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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-617/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 12/05/2021

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 3, lettera e), e dell'allegato I della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nell'UE e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio (GU 2003, L 275, pag. 32), come modificata dalla direttiva 2009/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009 (GU 2009, L 140, pag. 63) (in prosieguo: la «direttiva 2003/87»).

    Il ricorso è stato proposto nell'ambito di una controversia tra la Granarolo SpA e il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (Italia), il Ministero dello Sviluppo economico (Italia) e il Comitato nazionale per la gestione della direttiva 2003/87/CE e per il supporto nella gestione delle attività di progetto del Protocollo di Kyoto (Italia) ("Comitato ETS"), a seguito del rigetto di una domanda di aggiornamento dell'autorizzazione ad emettere gas a effetto serra detenuta dalla Granarolo per uno dei suoi impianti rientrante nel sistema dell'Unione europea per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra ("ETS"). La società Granarolo possiede a Pasturago di Vernate (Italia) uno stabilimento produttivo dotato tra l'altro di una centrale termica per la produzione del calore necessario ai suoi processi di trasformazione. A titolo di tale centrale termica, la Granarolo deteneva, conformemente a quanto prescritto dall'articolo 4 della direttiva 2003/87, un'autorizzazione ad emettere gas a effetto serra derivanti dalla combustione di carburanti in impianti di potenza termica nominale totale superiore a 20 MW. In virtù del diritto nazionale, era soggetta, per tale impianto, al regime dei «piccoli emettitori» ai fini del monitoraggio e del controllo delle emissioni di CO2. Nel 2013, la Granarolo costruiva, nei suoi stabilimenti, un'unità di cogenerazione di energia elettrica e calore, per la produzione di alimenti, di potenza termica nominale totale inferiore a 20 MW ottenendo dal Comitato ETS l'aggiornamento della propria autorizzazione ad emettere gas a effetto serra, ai sensi dell'articolo 7 della predetta direttiva. Nel 2017, la Granarolo cedeva la propria unità di cogenerazione alla E.ON Connecting Energies Italia Srl, società specializzata nel settore energetico (E.ON), concludendo con quest'ultima un contratto di fornitura di energia elettrica e calore. A seguito di tale cessione, la Granarolo chiedeva al Comitato ETS un aggiornamento della sua autorizzazione ad emettere gas a effetto serra, ritenendo che le emissioni relative all'unità di cogenerazione, non più sotto la sua gestione, dovessero essere scorporate dall'ammontare delle sue emissioni di CO2. Con decisione del 6 giugno 2018, il Comitato ETS respingeva la sua domanda, pertanto la Granarolo proponeva dinanzi al giudice del rinvio un ricorso in annullamento di tale rigetto asserendo che il Comitato ETS non avrebbe tenuto conto nell'adozione della decisione di rigetto delle prescrizioni della direttiva 2003/87 e asserendo altresì che lo stabilimento produttivo e l'unità di cogenerazione non possono essere considerati, solo perché connessi ai fini della fornitura di energia, come un unico impianto essendo strutturalmente e funzionalmente autonomi. La E.ON è intervenuta a sostegno della Granarolo nell'ambito del relativo procedimento. La Corte conclude dichiarando che l'articolo 3, lettere e) e f), della direttiva 2003/87, in combinato disposto con i punti 2 e 3 dell'allegato I di quest'ultima, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che il proprietario di uno stabilimento produttivo dotato di una centrale termica la cui attività rientra nell'ambito di applicazione di tale allegato I possa ottenere un aggiornamento della sua autorizzazione ad emettere gas a effetto serra, ai sensi dell'articolo 7 di tale direttiva, se ha ceduto un'unità di cogenerazione situata nello stesso sito industriale di tale stabilimento ed esercente un'attività con una capacità inferiore alla soglia stabilita in detto allegato I ad un'impresa specializzata nel settore dell'energia, concludendo con tale impresa un contratto che prevede, in particolare, la fornitura a detto stabilimento dell'energia prodotta da tale unità di cogenerazione, sempre che la centrale termica e l'unità di cogenerazione non costituiscano un solo ed unico impianto, ai sensi dell'articolo 3, lettera e), di detta direttiva, e che, in ogni caso, il proprietario dello stabilimento produttivo non sia più il gestore dell'unità di cogenerazione, ai sensi dell'articolo 3, lettera f), della medesima direttiva.

  • C-303/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 17/12/2020

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione dell’art. 11, par. 1, lett. d della direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo: in particolare, la Corte valuta la compatibilità tra il diritto ivi sancito del soggiornante di lungo periodo allo stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale e una disciplina nazionale, quale quella italiana, risultante dal combinato disposto dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988 e dell’art. 9, c. 12, lett. c, d. lgs. 286/1998 (TU immigrazione), la quale, ai fini della determinazione del diritto all’assegno per il nucleo familiare, esclude dal computo dei componenti del nucleo del soggiornante di lungo periodo i familiari che non risiedono nel territorio nazionale, bensì in un paese terzo, allorché invece vengono presi in considerazione i familiari dei cittadini italiani anche se residenti in un paese terzo. La pronuncia risponde infatti al quesito pregiudiziale sollevato dalla Corte di Cassazione, la quale è stata chiamata a decidere sulla legittimità del rigetto opposto da INPS alla domanda di assegno per il nucleo familiare presentata da VR, cittadino di paese terzo, occupato in Italia e titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata dal 2010, i cui familiari avevano risieduto, per la durata del periodo di riferimento, nel proprio paese d’origine. Il rigetto di INPS discendeva dall’applicazione dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, ai sensi del quale « Non fanno parte del nucleo familiare… il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia». D’altra parte, il TU immigrazione, all’art. 9, c. 12, lett. c, stabilisce che il cittadino di un paese terzo titolare di un permesso di soggiorno di lunga durata usufruisce delle prestazioni di previdenza sociale e di assistenza sociale, «salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale». La Corte di Cassazione si trovava pertanto nella necessità di valutare se la legislazione italiana suddetta realizzasse una deroga al principio della parità di trattamento tra cittadino italiano e cittadino di paese terzo regolarmente soggiornante in Italia compatibile con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE. La Corte procede, innanzitutto, dal ricordare che l’articolo 11, par. 1, lett. d, della direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di far beneficiare i soggiornanti di lungo periodo dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda, in particolare, le prestazioni sociali previste dalla legislazione nazionale. Nondimeno, ai sensi dell’articolo 11, par. 2, di detta direttiva, gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni sociali, ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui viene chiesta la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel loro territorio. Altresì, ai sensi del paragrafo 4 del medesimo articolo, gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali. Tali deroghe possono però essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi delle stesse. A tal proposito, la Corte ritiene, in virtù delle risultanze del fascicolo di causa e di quanto è stato confermato in udienza dalla Repubblica italiana, che quest’ultima non abbia espresso l’intenzione di avvalersi di una simile deroga in sede di recepimento della direttiva 2003/109 nel diritto nazionale. Pertanto, la Corte nega che l’esclusione del soggiornante di lungo periodo i cui familiari non risiedono nel territorio italiano dall’accesso all’assegno per il nucleo familiare, che deriva dall’applicazione dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, possa essere ricondotta alle ipotesi di legittima deroga al principio della parità di trattamento previste dall’art. 11 della suddetta direttiva. La Corte afferma che, sebbene l’esclusione dal versamento dell’assegno per il nucleo familiare dipenda esclusivamente dall’omessa considerazione dei familiari non residenti nel territorio della Repubblica italiana che incide sull’entità dell’importo, rendendo quest’ultimo pari a zero, ciò integra nondimeno una disparità di trattamento tra i titolari di un permesso di soggiorno di lunga durata e i cittadini italiani proibita dall’articolo 11, par. 1, lett. d, della direttiva 2003/109/CE. D’altra parte, secondo la Corte, tale difformità nell’accesso alle prestazioni sociali non potrebbe giustificarsi con riferimento al fatto che i soggiornanti di lungo periodo e i cittadini dello Stato membro ospitante si troverebbero in una situazione diversa a causa dei loro rispettivi legami con tale Stato, essendo tale giustificazione contraria alla ratio dell’articolo 11. Secondo una giurisprudenza costante della Corte di giustizia, neanche le eventuali difficoltà di controllo sulla situazione dei beneficiari per quanto riguarda le condizioni di concessione dell’assegno per il nucleo familiare qualora i familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato, eccepite dall’INPS e dal governo italiano, possono giustificare una disparità di trattamento. Infine la Corte ritiene infondata l’affermazione secondo cui l’esclusione dall’assegno per il nucleo familiare del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nel territorio dello Stato membro interessato sarebbe conforme all’obiettivo di integrazione, inteso come effettiva presenza sul territorio, dal momento che, invece, l’obiettivo di favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi è perseguito dalla direttiva garantendo loro un trattamento equo in virtù della previsione di un insieme comune di diritti, che si fonda sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. In definitiva, la Corte dichiara che l’articolo 11, par. 1, lett. d, della direttiva 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i familiari del soggiornante di lungo periodo che risiedano non già nel territorio di tale Stato membro, bensì in un paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in un paese terzo, qualora tale Stato membro non abbia espresso, in sede di recepimento di detta direttiva nel diritto nazionale, la propria intenzione di avvalersi della deroga alla parità di trattamento consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, della medesima direttiva.
  • C-302/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 17/12/2020

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione dell’art. 12, par. 1, lett. e della direttiva 2011/98/UE, la quale stabilisce un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro: in particolare, la Corte verifica la compatibilità con il principio di parità di trattamento ivi sancito di una disciplina nazionale, quale quella risultante dall’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, la quale, ai fini della determinazione del diritto all’assegno per il nucleo familiare, esclude dal computo dei componenti del nucleo del cittadino di paese terzo titolare di permesso unico i familiari che non risiedono nel territorio nazionale, bensì in un paese terzo, allorché invece vengono presi in considerazione i familiari dei cittadini italiani anche se residenti in un paese terzo. La pronuncia risponde infatti al quesito pregiudiziale sollevato dalla Corte di Cassazione, la quale è stata chiamata a decidere sulla correttezza (o meno) dell’applicazione dell’art. 12, direttiva 2011/98/UE data dalla Corte di Appello di Torino nel negare la legittimità del rigetto opposto da INPS alla domanda di assegno per il nucleo familiare presentata da WS, cittadino di paese terzo titolare dapprima di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato e poi di un permesso unico, i cui familiari avevano risieduto, per la durata del periodo di riferimento, nel proprio paese d’origine. Il rigetto di INPS discendeva dall’applicazione dell’art. 2, c. 6 bis del d. l. 69/1988, ai sensi del quale « Non fanno parte del nucleo familiare… il coniuge ed i figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia.» La Corte di Cassazione si trovava pertanto nella necessità di valutare se la legislazione italiana suddetta realizzasse una disparità di trattamento, proibita dal diritto dell’Unione, tra cittadino italiano e cittadino di paese terzo regolarmente soggiornante in Italia rispetto all’accesso a una prestazione di natura previdenziale, quale l’assegno per il nucleo familiare. La Corte procede, innanzitutto, dal ricordare che la direttiva 2011/98/UE impone agli Stati membri di far beneficiare della parità di trattamento, per quanto concerne i settori della sicurezza sociale, come definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004, i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale. In questo senso, la Corte ribadisce che, pur spettando a ciascuno Stato membro stabilire le condizioni per la concessione delle prestazioni di sicurezza sociale nonché l’importo di tali prestazioni e il periodo per il quale sono concesse, nell’esercitare tale facoltà, gli Stati membri devono conformarsi al diritto dell’Unione e, dunque, assicurare il principio della parità di trattamento stabilito dall’art. 12 di detta direttiva. L’applicazione dell’art. 12, direttiva 2011/98/UE alla vicenda in esame dipende tuttavia dalla possibilità di ricondurre l’assegno per il nucleo familiare, di cui al d. l. 69/1988, a uno dei settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004: ebbene, giacché il giudice del rinvio ha riconosciuto la natura previdenziale di tale prestazione, in quanto costituisce un’integrazione economica di cui beneficiano tutti i prestatori di lavoro che svolgono la loro attività sul territorio italiano, purché abbiano un nucleo familiare che produce redditi non superiori ad una determinata soglia, e giacché tale prestazione ha come beneficiari i familiari stessi del lavoratore, il cui numero rileva altresì per la definizione del quantum dell’assegno, si deve riconoscere che l’assegno per il nucleo familiare ricade sotto l’art. 3, lett. j del regolamento (CE) n. 883/2004, quale “prestazione familiare”. La pronuncia della Corte chiarisce, dunque, che non risulta da alcuna delle disposizioni della direttiva 2011/98, una possibilità per gli Stati membri di escludere dal diritto alla parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale il lavoratore titolare di un permesso unico i cui familiari risiedono in un paese terzo. Al contrario, risulta che un tale lavoratore deve beneficiare del diritto alla parità di trattamento. Né possono indurre, secondo la Corte, a una conclusione opposta i considerando 20 e 24 contenuti nel preambolo della medesima direttiva e menzionati dal giudice del rinvio, giacché il preambolo non ha alcun valore giuridico vincolante e non può essere invocato né per derogare alle disposizioni stesse dell’atto in questione, né per interpretare queste disposizioni in un senso manifestamente contrario al loro tenore letterale. D’altra parte, la formulazione del considerando 20 si riferisce alla sola circostanza per cui i familiari di un lavoratore di paese terzo titolare di un permesso unico beneficiano direttamente del diritto alla parità di trattamento previsto all’articolo 12 della direttiva in parola, mentre il considerando 24 è volto a precisare, tra l’altro, che la direttiva in oggetto non accorda essa stessa, al di là della parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante, diritti in materia di sicurezza sociale ai cittadini di paesi terzi titolari di un permesso unico. La Corte afferma che non si può desumere dal riconoscimento della parità di trattamento a favore dei familiari di un cittadino di paese terzo che risiedano nel territorio di uno Stato membro (ex art.1, regolamento n. 1231/2010) l’esclusione dal godimento del medesimo diritto previsto dalla direttiva 2011/98 del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedano nel territorio dello Stato membro interessato, quale il ricorrente nel procedimento in oggetto. Né tale esclusione può trovare un fondamento nel mero fatto che, per i soggiornanti di lungo periodo, la direttiva 2003/109 prevede invece che lo Stato membro interessato possa limitare la parità di trattamento nelle prestazioni sociali, ai casi in cui il familiare per cui essi chiedono la prestazione abbia eletto dimora o risieda abitualmente nel suo territorio. Neppure il fatto che l’esclusione dal versamento dell’assegno per il nucleo familiare dipenda esclusivamente dall’omessa considerazione dei familiari non residenti nel territorio della Repubblica italiana che incide sull’entità dell’importo, rendendo quest’ultimo pari a zero, costituisce una giustificazione per una deroga al diritto alla parità di trattamento di cui all’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98, dal momento che si realizza in ogni caso una disparità di trattamento tra gli stranieri titolari di permesso unico e i cittadini italiani. Infine la Corte ritiene infondata l’affermazione secondo cui l’esclusione dall’assegno per il nucleo familiare del titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nel territorio dello Stato membro interessato sarebbe conforme all’obiettivo di integrazione, inteso come effettiva presenza sul territorio, dal momento che, invece, l’obiettivo di favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi è perseguito dalla direttiva garantendo loro un trattamento equo in virtù della previsione di un insieme comune di diritti, che si fonda sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. In definitiva, la Corte dichiara che l’articolo 12, par. 1, lett. e, della direttiva 2011/98/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro, quale quella italiana discendente dall’art. 2, c. 6 bis, d. l. 69/1988, in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una prestazione di sicurezza sociale, come l’assegno per il nucleo familiare, non vengono presi in considerazione i familiari del titolare di un permesso unico che risiedano non nel territorio di tale Stato membro, ma in un paese terzo, mentre vengono presi in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in un paese terzo.
  • C-299/19

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    Assegnata in data: 17/12/2020

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte di giustizia dell’UE si pronuncia sulla corretta interpretazione della direttiva 2000/35 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dal Tribunale di Torino nell’ambito di una controversia tra la Techbau SpA e l’Azienda Sanitaria Locale AL (ente pubblico incaricato del servizio di sanità pubblica di Alessandria, Italia) in relazione al pagamento di interessi di mora sull’importo dovuto per l’esecuzione di un appalto avente ad oggetto la realizzazione di un blocco operatorio per un ospedale. La questione sollevata, in sostanza, è diretta a stabilire se l’articolo 2, punto 1, primo comma, della direttiva citata debba essere interpretato nel senso che un appalto pubblico di lavori costituisce una transazione commerciale, ai sensi di tale disposizione, e rientra quindi nell’ambito di applicazione ratione materiae di detta direttiva. In particolare la direttiva definisce transazioni commerciali i contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo. In sintesi nell’ambito della controversia innanzi al Tribunale ordinario di Torino è sorto il dubbio se un appalto pubblico di lavori potesse considerarsi estraneo al concetto di transazione commerciale testé indicato con conseguente disapplicazione della direttiva contro i ritardi nei pagamenti. Declinata sul piano del giudizio di compatibilità tra diritto dell’UE e quello nazionale, il Tribunale di Torino ha pertanto chiesto alla Corte se l’articolo 2, punto 1 della direttiva [2000/35] ostasse a una normativa nazionale, come l’articolo 2 comma 1, lettera a) del decreto legislativo n. 231 del 2002, che esclude dalla nozione di “transazione commerciale” – intesa come contratti che “comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo” – e quindi dal proprio campo di applicazione il contratto di appalto di opera, indifferentemente pubblico o privato, e specificamente l’appalto pubblico di lavori ai sensi del diritto europeo. La Corte affronta la questione anzitutto dal punto di vista del tenore letterale della norma in questione. Occorrono due condizioni affinché un’operazione sia sussumibile nella nozione di transazione commerciale: essa deve essere, in primo luogo, effettuata tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni e, in secondo luogo, “comportare la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro pagamento di un prezzo”. Con riferimento alla seconda condizione, la Corte precisa che da diverse disposizioni della direttiva citata emerge che la seconda condizione (consegna di merci o prestazioni di servizio dietro pagamento di un prezzo) è applicabile ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in transazioni commerciali, comprese quelle tra imprese e pubbliche amministrazioni, ad esclusione dei contratti con consumatori e di altri tipi di pagamenti individuati dalla direttiva stessa. Poiché le transazioni riguardanti gli appalti pubblici di lavori non rientrano nel novero delle materie escluse, esse devono rientrare nell’ambito di applicazione ratione materiae di detta direttiva. La Corte precisa che l’impiego, nella disposizione citata, dei termini «che comportano», al fine di descrivere il nesso che deve sussistere tra, da un lato, le «transazioni» e, dall’altro, la «consegna di merci» o la «prestazione di servizi», mette in evidenza che una transazione che non ha per oggetto la consegna di merci o la prestazione di servizi può nondimeno rientrare nella nozione di «transazione commerciale», ai sensi di tale disposizione, qualora una transazione del genere dia effettivamente luogo a una consegna o a una prestazione siffatte. La Corte impiega altresì argomenti di carattere sistemico per confermare tale indirizzo giurisprudenziale. In particolare, alla luce delle definizioni del Trattato sul funzionamento dell’UE in materia di libertà fondamentali, e della relativa giurisprudenza, è indubbio che un contratto d’appalto avente ad oggetto l’esecuzione di un’opera o di lavori, e un appalto pubblico di lavori, implichi la consegna di merci o la prestazioni di servizi. Infine la Corte sottolinea che l’esclusione di una parte non trascurabile delle transazioni commerciali, vale a dire quelle relative agli appalti pubblici di lavori, dal beneficio dei meccanismi di lotta contro i ritardi di pagamento previsti dalla direttiva 2000/35, da un lato, contrasterebbe con l’obiettivo di tale direttiva, enunciato al suo considerando 22, secondo cui la stessa deve disciplinare tutte le transazioni commerciali, a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche. Dall’altro lato, una siffatta esclusione avrebbe necessariamente la conseguenza di ridurre l’effetto utile dei suddetti meccanismi, anche rispetto alle transazioni che possono coinvolgere operatori provenienti da diversi Stati membri. In forza di tali argomenti la Corte dichiara che l’articolo 2, punto 1, primo comma, della direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, deve essere interpretato nel senso che un appalto pubblico di lavori costituisce una transazione commerciale che comporta la consegna di merci o la prestazione di servizi, ai sensi di tale disposizione, e rientra quindi nell’ambito di applicazione ratione materiae di tale direttiva.
  • C-92/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/10/2020

    Commissione: X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

     

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dell'articolo 12, paragrafo 3 della direttiva 2004/8/CE sulla promozione della cogenerazione basata su una domanda di calore utile nel mercato interno dell'energia e che modifica la direttiva 92/42/CEE. La domanda è stata presentata dal Consiglio di Stato nell'ambito della controversia tra la società Burgo Group Spa e il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) in merito al rifiuto di quest'ultimo di riconoscere a Burgo Group il beneficio di un regime di sostegno consistente nell'esenzione dall'acquisto obbligatorio dei cosiddetti "certificati verdi". 

    Si ricorda che il decreto legislativo n.79 del 1999 ha introdotto dal 2002, per produttori e importatori di energia elettrica da fonti non rinnovabili, l'obbligo di immettere ogni anno nel sistema elettrico nazionale una quota di energia elettrica da fonti rinnovabili, anche tramite l'acquisto di certificati verdi che ne attestino la produzione da parte di altri soggetti.

    Con riferimento agli impianti di cogenerazione, l'articolo 3 del decreto legislativo n. 20/2007, che ha recepito la direttiva 2004/8/CE, ha stabilito transitoriamente l'equiparazione fino al 31 dicembre 2010 delle due tipologie di impianti, di cogenerazione ad alto rendimento o "CAR" e "semplici" o "non CAR", estendendo anche a questi ultimi, gli incentivi previsti dall'articolo 11 del decreto legislativo n. 79/1999, in particolare l'esenzione dall'acquisto obbligatorio di Certificati Verdi.  

    A partire dal 1° gennaio 2011, cessato il periodo transitorio, il Gestore dei Servizi Energetici. GSE SpA ha ritenuto il regime di sostegno riservato ai soli impianti ad alto rendimento, conformi all'Allegato III della direttiva 2004/8/CE e non più operante la sua estensione agli impianti "non CAR". La società Burgo Group ha chiesto al GSE l'ammissione al beneficio per i propri impianti "non CAR", per gli anni dal 2011 al 2013 e ciascuna domanda è stata respinta.

    Con la sentenza in oggetto, la Corte di Giustizia si è pronunciata per la compatibilità con il diritto dell'UE e con la norma richiamata, di un regime di sostegno a favore di impianti di cogenerazione di energia non ad alto rendimento, c.d. "non CAR", anche una volta esaurito il regime transitorio previsto dal decreto legislativo di recepimento della direttiva 2004/8/CE.  

    Preliminarmente, la Corte ha assicurato che i regimi di sostegno nazionali non sono disciplinati dall'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva, ma dall'articolo 7 della stessa, il quale non si limita ai soli impianti di cogenerazione ad alto rendimento.

    Pertanto, la Corte osserva che gli Stati membri possono prevedere anche in favore di impianti di cogenerazione "non CAR" regimi di sostegno come l'esonero dall'obbligo di acquisto di certificati verdi.

    Quanto alle ulteriori questioni poste dal giudice del rinvio, vale a dire la continuità del sostegno dopo il 31 dicembre 2010, la sentenza conclude che l'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2004/8 deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che permetta ad impianti di cogenerazione non ad alto rendimento, ai sensi di tale direttiva, di continuare a beneficiare, anche dopo tale data, di un regime di sostegno alla cogenerazione che comporti l'esenzione dall'obbligo di acquistare certificati verdi.

  • C-719/18

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/10/2020

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), VII COMMISSIONE (CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza in oggetto verte sulla compatibilità con il diritto dell'Unione europea di una disposizione italiana (art. 43, co. 11 del Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici, TUSMAR, c.d. "legge Gasparri") che ha l'effetto di impedire a una società registrata in un altro Stato membro - i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore - di conseguire nel "sistema integrato delle comunicazioni" (SIC) ricavi superiori al 10% di quelli complessivi del sistema medesimo. La domanda di pronuncia pregiudiziale era stata avanzata dal Tribunale amministrativo del Lazio in sede di decisione sul ricorso proposto da Vivendi contro l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM). Nel 2016, infatti, la società francese Vivendi SA, attiva nel settore dei media e nella creazione e distribuzione di contenuti audiovisivi, aveva stipulato un contratto di partnership strategica con Mediaset e Reti Televisive Italiane SpA, società italiane del medesimo settore controllate dal gruppo Fininvest 1, mediante il quale Vivendi ha acquisito il 3,5% del capitale sociale di Mediaset e il 100% di quello di Mediaset Premium SpA, cedendo in cambio a Mediaset il 3,5% del proprio capitale sociale; in seguito tuttavia, a causa di contrasti sull'esecuzione di tale contratto, Vivendi ha avviato una campagna di acquisizione ostile di azioni di Mediaset, giungendo ad acquisirne il 28,8% del capitale sociale, pari al 29,94% dei diritti di voto. Mediaset ha denunciato Vivendi dinanzi all'AGCOM, accusandola di aver violato la citata disposizione italiana che, allo scopo di salvaguardare il pluralismo dell'informazione, vieta a qualsiasi società i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, anche tramite società controllate o collegate, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel «sistema integrato delle comunicazioni» (SIC) ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo in Italia. Era il caso della società Vivendi, che occupava già una posizione rilevante nel settore italiano delle comunicazioni elettroniche, in virtù del controllo esercitato su Telecom Italia SpA (TIM). Con delibera del 18 aprile 2017 l'AGCOM ha accertato che Vivendi, acquisendo le predette partecipazioni in Mediaset, aveva violato tale disposizione italiana e le ha ordinato di porre fine a tale violazione. Pur ottemperando all'ordine dell'AGCOM, trasferendo ad una società terza la titolarità del 19,19% delle azioni di Mediaset, Vivendi ha adito il TAR Lazio chiedendo l'annullamento di tale delibera. Il TAR ha dunque sospeso il procedimento e domandato alla Corte di giustizia di chiarire la portata dei principi di libertà di stabilimento (art. 49 TFUE), libera prestazione dei servizi (art. 56 TFUE) e libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE) rispetto alla disciplina sottesa alla decisione di AGCOM. La Corte di Giustizia procede in primo luogo dalla riconduzione della vicenda in esame al diritto di stabilimento, in quanto l'acquisizione di partecipazioni minoritarie che consentono di esercitare una sicura influenza sulle decisioni di una società e di determinarne le attività esula dall'ambito di applicazione della disciplina sulla libera circolazione dei capitali (ex art 63 TFUE), che secondo una giurisprudenza costante del giudice europeo riguarda acquisizioni di partecipazioni effettuate al solo scopo di realizzare un investimento finanziario, senza intenzione di influire sulla gestione e sul controllo dell'impresa interessata. Dunque la Corte si sofferma sulla possibilità di valutare la normativa nazionale, che limita il diritto di acquisire una simile partecipazione nel sistema integrato delle comunicazioni, quale una restrizione della libertà di stabilimento vietata dal Trattato: la Corte ribadisce, infatti, che l'articolo 49 TFUE osta a qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l'esercizio, da parte dei cittadini dell'Unione, della libertà di stabilimento sancita dal TFUE. Tale appare la disposizione italiana che vieta a Vivendi di mantenere le partecipazioni acquisite in Mediaset o detenute in Telecom Italia, obbligandola quindi a porre fine a tali partecipazioni, nell'una o nell'altra di tali imprese, nella misura in cui eccedevano le soglie previste. La Corte osserva tuttavia che una restrizione siffatta alla libertà di stabilimento può, in linea di principio, essere giustificata da un motivo imperativo di interesse generale, quale la tutela del pluralismo dell'informazione e dei media, per l'importanza che riveste in una società democratica e pluralista, purché però la misura nazionale restrittiva sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non ecceda quanto necessario per raggiungerlo. La normativa italiana deve pertanto essere sottoposta a un giudizio di proporzionalità per verificare se sia atta e necessaria al perseguimento del pluralismo dei media, e se quest'ultimo scopo non potrebbe essere raggiunto attraverso divieti o limitazioni di minore portata o che colpiscano in minor misura l'esercizio della libertà di stabilimento. L'onere di dimostrare che detta disposizione sia conforme al principio di proporzionalità rimane in capo alle autorità nazionali. Ebbene la Corte, richiamando una propria precedente sentenza (del 13 giugno 2019 nella causa C-193/18), in cui si stabilisce una chiara distinzione tra produzione e trasmissione di contenuti, osserva che le imprese, operanti nel settore delle comunicazioni elettroniche, che esercitano un controllo sulla trasmissione dei contenuti audiovisivi, non necessariamente esercitano un controllo sulla produzione di tali contenuti e rileva che la disposizione italiana non fa riferimento né si applica specificamente ai collegamenti tra la produzione e la trasmissione dei contenuti, ponendo invece un divieto assoluto ai soggetti i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo. Né il fatto di conseguire o meno ricavi equivalenti al 10% dei ricavi complessivi del SIC appare di per sé indicativo di un rischio di influenza sul pluralismo dei media. La Corte rileva, inoltre, che la norma italiana definisce in modo troppo restrittivo il perimetro del settore delle comunicazioni elettroniche, escludendo ingiustificatamente mercati che rivestono un'importanza crescente per la trasmissione di informazioni, come i servizi al dettaglio di telefonia mobile o altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet, nonché i servizi di radiodiffusione satellitare, divenuti la principale via di accesso ai media: ciò determina una sopravvalutazione del potere di mercato detenuto da un'impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche e, simultaneamente, diminuisce le sue possibilità di partecipare al settore dei media audiovisivi, rendendo in tal modo più difficile il suo insediamento in Italia. Infine, la Corte constata che nell'ambito del calcolo dei ricavi realizzati da un'impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche o nel SIC, equiparare la situazione di una «società controllata» a quella di una «società collegata», non appare conciliabile con l'obiettivo perseguito dalla disposizione in questione: infatti, giacché il collegamento è presunto dalla titolarità di almeno un quinto dei diritti di voto nell'assemblea della società collegata (ex art. 2359, co. 3 c.c.), tale circostanza non vale di per sé a dimostrare che la prima società possa concretamente esercitare sulla seconda un'influenza tale da pregiudicare il pluralismo dei media e dell'informazione. La Corte ne conclude che la disposizione italiana, fissando una limitazione generale ed astratta fondata su soglie che non consentono di determinare se e in quale misura un'impresa possa effettivamente influire sul contenuto dei media, non presenta un nesso sufficiente con l'esigenza di prevenire il rischio di compromissione del pluralismo dei media. In definitiva, nella misura in cui risulta inidonea a conseguire l'obiettivo di interesse generale di tutela del pluralismo dell'informazione, la normativa italiana è incompatibile con il diritto di stabilimento sancito dall'art. 49 TFUE.

  • C-686/18

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    Assegnata in data: 02/09/2020

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza della CGUE verte sull’interpretazione dell’articolo 29 del Regolamento (UE) n. 575/2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, nel combinato disposto con l’articolo 10 del Regolamento delegato (UE) n. 241/2014: in particolare, la Corte si pronuncia sulla compatibilità con dette norme europee di una disciplina nazionale, quale quella dettata dall’art. 28 TUB (d. lgs. 385/1993) come attuato dalla Banca d’Italia con il 9º aggiornamento della circolare n. 285/2013, che consente alle banche popolari o alle banche di credito cooperativo di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, in considerazione della propria situazione prudenziale, il rimborso delle azioni e degli strumenti di capitale nei casi di recesso, esclusione o morte del socio, al fine di assicurare che gli strumenti di capitale emessi da tali banche siano considerati strumenti di capitale primario di classe 1. Tali strumenti sono infatti parte di quella quota di fondi propri della banca, denominata capitale di classe 1, che le consente di proseguire le sue attività e ne mantiene la solvibilità. La sentenza si esprime inoltre sulla possibilità di qualificare una normativa nazionale che detta restrizioni al diritto al rimborso delle azioni quale una limitazione (ex art. 52 Carta dei diritti fondamentali dell’UE-CDFUE) dei diritti di libera intrapresa e di proprietà, protetti rispettivamente dagli articoli 16 e 17 CDFUE. Infine la pronuncia chiarisce se l’interpretazione degli art. 63 e ss. TFUE, i quali disciplinano la libertà di movimento dei capitali, osti all’introduzione da parte degli Stati membri di una normativa che fissa una soglia di attivo per l’esercizio di attività bancarie da parte di banche popolari stabilite in tale Stato membro e costituite in forma di società cooperative per azioni a responsabilità limitata, al di sopra della quale tali banche sono obbligate a trasformarsi in società per azioni, a ridurre l’attivo al di sotto di detta soglia o a procedere alla loro liquidazione: la Corte risponde, nello specifico, alla domanda pregiudiziale posta dal Consiglio di Stato attorno alla compatibilità con il diritto dell’UE dell’art. 29 del decreto legislativo n. 385/1993 (TUB), il quale dispone che l’attivo della banca popolare non può superare 8 miliardi di euro e impone, in caso di superamento di tale soglia, la trasformazione in spa o la liquidazione della società. Non ricevibile è stata invece ritenuta la questione, posta dal giudice nazionale, circa la compatibilità di detta soglia con la disciplina in materia di aiuti di stato dettata dagli artt. 107 TFUE e ss., per l’impossibilità di individuare un collegamento sufficiente tra tali disposizioni del diritto dell’UE e la normativa nazionale. Il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE è stato operato dal Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in sede di appello sul fondamento dei ricorsi proposti da alcuni cittadini insieme ad Adusbef e Federconcusmatori avverso il 9º aggiornamento della circolare n. 285/2013 di Banca d’Italia che ha consentito alle banche popolari di limitare o rinviare il rimborso delle azioni, in occasione della trasformazione in spa, deliberata (art. 29, co. 2-ter TUB) in ottemperanza all’art. 1, co. 2 d.l. n. 3/2015 conseguentemente al superamento della soglia di attivo compatibile con la forma societaria di soc. coop. per azioni, fissata dalla legge in 8 miliardi di euro. La Corte ha pertanto evidenziato che risulta dal dato testuale dell’art. 29 del regolamento 575/2013 la facoltà delle banche popolari e di credito cooperativo di rinviare il rimborso degli strumenti di capitale e di limitarne l’importo per un periodo illimitato, vale a dire per tutto il tempo e nella misura in cui ciò sia necessario alla luce della loro situazione prudenziale, considerando in particolare la situazione generale in termini finanziari, di liquidità e di solvibilità nonché l’importo del capitale primario di classe 1 rispetto al capitale complessivo: pertanto l’articolo 29 del regolamento n. 575/2013 e l’articolo 10 del regolamento delegato n. 241/2014 non ostano alla normativa di uno Stato membro che consente a dette banche di rinviare per un periodo illimitato il rimborso delle azioni del socio recedente, laddove ciò sia necessario ad assicurare che gli strumenti di capitale emessi da tali banche siano considerati strumenti di capitale primario di classe 1. Inoltre la Corte ha riconosciuto che una normativa nazionale quale quella introdotta nell’ordinamento italiano, benché costituisca una limitazione del diritto di proprietà (art. 17 CDFUE) e, potenzialmente, del diritto di impresa (art. 16 CDFUE) del socio recedente, deve essere considerata legittima. La giurisprudenza della Corte è infatti costante nell’affermare che la libertà di impresa non costituisce una prerogativa assoluta, essendo soggetta a un ampio ventaglio di interventi dei poteri pubblici atti a stabilire, nell’interesse generale, limiti all’esercizio dell’attività economica, né la tutela del diritto di proprietà può prevalere su restrizioni, proporzionate e necessarie, che perseguono obiettivi di interesse generale. Giacché dunque la normativa in questione risponde effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione (ai sensi dell’art. 52 CDFUE), in quanto è volta a perseguire la stabilità del sistema bancario e finanziario prevenendo un rischio sistemico, mediante l’adeguamento tra la forma giuridica e le dimensioni delle banche popolari, nonché il rispetto delle regole prudenziali dell’Unione che disciplinano l’esercizio dell’attività bancaria, la limitazione che apporta alla libertà di impresa e al diritto di proprietà appare pienamente legittima. L’argomento della Corte è tale per cui la prevenzione del rischio sistemico rappresenta un motivo sufficiente di giustificazione per misure nazionali che restringano la libera iniziativa economica e il diritto di proprietà. Dal momento che, infatti, la restrizione del diritto di rimborso da parte della banca popolare è finalizzata ad assicurare la computabilità degli strumenti di capitale da essa emessi come strumenti di capitale primario di classe 1, la Corte ritiene che una simile normativa, lungi dal compromettere il contenuto essenziale dei diritti di proprietà e di iniziativa economica, consente di arginare la circostanza che l’investimento nel capitale primario di una banca sia improvvisamente ritirato e, in tal modo, di evitare di esporre detta banca nonché l’intero settore bancario a un’instabilità prudenziale. In effetti, come ha sottolineato il giudice di Lussemburgo, le banche sono spesso interconnesse e molte di loro esercitano le loro attività a livello internazionale, quindi la grave difficoltà di una o più banche rischia di propagarsi rapidamente alle altre e ciò rischia a sua volta di produrre ricadute negative in altri settori dell’economia Pertanto tale limitazione risulta compatibile con il diritto dell’Unione europea, purché sia conforme al principio di proporzionalità, ovverosia se non eccede quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale delle banche interessate, con riferimento particolare alla loro liquidità e solvibilità. Analogamente, la CGUE ha stabilito che l’art. 63 TFUE deve essere interpretato nel senso che una misura nazionale, quale quella italiana, che fissa una soglia di attivo per l’esercizio dell’attività bancaria da parte delle banche popolari, sebbene possa limitare l’importanza dell’attività economica esercitata da tali banche e, perciò, dissuadere gli investitori nell’acquisizione di partecipazioni, costituisce una restrizione ai movimenti di capitali tra Stati membri giustificata in ragione del perseguimento di obiettivi di interesse generale, a condizione che la soglia di attivo fissata da tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione di tali obiettivi e non ecceda quanto necessario per il loro raggiungimento.
  • C-496/19

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    Assegnata in data: 02/09/2020

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione dell’articolo 78 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario. Il procedimento principale è sorto a seguito del rigetto, da parte dell’Ufficio doganale di Salerno, di due domande presentate da Antonio Capaldo S.p.A al fine di ottenere, da un lato, la revisione delle sue dichiarazioni in dogana e, dall’altro, il rimborso delle somme che, a suo avviso, non avrebbe dovuto versare a titolo di dazi doganali e di imposta sul valore aggiunto se fosse stato attribuito il codice tariffario proposto dalla parte ricorrente. Nel corso del 2011, la ricorrente ha importato merci dalla Cina chiedendo che fosse rivisto il regime tariffario delle aliquote in senso più favorevole. Tale richiesta è stata rigettata. La ricorrente quindi ha presentato appello avverso tale decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania che ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale con cui si chiede se l’articolo 78 del codice doganale debba essere interpretato nel senso che esso osta a un’eventuale revisione della dichiarazione in dogana qualora la merce sia stata sottoposta, in occasione di una precedente importazione e senza contestazione, a una verifica fisica che abbia confermato la sua classificazione doganale. Nella sua sentenza la Corte afferma che l’articolo 78 del codice doganale non contiene alcuna limitazione né per quanto riguarda la possibilità per l’autorità doganale di reiterare una revisione o un controllo a posteriori (paragrafi 1 e 2), né in relazione all’adozione, da parte di tale autorità, delle misure necessarie per regolarizzare la situazione (paragrafo 3). Per questi motivi, la Corte dichiara che l’articolo 78 del regolamento (CEE) n. 2913/92 deve essere interpretato nel senso che esso non osta all’avvio della procedura di revisione della dichiarazione in dogana da esso prevista, anche qualora la merce di cui trattasi sia stata sottoposta, in occasione di una precedente importazione e senza contestazione, a una verifica fisica che abbia confermato la sua classificazione doganale.
  • C-411/19

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    Assegnata in data: 02/09/2020

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 6 della Direttiva 92/43/CEE, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche. La domanda è stata presentata in merito alla legittimità della delibera del 1 dicembre 2017, con la quale il Consiglio dei Ministri ha adottato il provvedimento di compatibilità ambientale del progetto preliminare di collegamento stradale a nord di Roma (Italia), secondo il «tracciato verde», tra Monte Romano Est (Italia) e Tarquinia Sud (Italia), e della delibera del 28 febbraio 2018, con la quale il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) ha approvato tale progetto preliminare. Il progetto preliminare era stato oggetto di un parere negativo della commissione del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare preposta alla valutazione ambientale, con la motivazione della mancanza di uno studio approfondito dell’incidenza ambientale e del coinvolgimento di un sito di importanza comunitaria, inserito nella rete di aree protette Natura 2000, la zona “Fiume Mignone (basso corso)”. Secondo la Corte di Giustizia, la normativa dello Stato membro che consente di superare il parere negativo dell’autorità competente in materia ambientale, in merito alla realizzazione di un’opera infrastrutturale, di rilevante interesse nazionale e che coinvolga un’area naturale protetta, è compatibile con il diritto europeo e in particolare con la citata direttiva 92/43/CEE. In particolare, la sesta sezione della Corte ha dichiarato che: 1) l’articolo 6 della direttiva 92/43/CEE del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali della flora e della fauna selvatiche, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che consente la prosecuzione, per imperativi motivi di interesse pubblico, della procedura di autorizzazione di un piano o di un progetto la cui incidenza su una zona speciale di conservazione non possa essere mitigata e sul quale l’autorità pubblica competente abbia già espresso parere negativo, a meno che non esista una soluzione alternativa che comporta minori inconvenienti per l’integrità della zona interessata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare; 2) qualora un piano o un progetto abbia formato oggetto, in applicazione dell’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43, di una valutazione negativa quanto alla sua incidenza su una zona speciale di conservazione e lo Stato membro interessato abbia comunque deciso, ai sensi del paragrafo 4 di detto articolo, di realizzarlo per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, l’articolo 6 di tale direttiva deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente che detto piano o progetto, dopo la sua valutazione negativa ai sensi del paragrafo 3 di detto articolo e prima della sua adozione definitiva in applicazione del paragrafo 4 del medesimo, sia completato con misure di mitigazione della sua incidenza su tale zona e che la valutazione di detta incidenza venga proseguita. L’articolo 6 della direttiva 92/43 non osta invece, nella stessa ipotesi, a una normativa che consente di definire le misure di compensazione nell’ambito della medesima decisione, purchè siano soddisfatte anche le altre condizioni di attuazione dell’articolo 6, paragrafo 4, di tale direttiva; 3) la direttiva 92/43 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che prevede che il soggetto proponente realizzi uno studio sull’incidenza del piano o del progetto di cui trattasi sulla zona speciale di conservazione interessata, sulla base del quale l’autorità competente procede alla valutazione di tale incidenza. Tale direttiva osta invece a una normativa nazionale che consente di demandare al soggetto proponente di recepire, nel piano o nel progetto definitivo, prescrizioni, osservazioni e raccomandazioni di carattere paesaggistico e ambientale dopo che quest’ultimo abbia formato oggetto di una valutazione negativa da parte dell’autorità competente, senza che il piano o il progetto così modificato debba costituire oggetto di una nuova valutazione da parte di tale autorità; 4) La direttiva 92/43 dev’essere interpretata nel senso che essa, pur lasciando agli Stati membri il compito di designare l’autorità competente a valutare l’incidenza di un piano o di un progetto su una zona speciale di conservazione nel rispetto dei criteri enunciati dalla giurisprudenza della Corte, osta invece a che una qualsivoglia autorità prosegua o completi tale valutazione, una volta che quest’ultima sia stata realizzata.
  • C-28/19

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    Assegnata in data: 12/05/2020

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull’interpretazione del regolamento (CE) n. 1008/2008, recante norme comuni per la prestazione di servizi aerei, con riguardo all’applicazione di supplementi di prezzo e relativa imposizione dell’Iva, e oneri di web check-in. Nel 2011, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust (Italia) (AGCM) ha contestato a Ryanair di aver pubblicato sul proprio sito Internet dei prezzi del servizio aereo che non indicavano, sin dalla loro prima visualizzazione, i seguenti elementi: 1) l’importo dell’IVA per i voli nazionali, 2) gli oneri di web check-in e 3) le tariffe applicate in caso di pagamento con una carta di credito diversa da quella prescelta da Ryanair. L’AGCM ha ritenuto tali elementi del prezzo inevitabili e prevedibili e che il consumatore ne dovesse essere informato sin dalla prima indicazione del prezzo, ossia ancor prima del processo di prenotazione e ha pertanto irrogato ammende a Ryanair per pratica commerciale sleale. Ryanair ha adito il giudice amministrativo italiano per ottenere l’annullamento della decisione dell’AGCM. Il ricorso è stato respinto in primo grado, quindi Ryanair ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato italiano. Quest’ultimo ha chiesto alla Corte di giustizia se, alla luce del citato regolamento sulla prestazione dei servizi aerei, gli elementi di prezzo di cui trattasi siano inevitabili e prevedibili e debbano pertanto essere inclusi nella pubblicazione dell’offerta iniziale. Con la sentenza in oggetto la Corte di giustizia dell’UE ha richiamato la propria giurisprudenza, ovvero le sentenze del 6 luglio 2017, causa C-290/16, Air Berlin; del 18 settembre 2014, causa C-487/12, Vueling Airlines; e del 19 luglio 2012, causa C-112/11, ebookers.com Deutschland. Secondo le sentenze ricordate un vettore aereo ha l’obbligo di far figurare nelle sue offerte on line, sin dalla prima indicazione del prezzo (ossia nell’offerta iniziale) la tariffa passeggeri nonché, separatamente, le tasse, i diritti ed i supplementi inevitabili e prevedibili. Per contro, è soltanto all’inizio del processo di prenotazione che esso deve comunicare i supplementi di prezzo opzionali in modo chiaro e trasparente. Per quanto riguarda gli oneri di web check-in, la Corte ritiene che, quando sussiste almeno un’opzione di check-in gratuito (come il check-in effettuato in aeroporto), tali oneri debbano essere qualificati come supplementi di prezzo opzionali e, pertanto, non debbano necessariamente essere indicati nell’offerta iniziale. Ove invece il vettore aereo proponga una o più modalità di check-in a pagamento – esclusa, quindi, qualsiasi modalità di check-in gratuito – gli oneri di web check-in devono essere considerati come elementi di prezzo inevitabili e prevedibili che devono essere visualizzati nell’offerta iniziale. Per quanto concerne l’IVA applicata ai supplementi facoltativi per i voli nazionali, la Corte afferma che si tratta di un supplemento di prezzo opzionale, al contrario dell’IVA applicata alle tariffe dei voli nazionali, la quale deve essere indicata nell’offerta iniziale. Infine, la Corte rileva che la tariffa applicata per il pagamento con carta di credito diversa da quella prescelta dal vettore aereo costituisce un elemento di prezzo inevitabile e prevedibile che deve quindi essere visualizzato nell’offerta iniziale. Se il carattere prevedibile di tale tariffa è riconducibile alla politica del vettore aereo in materia di modalità di pagamento, il suo carattere inevitabile trova piuttosto una spiegazione nel fatto che l’apparente scelta lasciata ai consumatori (utilizzare o meno la carta di credito prescelta dal vettore aereo) dipende in realtà da una condizione imposta dallo stesso vettore, con la conseguenza che la gratuità del servizio di cui trattasi è riservata a beneficio di una cerchia ristretta di consumatori privilegiati, mentre gli altri consumatori devono o rinunciare alla gratuità di tale servizio o rinunciare a una conclusione del loro acquisto nell’immediato ed effettuare operazioni potenzialmente costose per poter soddisfare la condizione richiesta, con il rischio, una volta effettuate dette operazioni, di non poter più beneficiare dell’offerta o di non poterne più beneficiare al prezzo inizialmente indicato.

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