merito all’affidamento, senza procedura di gara, del servizio di trasporto dei dializzati verso varie strutture sanitarie, per il periodo compreso tra i mesi di giugno e dicembre 2013, all’Associazione Croce Bianca del Canavese e a diverse altre associazioni di volontariato. Il giudice del rinvio chiede in primo luogo se le norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici (in particolare la direttiva 2004/18) e i principi di cui al diritto di stabilimento e alla libertà di prestazione di servizi (articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) debbano essere interpretate nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che consente alle autorità locali di attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, ad associazioni di volontariato, che percepiscono, per la fornitura di detti servizi, solo il rimborso delle spese effettivamente sostenute a tal fine. La Corte ribadisce alcuni concetti affermati nella precedente sentenza Azienda sanitaria locale n. 5 Spezzino (C 113/13), nella quale si sottolinea come il divieto di ingiustificate restrizioni all’esercizio di libertà fondamentali garantite dal diritto europeo debba essere valutato tenendo conto che la salute e la vita delle persone rivestono un’importanza primaria tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato e che spetta agli Stati membri, i quali dispongono di un potere discrezionale, di decidere il livello al quale intendono garantire la tutela della salute pubblica e il modo in cui tale livello deve essere raggiunto. Secondo tale pronuncia, peraltro, non solo un rischio di grave pregiudizio per l’equilibrio economico del sistema previdenziale può costituire, di per sé, una ragione imperativa di pubblico interesse in grado di giustificare un ostacolo alla libera prestazione dei servizi, ma, inoltre, l’obiettivo di mantenere, per ragioni di sanità pubblica, un servizio medico e ospedaliero equilibrato e accessibile a tutti può rientrare parimenti in una delle deroghe giustificate da motivi di sanità pubblica, se un siffatto obiettivo contribuisce al conseguimento di un livello elevato di tutela della salute. Vengono pertanto in rilievo le misure che, da un lato, rispondono all’obiettivo generale di assicurare, nel territorio dello Stato membro interessato, la possibilità di un accesso sufficiente e permanente a una gamma equilibrata di cure sanitarie di qualità e, dall’altro, sono espressione della volontà di garantire un controllo dei costi e di evitare, per quanto possibile, ogni spreco di risorse finanziarie, tecniche e umane. La Corte precisa che uno Stato membro può ritenere, nell’ambito del potere discrezionale di cui dispone per stabilire il livello di tutela della sanità pubblica e organizzare il proprio sistema di sicurezza sociale, che il ricorso alle associazioni di volontariato corrisponda alla finalità sociale di un servizio di trasporto sanitario e che sia idoneo a contribuire al controllo dei costi legati a tale servizio. La Corte conclude quindi che gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che consente alle autorità locali di attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, ad associazioni di volontariato, purché il contesto normativo e convenzionale in cui si svolge l’attività delle associazioni in parola contribuisca effettivamente a una finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio. In secondo luogo la Corte stabilisce che, qualora uno Stato membro consenta alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, un’autorità pubblica che intenda stipulare convenzioni con associazioni siffatte non è tenuta, ai sensi del diritto dell’Unione, a una previa comparazione delle proposte di varie associazioni. La Corte infine risponde alla terza questione posta dal giudice del rinvio, stabilendo che qualora uno Stato membro, che consente alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, autorizzi dette associazioni a esercitare determinate attività commerciali, spetta a tale Stato membro fissare i limiti entro i quali le suddette attività possono essere svolte. Detti limiti devono tuttavia garantire che le menzionate attività commerciali siano marginali rispetto all’insieme delle attività di tali associazioni, e siano di sostegno al perseguimento dell’attività di volontariato di queste ultime.

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