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Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE

La sezione raccoglie gli estremi delle sentenze della Corte di Giustizia dell'Unione europea (CGUE) che, dal mese di dicembre 2011, a seguito della loro pubblicazione sul sito della medesima, sono state trasmesse alle Camere dal Governo (Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri) e assegnate alle Commissioni parlamentari competenti per materia ai fini di un loro possibile esame, ai sensi dell'articolo 127-bis del Regolamento della Camera dei deputati.

Si tratta delle sentenze in cui lo Stato italiano o altro ente pubblico territoriale italiano sono parte - anche interveniente - nella causa dinanzi alla CGUE e delle sentenze relative a procedimenti avviati a seguito di rinvio pregiudiziale da parte di un'autorità giudiziaria italiana. Attraverso uno specifico collegamento ipertestuale è possibile consultare il testo integrale di ciascuna sentenza.
 

  • C-304/21

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    Assegnata in data: 27/12/2022

    Commissione: I COMMISSIONE (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dell'articolo 3 TUE, dell'articolo 10 TFUE nonché dell'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (di seguito, la Carta) ed è stata proposta nell'ambito di una controversia tra, da un lato, VT e, dall'altro, il Ministero dell'Interno (Italia) e il Ministero dell'Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione centrale per le risorse umane (Italia) in merito alla decisione di non ammettere la partecipazione di VT a un concorso organizzato per il conferimento di posti di commissario della Polizia di Stato, avendo egli raggiunto il limite massimo di età previsto a tal fine.

     

    Quanto ai fatti, il 2 dicembre 2019 il Ministero dell'Interno indiceva un concorso per titoli ed esami per il conferimento di 120 posti di commissario della Polizia di Stato, il cui bando, fra i requisiti generali di ammissione al concorso, prevedeva che i candidati dovessero aver compiuto il 18° anno di età e non aver compiuto il 30° anno di età, salve ipotesi particolari. VT, siccome non soddisfaceva il requisito di età richiesto (in quanto nato nel 1988 e, dunque, avendo già compiuto i trent'anni e non rientrando in alcuna delle ipotesi particolari nelle quali il limite di età è aumentato), non riusciva a presentare la propria candidatura e, pertanto, proponeva ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che, dopo averlo ammesso con riserva a partecipare a tale concorso (di cui successivamente superava le prove preselettive), lo rigettava, con la motivazione che il limite di età menzionato costituiva una «limitazione ragionevole» e che, in questo senso, esso non era contrario né alla Costituzione della Repubblica italiana né alla normativa europea che vieta le discriminazioni anche sulla base dell'età, in particolare la direttiva 2000/78.

     

    Ai sensi dell'articolo 1, quest'ultima stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate, tra l'altro, sull'età per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, mirando così a rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento, per il quale, ai sensi dell'articolo 2 della medesima direttiva, si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'articolo 1.

    Fatto salvo ciò, all'articolo 4 la direttiva citata prevede che gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all'articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, la caratteristica in questione costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.

    L'articolo 6, poi, stabilisce che gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

     

    VT proponeva appello avverso tale sentenza dinanzi al Consiglio di Stato, adducendo il contrasto delle norme che prevedono il limite di età di cui trattasi sia con il diritto dell'Unione sia con la Costituzione della Repubblica italiana e altre disposizioni del diritto italiano.

    Riscontrando, ai sensi dell'articolo 2 della direttiva 2000/78, la sussistenza di una discriminazione basata sull'età, non giustificata alla luce degli articoli 4 e 6 della direttiva medesima, detto giudice affermava che, dalla lettura dell'articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n. 334/2000, disciplinante le funzioni di commissario di polizia, emergesse in modo evidente che le funzioni del commissario di polizia sono essenzialmente direttive e di carattere amministrativo, le disposizioni nazionali applicabili non prevedendo come essenziali funzioni operative di tipo esecutivo che, come tali, richiedono capacità fisiche particolarmente significative.

    In tale contesto, adducendo peraltro ulteriori argomenti corroboranti il carattere sproporzionato del detto limite di età, il Consiglio di Stato decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale: se la direttiva 2000/78, l'articolo 3 del TUE, l'articolo 10, TFUE e l'articolo 21 della Carta vadano interpretati nel senso di ostare alla normativa nazionale contenuta nel decreto legislativo n. 334/2000 e successive modifiche e integrazioni e nelle fonti di rango secondario adottate dal Ministero dell'Interno, la quale prevede un limite di età pari a trent'anni nella partecipazione ad una selezione per posti di commissario della carriera dei funzionari della Polizia di Stato.

     

    La Corte ha, anzitutto, precisato che con la sua questione il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se l'articolo 2, paragrafo 2, l'articolo 4, paragrafo 1, e l'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, letti alla luce dell'articolo 21 della Carta, debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che prevede la fissazione di un limite massimo di età a trent'anni per la partecipazione a un concorso diretto ad assumere commissari di polizia.

    In primo luogo, dal momento che l'articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 specifica che sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1 della direttiva stessa, una persona è trattata in modo meno favorevole di un'altra che versi in una situazione analoga, la Corte di giustizia ha ritenuto che, nel caso di specie, tale tipo di discriminazione sussista, in quanto il requisito dell'età previsto all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 334/2000 ha l'effetto di riservare a talune persone, per il solo fatto di aver compiuto trent'anni di età, un trattamento meno favorevole di altre che versano in situazioni analoghe.

    Stabilito ciò, la Corte ha proceduto a verificare se la riscontrata disparità di trattamento possa essere giustificata alla luce dell'articolo 4, paragrafo 1, o dell'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

    Con riferimento all'articolo 4, paragrafo 1, essa ha statuito che spetterà al giudice del rinvio, che è il solo competente a interpretare la normativa nazionale applicabile, determinare quali siano le funzioni effettivamente esercitate dai commissari della Polizia di Stato e, alla luce di queste ultime, stabilire se il possesso di capacità fisiche particolari sia un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, tenendo conto delle funzioni effettivamente esercitate in maniera abituale dai commissari nello svolgimento delle loro mansioni ordinarie. Qualora constati che il possesso di capacità fisiche particolari non è un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, il giudice del rinvio dovrà concludere nel senso che l'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, letto in combinato disposto con l'articolo 2, paragrafo 2, della medesima, osta alla normativa di cui trattasi nel procedimento principale. Per contro, qualora constati che il possesso di capacità fisiche particolari costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, il giudice del rinvio dovrà poi verificare se il limite di età di cui trattasi persegua una finalità legittima e se sia proporzionato, ai sensi del richiamato articolo 4, paragrafo 1.

    Ciò posto, con riferimento al carattere proporzionato di tale normativa, la Corte ha rammentato che, in base al considerando 23 della direttiva 2000/78, è in «casi strettamente limitati» che una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata, segnatamente, all'età costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa. Ha aggiunto inoltre che, in quanto consente di derogare al principio di non discriminazione, l'articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva deve essere interpretato restrittivamente.

    Dopo aver richiamato la sua giurisprudenza sul punto, la Corte di giustizia ha precisato che, al fine di determinare se, fissando il limite massimo di età a trent'anni per la partecipazione a un concorso diretto ad assumere commissari di polizia, la normativa di cui trattasi nel procedimento principale abbia imposto un requisito proporzionato, il giudice del rinvio dovrà, innanzitutto, verificare se le funzioni effettivamente esercitate da tali commissari di polizia siano essenzialmente funzioni operative o esecutive che richiedono capacità fisiche particolarmente elevate. Infatti, è solo in quest'ultima ipotesi che tale limite massimo di età potrebbe essere considerato proporzionato.

    Riscontrando che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale sembra inferirsi che i commissari della Polizia di Stato non esercitino siffatte funzioni, e considerando una serie di ulteriori circostanze evidenziate dal ricorrente principale e dal giudice del rinvio per convalidare il carattere sproporzionato del limite di età di cui trattasi, facendo salve le verifiche spettanti al giudice del rinvio, la Corte ha affermato che, nella misura in cui le funzioni effettivamente esercitate dai commissari della Polizia di Stato richiedano capacità fisiche particolari, la fissazione del limite massimo di età a trent'anni previsto all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 334/2000 costituisce un requisito sproporzionato, alla luce dell'articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

     

    Con riferimento all'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, la Corte ha rilevato che la questione relativa alla giustificabilità della disparità di trattamento introdotta dalla normativa di cui trattasi nel procedimento principale alla luce di tale disposizione dovrà essere esaminata solo laddove la medesima disparità non possa giustificarsi in forza dell'articolo 4, paragrafo 1. In questa ipotesi, si dovrebbe verificare se la condizione relativa all'età massima di trent'anni per partecipare a un concorso diretto ad assumere commissari di polizia sia giustificata da una finalità legittima e se i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

    Precisando che le finalità da ritenersi «legittime» ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 e conseguentemente atte a giustificare una deroga al principio del divieto delle discriminazioni fondate sull'età sono le finalità rientranti nella politica sociale, la Corte ha affermato che, nella misura in cui il limite di età istituito dalla normativa in esame possa considerarsi basato sulla formazione richiesta per il lavoro in questione o sulla necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento, tali finalità potrebbero giustificare la disparità di trattamento di cui trattasi nel procedimento principale, qualora essa sia «oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell'ambito del diritto nazionale. Anche nella siffatta ipotesi occorrerebbe, comunque, esaminare se i mezzi impiegati per il conseguimento di dette finalità siano appropriati e necessari.

    A tale proposito la Corte ha dichiarato, da un lato, di non disporre di elementi che le consentano di ritenere che il limite di età in questione sia appropriato e necessario tenuto conto della finalità di garantire la formazione dei commissari di polizia; dall'altro, ha affermato che una normativa nazionale che fissa un simile limite di età non può, in linea di principio, essere considerata come necessaria al fine di garantire ai commissari interessati un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento, in particolare se il giudice del rinvio dovesse confermare, all'esito dell'esame di tutti gli elementi pertinenti, che le funzioni dei commissari di polizia non comportano essenzialmente compiti impegnativi sul piano fisico che i commissari di polizia assunti a un'età più avanzata non sarebbero in grado di realizzare per un periodo sufficientemente lungo.

    In tali circostanze, salva conferma da parte del giudice del rinvio, la disparità di trattamento risultante da una disposizione come l'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 334/2000 non può, secondo la Corte di giustizia, essere giustificata ai sensi dell'articolo 6, paragrafo 1, secondo comma, lettera c), della direttiva 2000/78.

     

    Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) ha dichiarato che:

    l'articolo 2, paragrafo 2, l'articolo 4, paragrafo 1, e l'articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, letti alla luce dell'articolo 21 della Carta, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che prevede la fissazione di un limite massimo di età a trent'anni per la partecipazione a un concorso diretto ad assumere commissari di polizia, allorché le funzioni effettivamente esercitate da tali commissari di polizia non richiedono capacità fisiche particolari o, qualora siffatte capacità fisiche siano richieste, se risulta che una tale normativa, pur perseguendo una finalità legittima, impone un requisito sproporzionato, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

  • C-68/21

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    Assegnata in data: 29/11/2022

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull'interpretazione dell'articolo 3, punto 27, e degli articoli 10, 19 e 28 della direttiva 2007/46/CE, che istituisce un quadro per l'omologazione dei veicoli a motore e dei loro rimorchi, nonché dei sistemi, componenti ed entità tecniche destinati a tali veicoli e degli articoli 60 e 62 della direttiva 2014/25/UE sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CE. Le domande sono state presentate nell'ambito di due controversie tra la Iveco Orecchia Spa e, rispettivamente, la APAM Esercizio Spa (C68/21) e la Brescia Trasporti Spa (C-84/21) in merito a due appalti pubblici aggiudicati da queste ultime. Con riguardo alla prima controversia, si ricorda che l'impresa pubblica di trasporto pubblico locale di Mantova, APAM, nel 2018 indiceva una gara per la fornitura di "ricambi nuovi originaIi Iveco o equivalenti per autobus", vinta dalla Veneta Servizi International Srl (VSI). Contro tale aggiudicazione la Iveco Orecchia, seconda classificata, presentava ricorso presso il Tribunale amministrativo della regione Lombardia, deducendo che la VSI avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara a causa dell'incompletezza dell'offerta da essa presentata, giacché non aveva prodotto i certificati di omologazione o di conformità dei propri ricambi, né i documenti tecnici la cui presentazione era prevista, a pena di esclusione, dal disciplinare, ma si era limitata a presentare una semplice autocertificazione della loro equivalenza, dichiarandosi fabbricante e costruttore dei ricambi, pur essendo un mero commerciante di questi ultimi. Avendo ritenuto sufficiente la presentazione di una simile certificazione, il giudice amministrativo respingeva il ricorso. La Iveco Orecchia proponeva dunque appello contro tale sentenza dinanzi al Consiglio di Stato. Quanto ai fatti di cui alla seconda controversia, l'impresa pubblica di trasporto pubblico locale di Brescia, la Brescia Trasporti, nel 2018 indiceva una procedura di gara per la "fornitura di ricambi autobus di marca Iveco e con motore Iveco", aggiudicando il relativo appalto alla VAR Srl. Anche in questo caso, contro tale decisione la Iveco Orecchia, seconda classificata, presentava ricorso presso il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, ritenendo che la VAR avrebbe dovuto essere esclusa dal bando di gara a causa dell'incompletezza dell'offerta presentata, non avendo fornito, per i pezzi di ricambio di qualità equivalente proposti, certificati del costruttore che ne attestassero l'equivalenza. A fronte del rigetto di tale ricorso, la Iveco Orecchia proponeva appello dinanzi al Consiglio di Stato. Nel riconoscere che il principio secondo cui, nell'ambito di una gara d'appalto, sono ammessi prodotti equivalenti è volto a salvaguardare la libera concorrenza e la parità di trattamento tra gli offerenti, ma rilevando anche che la vendita di ricambi soggetti ad omologazione, soprattutto se possono compromettere la sicurezza dei veicoli o le prestazioni ambientali, sarebbe consentita solo se gli stessi sono stati omologati ed autorizzati dall'autorità di omologazione, il Consiglio di Stato ha riscontrato che, nelle procedure di gara di cui ai procedimenti principali, la normativa menzionata nel bando e relativa alla documentazione che gli offerenti dovevano fornire avrebbe richiesto la produzione del certificato di omologazione, laddove tale omologazione fosse stata obbligatoria. Nel caso di specie, tuttavia, gli aggiudicatari degli appalti avrebbero fornito, e le amministrazioni aggiudicatrici avrebbero accettato, come prova alternativa dell'equivalenza agli originali dei componenti di ricambio offerti, una dichiarazione dell'offerente non corredata dal certificato di omologazione richiesto o da altra documentazione tecnica equipollente. Detto giudice ha quindi sospeso i due procedimenti principali e sottoposto alla Corte di giustizia due questioni pregiudiziali, formulate in modo identico in ciascuno di essi.   Con la prima questione, suddivisa in due parti, il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se l'articolo 10, paragrafo 2, l'articolo 19, paragrafo 1, e l'articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2007/46 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che un'amministrazione aggiudicatrice possa accettare, nell'ambito di una gara d'appalto avente ad oggetto la fornitura di componenti di ricambio per autobus destinati al servizio pubblico, un'offerta con cui vengono proposti componenti rientranti nell'ambito di applicazione degli atti normativi di cui all'allegato IV alla direttiva 2007/46, non accompagnata da un certificato che attesti l'omologazione di tali componenti di ricambio né da informazioni sull'effettiva esistenza di tale omologazione o se, in considerazione degli articoli 60 e 62 della direttiva 2014/25, una dichiarazione di equivalenza con i pezzi originali omologati, rilasciata dall'offerente, sia sufficiente a consentire l'accettazione in parola. In merito a tale primo profilo della questione, la Corte ricorda in particolare che l'obiettivo principale della legislazione in materia di omologazione dei veicoli è assicurare che i veicoli nuovi, i componenti e le entità tecniche immessi in commercio forniscano un elevato livello di sicurezza e di protezione dell'ambiente e che, mediante l'omologazione CE del componente, lo Stato membro interessato certifica, in base all'articolo 3, punto 5, della direttiva 2007/46, che tale componente è conforme alle disposizioni amministrative e alle prescrizioni tecniche pertinenti di tale direttiva e degli atti normativi elencati nei suoi allegati, confermando altresì che tale componente fornisce un elevato livello di sicurezza e di protezione dell'ambiente. Con riferimento alla seconda parte della prima questione, la Corte esplicita altresì le differenze tra le nozioni di "omologazione" e di "equivalenza": l'omologazione certifica, a seguito dei controlli appropriati effettuati dalle autorità competenti, che, per quanto riguarda un'omologazione CE di componente, un tipo di componente è conforme alle prescrizioni della direttiva 2007/46, comprese le prescrizioni tecniche contenute negli atti normativi di cui all'allegato IV a tale direttiva; la nozione di «equivalenza» non è definita dalla direttiva 2007/46 e designa, secondo il suo significato comune, la qualità di possedere lo stesso valore o la stessa funzione, ovverosia concerne la questione se un componente abbia le stesse qualità di un altro componente, a prescindere dal fatto che quest'ultimo sia stato o meno omologato. Ne discende che le prove di omologazione e quelle di equivalenza non sono quindi intercambiabili, dato che un componente di un tipo omologato può non essere equivalente al componente originale oggetto di una gara d'appalto. Secondo la Corte la direttiva 2014/25 non può prescindere dai requisiti imperativi imposti da altre norme del diritto dell'Unione in materia, segnatamente, di sicurezza e protezione ambientale, quali il requisito di omologazione stabilito, per questi medesimi motivi, dalla direttiva 2007/46. La Corte precisa altresì che la normativa sugli appalti non deve vietare l'applicazione della direttiva 2007/46 volta a garantire un elevato livello di sicurezza stradale, protezione della salute, protezione dell'ambiente, efficienza energetica e protezione contro gli usi non autorizzati. Ciò comporta che se la direttiva 2007/46 richiede, in considerazione di tali obiettivi, l'omologazione di taluni ricambi per veicoli, tale requisito diviene imprescindibile e non può essere eluso richiamandosi alla direttiva 2014/25. Le gare d'appalto in oggetto riguardavano la fornitura di componenti che potevano essere ricambi originali Iveco o equivalenti. La Corte afferma pertanto che i componenti contemplati dagli atti normativi di cui all'allegato IV alla direttiva 2007/46, che sono soggetti a un obbligo di omologazione, possono essere venduti o messi in circolazione solo se sono stati oggetto di una siffatta omologazione  Di conseguenza, per rispettare i requisiti imperativi stabiliti dalla direttiva 2007/46, poiché i componenti sono soggetti a un obbligo di omologazione, possono essere considerati equivalenti ai sensi dei termini delle suddette gare d'appalto solo i componenti che siano stati oggetto di una siffatta omologazione e che, quindi, possano essere commercializzati.   Con la seconda questione, il giudice del rinvio ha chiesto se gli articoli 60 e 62 della direttiva 2014/25 debbano essere interpretati nel senso che, alla luce della definizione del termine «costruttore» di cui all'articolo 3, punto 27, della direttiva 2007/46, essi ostano a che un ente aggiudicatore, nell'ambito di una gara d'appalto avente ad oggetto la fornitura di componenti di ricambio per autobus destinati al servizio pubblico, possa accettare, come prova dell'equivalenza dei componenti contemplati dagli atti normativi di cui all'allegato IV alla direttiva 2007/46 e proposti dall'offerente, una dichiarazione di equivalenza rilasciata dall'offerente stesso posto che quest'ultimo, pur autoqualificandosi come costruttore di tali componenti, è un mero rivenditore o un commerciante. La Corte ricorda il principio secondo cui l'ente aggiudicatore gode di un potere discrezionale nel determinare i mezzi che gli offerenti possono impiegare per provare tale equivalenza nelle loro offerte, ma detto potere dev'essere esercitato in modo tale che i mezzi di prova ammessi dall'ente aggiudicatore gli consentano effettivamente di procedere a una valutazione proficua delle offerte che gli vengono presentate e non vadano oltre quanto necessario per effettuare tale valutazione. Inoltre, secondo la Corte, per poter essere considerata un mezzo appropriato di prova, ai sensi della direttiva 2014/25, una dichiarazione di equivalenza deve provenire da un organo che sia in grado di garantire tale equivalenza, il che richiede che tale organo si assuma la responsabilità tecnica per i componenti di cui trattasi e disponga dei mezzi necessari per garantire la qualità di tali componenti. La Corte precisa che tali condizioni possono essere soddisfatte solo dal produttore o dal fabbricante di detti componenti. La Corte ricorda inoltre che, ai sensi della direttiva 2007/46, il termine costruttore è definito come la persona o l'ente responsabile, verso l'autorità di omologazione, di tutti gli aspetti del procedimento di omologazione e della conformità della produzione, precisando altresì che non è indispensabile che detta persona o ente partecipino direttamente a tutte le fasi di costruzione del veicolo, del sistema, del componente o dell'entità tecnica soggetti all'omologazione. La Corte conclude pertanto che, per poter essere considerato un mezzo di prova appropriato, nell'ambito di un bando di gara come quelli che hanno dato origine ai procedimenti principali, una dichiarazione di equivalenza di un componente deve provenire dal costruttore di tale componente, benché tale costruttore non debba necessariamente intervenire direttamente in tutte le fasi della costruzione di detto componente. Precisa poi che il fatto che un offerente produca pezzi di ricambio diversi da quelli oggetto della gara d'appalto in questione, che sia iscritto a una camera di commercio o che la sua attività sia stata oggetto di una certificazione di qualità, è irrilevante al fine di determinare se tale offerente possa essere considerato il costruttore dei componenti che propone nella sua offerta. Infine, secondo la Corte, la prova dell'equivalenza dei prodotti proposti da un offerente, rispetto a quelli definiti nelle specifiche tecniche figuranti nel bando di gara, deve già essere fornita nell'offerta; tale prova consente effettivamente all'ente aggiudicatore di procedere a una valutazione proficua delle offerte che gli vengono presentate. In base a tali argomenti, riunite le due cause, la Corte di giustizia ha pertanto dichiarato che: 1) l'articolo 10, paragrafo 2, l'articolo 19, paragrafo 1, e l'articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2007/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 settembre 2007, che istituisce un quadro per l'omologazione dei veicoli a motore e dei loro rimorchi, nonché dei sistemi, componenti ed entità tecniche destinati a tali veicoli (direttiva quadro), devono essere interpretati nel senso che ostano a che un'amministrazione aggiudicatrice possa accettare, nell'ambito di una gara d'appalto avente ad oggetto la fornitura di componenti di ricambio per autobus destinati al servizio pubblico, un'offerta con cui vengono proposti componenti rientranti in un tipo di componente contemplato dagli atti normativi di cui all'allegato IV alla direttiva 2007/46, non accompagnata da un certificato che attesti l'omologazione di tale tipo di componente né da informazioni sull'effettiva esistenza di tale omologazione, a condizione che tali atti normativi prevedano una siffatta omologazione. 2) gli articoli 60 e 62 della direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la direttiva 2004/17/CE, devono essere interpretati nel senso che, alla luce della definizione del termine «costruttore» di cui all'articolo 3, punto 27, della direttiva 2007/46, ostano a che un ente aggiudicatore, nell'ambito di una gara d'appalto avente ad oggetto la fornitura di componenti di ricambio per autobus destinati al servizio pubblico, possa accettare, come prova dell'equivalenza dei componenti contemplati dagli atti normativi di cui all'allegato IV alla direttiva 2007/46 e proposti dall'offerente, una dichiarazione di equivalenza rilasciata dall'offerente stesso, quando quest'ultimo non può essere considerato come il costruttore di tali componenti. 
  • C-437/21

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    Assegnata in data: 29/11/2022

    Commissione: IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione del diritto dell'Unione relativo all'attribuzione di contratti di servizio pubblico aventi ad oggetto servizi pubblici di trasporto marittimo veloce di passeggeri ed è stata presentata nell'ambito di una controversia che oppone la Liberty Lines SpA al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Italia) (in prosieguo: il «MIT»), in merito all'affidamento diretto del servizio di trasporto marittimo veloce di passeggeri tra il porto di Messina e quello di Reggio Calabria, nello stretto di Messina, alla società Bluferries Srl, senza previa indizione di una specifica gara.

     

    Quanto ai fatti all'origine del procedimento principale, si ricorda che il 31 gennaio 2015 il MIT indiceva una procedura aperta in vista dell'affidamento di un appalto avente ad oggetto il servizio di trasporto marittimo veloce di passeggeri attraverso lo stretto di Messina, fra il porto di Messina e il porto di Reggio Calabria, per una durata di tre anni, il quale veniva successivamente attribuito, sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, alla Ustica Lines SpA, divenuta poi la Liberty Lines. Il 24 giugno 2015 veniva concluso il relativo contratto, il quale prevedeva tra l'altro la possibilità per il MIT di prorogarne l'applicazione per un periodo di ulteriori dodici mesi a condizione della sussistenza della necessaria disponibilità finanziaria e della permanenza dell'interesse dell'amministrazione alla prosecuzione del servizio. Il 14 settembre 2018, la Liberty Lines informava il MIT che detto contratto sarebbe presto arrivato a scadenza, precisando che, in mancanza di proroga dello stesso, detta società non avrebbe più effettuato il servizio in questione a partire dal 1° ottobre 2018. Il MIT non replicava a tale comunicazione ma, a partire da quest'ultima data, decideva tuttavia di affidare la prestazione del servizio in questione alla Bluferries, società interamente detenuta da Rete Ferroviaria Italiana (in prosieguo: «RFI»), già concessionaria di tale servizio sulla linea «Messina – Villa San Giovanni», sempre nello stretto di Messina, e questo senza che venisse esperita alcuna procedura di gara pubblica.

    La Liberty Lines contestava l'attribuzione dell'appalto in questione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, il quale respingeva tale ricorso ritenendo, in sostanza, che la direttiva 2014/25/UE ed il regolamento n. 1370/2007 permettessero l'affidamento diretto di contratti di servizio pubblico per il trasporto ferroviario effettuato via mare, come quello in discussione nel procedimento principale, che per l'appunto avrebbe dovuto essere qualificato come servizio di trasporto ferroviario, la cui attribuzione non era assoggettata ad alcun obbligo di procedere ad una gara d'appalto.

    Secondo il TAR per il Lazio, la possibilità di qualificare il servizio di trasporto marittimo in questione come servizio di trasporto ferroviario sarebbe risultato dall'articolo 47, comma 11 bis, del decreto‑legge n. 50/2017, ai sensi del quale «Al fine di migliorare la flessibilità dei collegamenti ferroviari dei passeggeri tra la Sicilia e la penisola, il servizio di collegamento ferroviario via mare di cui all'articolo 2, comma 1, lettera e), del [decreto n. 138 T/2000], può essere effettuato anche attraverso l'impiego di mezzi navali veloci il cui modello di esercizio sia correlato al servizio di trasporto ferroviario da e per la Sicilia, in particolare nelle tratte di andata e ritorno, Messina – Villa San Giovanni e Messina – Reggio Calabria, da attuare nell'ambito delle risorse previste a legislazione vigente destinate al Contratto di programma-parte servizi tra lo Stato e la società Rete ferroviaria italiana Spa e fermi restando i servizi ivi stabiliti».

     

    La Liberty Lines ha, pertanto, interposto appello contro tale sentenza dinanzi al Consiglio di Stato, facendo valere, segnatamente, la mancanza di un'urgenza che giustificasse il ricorso nel caso di specie ad un affidamento diretto, dato che era stato proprio il MIT a creare la situazione controversa nel procedimento principale astenendosi dal prorogare il contratto o dall'indire una pubblica gara, nonché il fatto che il servizio di trasporto marittimo in questione non poteva essere equiparato a un servizio di trasporto ferroviario, in quanto la Bluferries utilizzava degli aliscafi, vale a dire navi prive degli impianti necessari per il trasporto di vagoni ferroviari.

    Ad avviso del Consiglio di Stato, l'articolo 47, comma 11 bis, del decreto‑legge n. 50/2017 produce anzitutto l'effetto di escludere, in maniera ingiustificata e senza alcuna motivazione adeguata (in particolare per quanto riguarda la verifica dell'esistenza di un «fallimento del mercato»), l'attribuzione del servizio di trasporto marittimo veloce di passeggeri in discussione nel procedimento principale dall'ambito di applicazione delle norme disciplinanti gli appalti pubblici, e ciò in violazione del regolamento n. 3577/92. La disposizione sembrerebbe, poi, concedere a RFI, in quanto società che gestisce l'infrastruttura ferroviaria nazionale, un diritto speciale od esclusivo di gestire questo servizio di trasporto, il che potrebbe dar luogo, sempre a favore di RFI, a una misura costituente un aiuto di Stato, che falsa o minaccia di falsare la concorrenza.

    Alla luce di tali circostanze, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale:

    «Se osti al diritto dell'Unione, e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell'ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma come l'articolo 47, comma 11 bis, del [decreto‑legge n. 50/2017], che:

    –        equipara o quanto meno consente di equiparare per legge il trasporto marittimo veloce passeggeri tra il porto di Messina e quello di Reggio Calabria a quello di trasporto ferroviario via mare tra la penisola e la Sicilia, di cui alla lettera e), dell'articolo 2, del [decreto n. 138 T/2000];

    –        crea o appare idonea a creare una riserva in favore di [RFI] del servizio di collegamento ferroviario via mare anche attraverso l'impiego di mezzi navali veloci tra la Sicilia e la penisola [italiana]».

     

    La Corte di giustizia, ritenendo di non disporre degli elementi necessari a consentirle di pronunciarsi sulla seconda parte della questione, ha proceduto dunque ad esaminare la prima, rispetto alla quale ha rilevato anzitutto la necessità di identificare negli articoli 1, paragrafo 1, e 4, paragrafo 1, del regolamento n. 3577/92 le disposizioni del diritto dell'Unione ritenute dal giudice del rinvio suscettibili di opporsi alla disposizione nazionale evocata nella questione medesima.

    Il giudice dell'Unione ha osservato che le norme in materia di appalti pubblici non sono identiche a seconda che si tratti di servizi di trasporto pubblico di passeggeri via mare oppure di servizi di trasporto pubblico di passeggeri per ferrovia, perché soltanto per i contratti di servizio pubblico di trasporto per ferrovia (ad eccezione di altre modalità di trasporto ferroviario, quali metropolitana e tram) l'articolo 5, paragrafo 6, del regolamento n. 1370/2007 autorizza, a determinate condizioni, un affidamento diretto, vale a dire senza che sia previamente esperita una procedura di gara. L'articolo 4, paragrafo 1, del regolamento n. 3577/92, invece – in virtù del quale uno Stato membro può concludere contratti di servizio pubblico con le compagnie di navigazione che partecipano ai servizi regolari da e verso le isole o imporre loro obblighi di servizio pubblico come condizione per la fornitura di servizi di cabotaggio –, esige che uno Stato membro, se conclude contratti di servizio pubblico o impone obblighi di servizio pubblico, lo faccia su base non discriminatoria nei confronti di tutti gli armatori dell'Unione e, al contrario del regolamento n. 1370/2007, non prevede alcuna possibilità di affidamento diretto.

    Pertanto, dato che gli Stati membri, ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 2, seconda frase, del regolamento n. 1370/2007, possono applicare quest'ultimo al trasporto pubblico di passeggeri per via navigabile soltanto lasciando impregiudicate le disposizioni del regolamento n. 3577/92 (le cui disposizioni, dunque, in caso di conflitto sono destinate a prevalere), i contratti di trasporto pubblico di passeggeri per via navigabile non possono essere conclusi senza che sia previamente esperita una procedura di gara, in conformità a quanto previsto da quest'ultimo regolamento.

    Da ciò discende l'inammissibilità di una misura nazionale che proceda a una riqualificazione di taluni servizi senza tener conto della natura reale di questi ultimi e che porti a sottrarli all'applicazione delle norme ad essi applicabili, specialmente qualora a una tale riqualificazione possa conseguire un affidamento diretto di tali servizi, senza esperimento di una gara pubblica, che sarebbe altrimenti richiesta.

    Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) ha dichiarato che: il regolamento (CEE) n. 3577/92 del Consiglio, del 7 dicembre 1992, concernente l'applicazione del principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi all'interno degli Stati membri (cabotaggio marittimo), e in particolare l'articolo 1, paragrafo 1, e l'articolo 4, paragrafo 1, di tale regolamento, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale che abbia lo scopo di equiparare dei servizi di trasporto marittimo a dei servizi di trasporto ferroviario, qualora tale equiparazione abbia l'effetto di sottrarre il servizio in questione all'applicazione della normativa in materia di appalti pubblici ad esso applicabile.

  • C-433/21

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    Assegnata in data: 29/11/2022

    Commissione: VI COMMISSIONE (FINANZE), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull'interpretazione dell'articolo 18 TFUE, letto in combinato disposto con il principio della libertà di stabilimento sancito dall'articolo 49 TFUE, e sono state presentate nell'ambito di due controversie nelle quali i fatti sono identici, ad eccezione degli esercizi fiscali di cui si discute, ossia l'esercizio 2005 nella causa C‑433/21 e l'esercizio 2004 nella causa C‑434/21, e che vedono contrapposte la Contship Italia SpA, in quanto società incorporante e succeduta alla Borgo Supermercati Srl, e l'Agenzia delle Entrate, in merito all'applicazione della disciplina fiscale antielusiva delle società di comodo.

     

    La normativa italiana vigente all'epoca dei fatti (articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994) limitava il beneficio della causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo alle società ed enti i cui titoli erano negoziati sui mercati regolamentati nazionali. Successivamente, la legge n. 296/2006 estendeva l'ambito di applicazione di tale causa di esclusione, con effetto a partire dall'esercizio fiscale in corso il 4 luglio 2006, alle società ed enti che controllavano società ed enti i cui titoli erano negoziati in mercati regolamentati italiani ed esteri, nonché alle stesse società ed enti quotati ed alle società da essi controllate, anche indirettamente.

     

    Con due avvisi di accertamento, relativi agli esercizi fiscali 2004 e 2005, l'amministrazione tributaria italiana ha ritenuto, in applicazione del citato articolo 30 della legge n. 724/1994, che la Borgo Supermercati (Srl di diritto italiano detenuta al 100% dalla Eurokai KGaA, società quotata in borsa in Germania) soddisfacesse i criteri per poter essere considerata come una società di comodo e ha determinato il reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle società (IRES) di detta società, ricostruendolo a partire dal valore dell'unico attivo detenuto da quest'ultima, vale a dire la partecipazione del 100% nel capitale della Mika Srl. La Borgo Supermercati ha dapprima proposto due ricorsi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Genova, che li ha respinti entrambi nella loro interezza, e in seguito due appelli dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Liguria, che li ha parzialmente accolti, statuendo che il fatto che la Borgo Supermercati fosse detenuta da una società quotata in borsa in Germania permetteva di estendere nei suoi confronti la citata causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo, il cui ambito di applicazione era limitato, alla data dei fatti in discussione, alle società direttamente quotate sul mercato regolamentato italiano. Tale interpretazione estensiva - a giudizio della Commissione tributaria regionale della Liguria - si sarebbe imposta in virtù del principio secondo cui è ragionevole ed opportuno interpretare la causa di esclusione relativa alla quotazione in borsa conformemente al principio di non discriminazione, a dispetto del fatto che il legislatore avrebbe previsto una siffatta estensione dell'ambito di applicazione dell'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994 soltanto a seguito della riforma introdotta dalla legge n. 296/2006.

    L'amministrazione tributaria e la Contship, che aveva nel frattempo incorporato la Borgo Supermercati, hanno proposto ricorso contro le decisioni della Commissione tributaria regionale della Liguria dinanzi alla Corte suprema di Cassazione, giudice del rinvio. Secondo la Contship, la società di diritto tedesco azionista al 100% della Borgo Supermercati avrebbe dovuto essere equiparata alle società ed enti i cui titoli erano negoziati in mercati regolamentati italiani, menzionati all'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, nella versione applicabile ratione temporis ai fatti in discussione, e, pertanto, la controllata di detta società di diritto tedesco avrebbe dovuto essere esclusa ex lege dall'applicazione del regime fiscale antielusivo per le società di comodo. Infatti, a giudizio della Contship, un'interpretazione dell'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, nella sua redazione antecedente alla legge n. 296/2006, che non seguisse l'approccio sopra descritto determinerebbe una discriminazione fondata sulla nazionalità del soggetto controllante e violerebbe la libertà di stabilimento nonché la libertà di iniziativa economica e commerciale in seno all'UE; tale interpretazione, inoltre, sarebbe confermata dalla modifica apportata all'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994 ad opera della legge n. 296/2006, che avrebbe in qualche modo reso conforme la normativa nazionale in questione ai principi dell'ordinamento giuridico dell'Unione.

     

    Il giudice del rinvio, chiamato ad occuparsi della questione, ha preliminarmente precisato, tra le altre cose, che il regime fiscale antielusivo previsto per le società di comodo dall'articolo 30 della legge n. 724/1994 si applica unicamente alle società di tipo commerciale a scopo di lucro, tra le quali vanno ricomprese anche le stabili organizzazioni di società estere e le società cosiddette «esterovestite», e che l'individuazione delle società soggette a detto regime fiscale avviene mediante l'applicazione di un test cosiddetto «di operatività», che si basa su una valutazione della produttività dei beni patrimoniali detenuti da tali società rispetto a parametri reddituali minimi predeterminati dalla legge. Pertanto, qualora una società dichiari per l'esercizio fiscale in questione un reddito inferiore alla somma che risulterebbe dall'applicazione di tali parametri di reddito minimo, l'assenza del carattere operativo di tale società è presunta e ciò porta alla determinazione del reddito imponibile sulla base del reddito minimo presunto dalla legge.

    Ha quindi ritenuto che la modifica apportata dalla legge n. 296/2006 non sia applicabile ratione temporis ai fatti in discussione nei procedimenti principali e che il tenore letterale dell'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, nella formulazione anteriore a detta modifica, non permettesse di adottare un'interpretazione secondo cui l'estensione dell'ambito di applicazione della causa di esclusione corrispondente alle controllate delle società quotate, in Italia o all'estero, avrebbe potuto essere applicabile già all'epoca dei fatti di causa di cui trattasi.

    In tale contesto, il giudice del rinvio si è pertanto interrogato sulla compatibilità dell'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, nella versione applicabile ai fatti in discussione nei procedimenti principali, con il principio di non discriminazione, letto in combinato disposto con il principio di libertà di stabilimento, sanciti, rispettivamente, all'articolo 18 e all'articolo 49 TFUE. Secondo il giudice del rinvio, da un lato, tale normativa è suscettibile di determinare una discriminazione in senso stretto tra le società emittenti titoli negoziati nei mercati regolamentati italiani e le società quotate in mercati esteri, e, dall'altro lato, la mancata estensione alle società madri quotate in mercati regolamentati italiani ed esteri della causa di esclusione in parola, potenzialmente foriera di un vantaggio fiscale, potrebbe risultare idonea a produrre una restrizione della libertà di stabilimento, con conseguente effetto dissuasivo nei confronti delle società che, pur non residenti e prive di stabili organizzazioni, intendano comunque esercitare la libertà di stabilimento secondario in Italia attraverso il controllo di società ivi residenti.

    Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia dell'UE la seguente questione pregiudiziale: se gli articoli 18 e 49 TFUE ostino ad una disciplina nazionale che, come l'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, nella versione, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 296/2006, escluda dal regime fiscale antielusivo delle società non operative le sole società ed enti i cui titoli siano negoziati in mercati regolamentati italiani e non anche le società ed enti i cui titoli siano negoziati in mercati regolamentati esteri, nonché le società che controllano o sono controllate, anche indirettamente, dalle stesse società ed enti quotati.

     

    La Corte di giustizia UE ha, come prima cosa, ritenuto ricevibile la domanda pregiudiziale, nonostante il Governo italiano avesse eccepito la sua irricevibilità a motivo del carattere ipotetico della questione sollevata in ciascuna delle cause riunite. Secondo il Governo, infatti, la causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo prevista dall'articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994 si applicava, alla data dei fatti in discussione nei procedimenti principali, unicamente alle società e agli enti i cui titoli erano negoziati sui mercati regolamentati italiani, e che, di conseguenza, la Contship, non avendo mai emesso titoli, né sul mercato italiano né su un mercato estero, non può sostenere che la normativa nazionale in discussione nei procedimenti principali costituisse una discriminazione nei suoi confronti.

    La Corte ha poi stabilito che, poiché le controversie riguardano una società italiana controllata da una società stabilita in un altro Stato membro, la disposizione pertinente al fine di valutare la compatibilità della normativa nazionale di cui trattasi con il diritto dell'Unione è l'articolo 49 TFUE e che, pertanto, non occorre procedere ad un'interpretazione dell'articolo 18 TFUE, bensì esclusivamente ad un'interpretazione dell'articolo 49 TFUE.

    Fatte tali premesse e considerata la normativa in discussione nei procedimenti principali, la Corte ha sostenuto che essa:

    - non produce alcuna disparità di trattamento tra una società detenuta da una società madre quotata su un mercato estero (in questo caso in Germania), come la Contship, e una società detenuta da una società madre quotata in Italia in quanto concede il beneficio della causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo unicamente alle società che sono esse stesse quotate sul mercato regolamentato italiano, indipendentemente dal fatto che una società sia la controllata di una società madre quotata in Italia oppure all'estero;

    - non favorisce le società detenute da società madri quotate sul mercato regolamentato nazionale, che desiderino beneficiare della causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo, e di conseguenza non produce nessun effetto dissuasivo per le società madri quotate su mercati esteri e quindi non è idonea ad ostacolare o a rendere meno attraente lo stabilimento, nel territorio italiano, di una società madre quotata su un mercato regolamentato estero. Qualora una società madre sia quotata sul mercato regolamentato italiano, osserva la Corte, la sua controllata non può beneficiare della causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo qualora tale controllata non sia essa stessa quotata, con il risultato che nessun trattamento fiscale vantaggioso per le controllate è subordinato alla condizione che le società madri siano quotate sul mercato borsistico nazionale.

    Alla luce dell'insieme delle considerazioni che precedono, la Corte dichiara che l'articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale la quale limiti l'applicazione della causa di esclusione dell'applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo alle sole società i cui titoli sono negoziati sui mercati regolamentati nazionali, escludendo dall'ambito di applicazione di tale causa di esclusione le altre società, nazionali o estere, i cui titoli non sono negoziati sui mercati regolamentati nazionali, ma che sono controllate da società ed enti quotati su mercati regolamentati esteri.

  • C-719/20

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/06/2022

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha stabilito che la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa o a una prassi nazionale in forza della quale l'esecuzione di un appalto pubblico, aggiudicato inizialmente, senza gara, ad un ente «in house», sul quale l'amministrazione aggiudicatrice esercitava, congiuntamente, un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi, sia proseguita automaticamente dall'operatore economico che ha acquisito detto ente, al termine di una procedura di gara, qualora detta amministrazione aggiudicatrice non disponga di un simile controllo su tale operatore e non detenga alcuna partecipazione nel suo capitale.

  • C-573/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/06/2022

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La Corte ha statuito che la Repubblica italiana, non avendo provveduto affinché non fosse superato, in modo sistematico e continuato, il valore limite annuale fissato per il biossido di azoto (NO2),

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2018 incluso, nelle zone IT0118 (agglomerato di Torino); IT0306 (agglomerato di Milano); IT0307 (agglomerato di Bergamo); IT0308 (agglomerato di Brescia); IT0711 (Comune di Genova); IT0906 (agglomerato di Firenze) e IT1215 (agglomerato di Roma);

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2017 incluso, nella zona IT0309 (zona A – pianura ad elevata urbanizzazione);

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2012 e a partire dall'anno 2014 fino al 2018 incluso, nella zona IT1912 (agglomerato di Catania), nonché

    – a partire dall'anno 2010 fino al 2012 e a partire dall'anno 2014 fino al 2017 incluso, nella zona IT1914 (zone industriali),

    è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del combinato disposto dell'articolo 13, paragrafo 1, e dell'allegato XI della direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa alla qualità dell'aria ambiente e per un'aria più pulita in Europa, e, non avendo adottato, a partire dall'11 giugno 2010, misure appropriate per garantire il rispetto del valore limite annuale fissato per il NO2 in tutte le suddette zone e, in particolare, non avendo provveduto affinché i piani per la qualità dell'aria prevedessero misure appropriate affinché il periodo di superamento di detto valore limite fosse il più breve possibile, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'articolo 23, paragrafo 1, di tale direttiva, letto da solo e in combinato disposto con l'allegato XV, punto A, di quest'ultima.

    La Corte ha altesì condannato la Repubblica italiana alle spese.

  • C-33/21

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 15/06/2022

    Commissione: XI COMMISSIONE (LAVORO PUBBLICO E PRIVATO), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La controversia da cui ha origine la questione pregiudiale deriva da un'ispezione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), all'esito della quale l'istituto  ha ritenuto che 219 dipendenti della Ryanair, assegnati all'aeroporto di Orio al Serio presso Bergamo (Italia), esercitassero un'attività di lavoro dipendente sul territorio italiano e che, in applicazione del diritto italiano e del regolamento n. 1408/71, dovessero essere assicurati presso l'INPS per il periodo compreso tra il giugno 2006 e il febbraio 2010.

    L'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha ritenuto altresì che, in forza del diritto italiano, gli stessi dipendenti dovessero essere assicurati presso l'INAIL, per il periodo compreso tra il 25 gennaio 2008 e il 25 gennaio 2013, per i rischi connessi al lavoro non aereo in quanto impiegati, secondo detto istituto, presso la base di servizio della Ryanair situata nell'aeroporto di Orio al Serio.

    L'INPS e l'INAIL hanno chiesto pertanto alla Ryanair il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi relativi a tali periodi, circostanza che quest'ultima ha contestato dinanzi ai giudici italiani. Il giudice italiano d'appello ha esaminato i certificati E101 rilasciati dall'istituzione irlandese competente, attestanti che la legislazione previdenziale irlandese era applicabile ai dipendenti ivi indicati.

    Questi certificati, tuttavia, non coprivano tutti i 219 dipendenti della Ryanair assegnati all'aeroporto di Orio al Serio per tutti i periodi interessati. Esso ne ha concluso che, per quanto riguarda i dipendenti per i quali non era accertata l'esistenza di un certificato E101, occorreva determinare la legislazione previdenziale applicabile. Poiché detto giudice ha ritenuto che la legislazione previdenziale italiana non fosse applicabile, l'INPS e l'INAIL hanno proposto ricorso in cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia).

    La Corte suprema di cassazione italiana ha quindi chiesto alla  Corte di giustizia dell'UE di accertare quale sia, conformemente alle disposizioni pertinenti del regolamento n. 1408/71 e del regolamento n. 883/2004, la normativa previdenziale applicabile al personale di volo di una compagnia aerea (stabilita in uno Stato membro) che non è coperto da certificati E101 e che lavora per un periodo di 45 minuti al giorno in un locale destinato ad accogliere l'equipaggio, denominato «crew room», di cui detta compagnia aerea dispone nel territorio di un altro Stato membro nel quale detto personale di volo risiede e che, per il resto del tempo lavorativo, si trova a bordo degli aeromobili di questa compagnia aerea. 

    La Corte di giustizia dell'UE ricorda il principio secondo il quale una persona che fa parte del personale navigante di una compagnia aerea che effettua voli internazionali e che dipende da una succursale o da una rappresentanza permanente della compagnia in questione, nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale essa ha la propria sede, è soggetta alla legislazione dello Stato membro nel cui territorio tale succursale o detta rappresentanza permanente si trova.

    La Corte ritiene altresì che il locale destinato ad accogliere l'equipaggio della Ryanair («crew room»), situato presso l'aeroporto d'Orio al Serio, costituisca una succursale o una rappresentanza permanente in cui i dipendenti della Ryanair assegnati all'aeroporto d'Orio al Serio non coperti dai certificati E101 erano occupati durante i periodi considerati, di modo che questi ultimi sono soggetti, in forza del regolamento n. 1408/71, alla legislazione previdenziale italiana. 

    La Corte ricorda, inoltre, il principio secondo il quale la persona che di norma esercita un'attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta alla legislazione dello Stato membro di residenza, qualora essa eserciti una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro.

    Di conseguenza, la Corte ritiene  che il locale destinato ad accogliere l'equipaggio della Ryanair di stanza presso l'aeroporto d'Orio al Serio costituisca una base di servizio, di modo che i dipendenti della Ryanair non coperti dai certificati E101 ivi assegnati sono soggetti, in forza del regolamento n. 883/2004, alla legislazione previdenziale italiana.

    In conclusione, la Corte dichiara che, fatta salva la verifica da parte del giudice del rinvio, la legislazione previdenziale applicabile durante i periodi in questione ai dipendenti della Ryanair assegnati all'aeroporto d'Orio al Serio non coperti da certificati E101 è quella italiana.

  • C-210/20

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 06/07/2021

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La sentenza verte sull'interpretazione della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, in materia di appalti pubblici, alla luce del principio generale di proporzionalità. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata proposta dal Consiglio di Stato alla CGUE nell'ambito di una controversia tra, da un lato, la Rad Service Srl Unipersonale, la Cosmo Ambiente Srl e la Cosmo Scavi Srl, riunite in seno al raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) Rad Service (in prosieguo: l'«RTI Rad Service») e, dall'altro, la Del Debbio SpA, il Gruppo Sei Srl, la Ciclat Val di Cecina Soc. Coop. (in prosieguo: l'«RTI Del Debbio») nonché il raggruppamento temporaneo di imprese costituito dalla DAF Costruzioni Stradali Srl, la GARC SpA e l'Edil Moter Srl (in prosieguo: l'«RTI Daf»), in merito alla decisione dell'Azienda Unità Sanitaria Locale Toscana Centro (Italia) di escludere l'RTI Del Debbio da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori.

    L'esclusione dell'RTI Del Debbio è stata motivata dalla presentazione di una dichiarazione dell'impresa ausiliaria che non menzionava un patteggiamento, vale a dire una sentenza di applicazione della pena su richiesta congiunta delle parti, pronunciata nei confronti del titolare e rappresentante legale dell'impresa il 14 giugno 2013 e passata in giudicato l'11 settembre 2013. Il giudice del Lussemburgo ricorda che, in diritto italiano, il patteggiamento sarebbe espressamente equiparato, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, ad una sentenza di condanna relativa al reato di lesioni colpose, commesso in violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. L'amministrazione aggiudicatrice ha pertanto ritenuto che l'impresa ausiliaria avesse fornito una dichiarazione falsa e non veritiera alla domanda contenuta nel DGUE, diretta a stabilire se essa si fosse resa responsabile di gravi illeciti professionali, di cui all'articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici. Di conseguenza, l'amministrazione aggiudicatrice ha ritenuto che l'RTI Del Debbio dovesse essere automaticamente escluso dalla procedura, ai sensi dell'articolo 80, comma 5, lettera f-bis), e dell'articolo 89, comma 1, del medesimo Codice. Dopo che il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana (Italia) ha annullato, tramite due sentenze, l'esclusione dell'RTI Del Debbio e dell'RTI Daf, l'RTI RAD Service ha impugnato tali sentenze dinanzi al giudice del rinvio, ossia il Consiglio di Stato (Italia).

    In tale contesto, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l'articolo 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con l'articolo 57, paragrafo 4, lettera h), e paragrafo 6, di tale direttiva e alla luce del principio di proporzionalità, debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in forza della quale l'amministrazione aggiudicatrice deve automaticamente escludere un offerente da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora un'impresa ausiliaria, sulla cui capacità esso intende fare affidamento, abbia reso una dichiarazione non veritiera quanto all'esistenza di condanne penali passate in giudicato, senza poter imporre o, quantomeno, senza poter permettere, in siffatta ipotesi, a tale offerente di sostituire detto soggetto, contrariamente a quanto previsto nelle altre ipotesi in cui i soggetti sulle cui capacità si affida l'offerente non soddisfano un criterio pertinente di selezione o nei confronti dei quali sussistono motivi di esclusione obbligatori.

    Secondo la Corte, anzitutto, ai sensi dell'articolo 63, paragrafo 1, secondo comma, terza frase, della direttiva 2014/24, l'amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro cui appartiene a imporre che l'operatore economico interessato sostituisca il soggetto sulla cui capacità esso intende fare affidamento, ma nei confronti del quale sussistono motivi di esclusione non obbligatori. Dalla formulazione di quest'ultima frase emerge quindi che, sebbene gli Stati membri possano prevedere che, in un'ipotesi del genere, l'amministrazione aggiudicatrice sia tenuta ad imporre una siffatta sostituzione a tale operatore economico, essi non possono, per contro, privare detta amministrazione aggiudicatrice della facoltà di esigere, di propria iniziativa, una siffatta sostituzione. Gli Stati membri dispongono infatti solo della possibilità di sostituire tale facoltà con un obbligo, per l'amministrazione aggiudicatrice, di procedere a una siffatta sostituzione. La Corte ritiene che una tale interpretazione contribuisce a garantire il rispetto del principio di proporzionalità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, in forza del quale le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell'ambito dell'attuazione delle disposizioni di detta direttiva non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da quest'ultima.

    La Corte aggiunge che conformemente all'articolo 57, paragrafo 6, quarto comma, della direttiva 2014/24, un operatore economico escluso con sentenza definitiva dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti o di attribuzione di concessioni non è certamente autorizzato, nel corso del periodo di esclusione fissato da tale sentenza negli Stati membri in cui la sentenza produce i suoi effetti, ad avvalersi delle misure correttive da esso adottate a seguito di tale sentenza e, di conseguenza, a evitare l'esclusione se tali prove sono giudicate sufficienti; tuttavia, quando una sentenza definitiva esclude dalla partecipazione a procedure di aggiudicazione di appalti o di attribuzione di concessioni un soggetto sulle cui capacità l'offerente intende fare affidamento, l'offerente deve poter, in tal caso, essere autorizzato dall'amministrazione aggiudicatrice a procedere alla sostituzione di tale soggetto.

    Infine la Corte rammenta il considerando 101 della direttiva citata, ai sensi del quale, nell'applicare motivi di esclusione facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici devono prestare particolare attenzione al principio di proporzionalità; tale attenzione deve essere ancora più elevata qualora l'esclusione prevista dalla normativa nazionale colpisca l'offerente non per una violazione ad esso imputabile, bensì per una violazione commessa da un soggetto sulle cui capacità egli intende fare affidamento e nei confronti del quale non dispone di alcun potere di controllo.

    La Corte precisa che, nel caso di specie, se il giudice del rinvio confermasse l'affermazione dell'RTI Del Debbio secondo cui la condanna penale del dirigente dell'impresa ausiliaria sulle cui capacità esso aveva inteso fare affidamento non figurava nell'estratto del casellario giudiziale consultabile dai soggetti privati, cosicché la normativa italiana non consentiva all'RTI Del Debbio di venire a conoscenza di tale condanna, non gli si potrebbe addebitare una mancanza di diligenza; di conseguenza, in tali circostanze, sarebbe contrario al principio di proporzionalità, enunciato all'articolo 18, paragrafo 1, della direttiva 2014/24, impedire la sostituzione del soggetto interessato da una causa di esclusione.

    In definitiva la Corte ha risposto alla questione sollevata dichiarando che l'articolo 63 della direttiva 2014/24, in combinato disposto con l'articolo 57, paragrafo 4, lettera h), di tale direttiva e alla luce del principio di proporzionalità, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in forza della quale l'amministrazione aggiudicatrice deve automaticamente escludere un offerente da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora un'impresa ausiliaria, sulle cui capacità esso intende fare affidamento, abbia reso una dichiarazione non veritiera quanto all'esistenza di condanne penali passate in giudicato, senza poter imporre o quantomeno permettere, in siffatta ipotesi, a tale offerente di sostituire detto soggetto.

  • C-128/19

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 16/06/2021

    Commissione: XII COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI), XIII COMMISSIONE (AGRICOLTURA), XIV COMMISSIONE (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA)

    La domanda di pronuncia pregiudiziale, che verte sull'interpretazione degli articoli 107 e 108 del TFUE, è stata presentata con ordinanza dalla Corte suprema di cassazione italiana il 14 novembre 2018 nell'ambito della controversia tra l'Azienda provinciale sanitaria di Catania e l'Assessorato della Salute della Regione Siciliana in merito a una domanda di condanna della prima al pagamento di un'indennità a favore di un allevatore costretto ad abbattere animali affetti da malattie infettive.

    L'allevatore aveva presentato dinanzi al Tribunale di Catania una domanda diretta ad ottenere la condanna dell'Azienda provinciale sanitaria a versargli una somma (11.930,08 euro) a titolo di indennità, come previsto dall'articolo 1 della legge regionale n.12/1989. Tale indennità è finanziata dall'articolo 25, comma 16, della legge regionale n.19/2005, a favore degli operatori del settore zootecnico costretti ad abbattere bestiame affetto da malattie infettive.

    Il Tribunale di Catania ha accolto tale domanda con decreto ingiuntivo n. 81/08. L'azienda sanitaria ne ha quindi chiesto e ottenuto l'annullamento.

    Successivamente l'allevatore ha presentato ulteriore ricorso, a seguito del quale la Corte d'appello di Catania ha riformato la sentenza di annullamento respingendo l'argomento dell'Azienda sanitaria secondo cui la misura prevista dalla legge regionale costituiva un aiuto di Stato a cui non poteva essere data esecuzione fino a quando la Commissione non l'avesse dichiarato compatibile con il mercato interno. La Corte d'appello di Catania rilevava che la Commissione europea aveva autorizzato (con decisione C(2002)4786 dell'11 dicembre 2002)  le disposizioni delle leggi regionali che, fino al 1997, avevano finanziato l'indennità di cui al procedimento principale  in quanto misura di aiuto di Stato compatibile con il mercato interno, ovvero l'articolo 11 della legge regionale n. 40/1997 e l'articolo 7 della legge regionale n. 22/1999. La Corte d'appello di Catania considerava che l'accertamento di compatibilità con il mercato interno delle misure del 1997 e del 1999, effettuato dalla Commissione nella decisione del 2002, si estendeva alla misura del 2005, che finanziava tale indennità.

     La Corte suprema di cassazione, giudice del rinvio, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dall'Azienda sanitaria avverso la sentenza della Corte d'appello di Catania, chiede se la misura del 2005 costituisca un aiuto di Stato ai sensi dell'articolo 107, paragrafo 1, del TFUE e, in caso affermativo, se sia compatibile con gli articoli 107 e 108 TFUE.

    Quindi, la Corte di Cassazione pone una seconda questione chiedendo se l'articolo 108, paragrafo 3, TFUE debba essere interpretato nel senso che una misura istituita da uno Stato membro, destinata a finanziare, per un periodo di più anni e per un importo di EUR 20 milioni, da un lato, un'indennità a favore degli allevatori costretti ad abbattere animali affetti da malattie infettive e, dall'altro, il compenso dovuto ai veterinari liberi professionisti che hanno partecipato alle misure di risanamento, debba essere assoggettata alla procedura di controllo preventivo prevista da tale disposizione, anche nell'ipotesi in cui la Commissione abbia autorizzato misure simili.

    La Corte di giustizia europea ha risposto alla seconda questione, ritenendo di non dover esaminare la prima alla luce di tale risposta, stabilendo che l'articolo 108, paragrafo 3 TFUE dev'essere interpretato nel senso che una misura istituita da uno Stato membro, destinata a finanziare, per un periodo di più anni e per un importo di 20 milioni di euro, da un lato, un'indennità a favore degli allevatori costretti ad abbattere animali affetti da malattie infettive e, dall'altro, il compenso dovuto ai veterinari liberi professionisti che hanno partecipato alle misure di risanamento, dev'essere assoggettata alla procedura di controllo preventivo prevista da tale disposizione, qualora tale misura non sia coperta da una decisione di autorizzazione della Commissione europea, salvo che essa soddisfi le condizioni previste dal regolamento (UE) n. 702/2014 della Commissione, del 25 giugno 2014, che dichiara compatibili con il mercato interno, in applicazione degli articoli 107 e 108 del TFUE, alcune categorie di aiuti nei settori agricolo e forestale e nelle zone rurali e che abroga il regolamento della Commissione (CE) n. 1857/2006, o le condizioni previste dal regolamento (UE) n. 1408/2013 della Commissione, del 18 dicembre 2013, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 [TFUE] agli aiuti «de minimis» nel settore agricolo.

  • C-798/18

    Consulta la sentenza su curia.europa.eu

    Assegnata in data: 12/05/2021

    Commissione: VIII COMMISSIONE (AMBIENTE, TERRITORIO E LAVORI PUBBLICI), X COMMISSIONE (ATTIVITA' PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO)

    Le domande sono state presentate nell'ambito di controversie sorte tra, da un lato, nella causa C 798/18, la Federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche (Anie) nonché 159 imprese che producono energia elettrica da impianti fotovoltaici e, nella causa C 799/18, l'Athesia Energy Srl nonché altre 15 imprese operanti nello stesso settore e, dall'altro lato, il Ministero dello Sviluppo economico (Italia) e il Gestore dei servizi energetici (GSE) SpA, in merito all'annullamento dei decreti attuativi delle disposizioni legislative nazionali che prevedono una revisione delle tariffe incentivanti per la produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici e delle relative modalità di pagamento.

    Il regime italiano di incentivi alla produzione di energia elettrica da impianti fotovoltaici è stato infatti modificato dall'articolo 26 del decreto-legge n. 91/2014 (cd. Spalma-incentivi), attuato con decreti ministeriali del 16 e del 17 ottobre 2014, di cui i ricorrenti nei procedimenti principali chiedono l'annullamento dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Italia).

    Il giudice del rinvio ritiene che detto articolo 26 possa essere contrario al diritto dell'Unione, avendo ridotto le tariffe e modificato le modalità di pagamento di incentivi già assegnati e confermati mediante convenzioni concluse individualmente dal GSE con i gestori degli impianti fotovoltaici, che indicano le tariffe incentivanti concrete e le modalità specifiche del loro pagamento per un periodo di 20 anni.

    La Corte rileva che le convenzioni tra i gestori di impianti fotovoltaici interessati e il GSE erano concluse sulla base di "contratti-tipo" che non assegnavano di per sé incentivi agli impianti stessi, ma fissavano unicamente le modalità della loro erogazione, e che, per le convenzioni concluse dopo il 31 dicembre 2012, il GSE si riservava il diritto di modificare unilateralmente le condizioni di queste ultime a seguito di eventuali sviluppi normativi. Detti elementi costituivano, quindi, un'indicazione sufficientemente chiara per gli operatori economici nel senso che gli incentivi in questione potevano essere modificati o soppressi.

    La Corte aggiunge inoltre che le misure previste dall'articolo 26, commi 2 e 3, del decreto- legge n. 91/2014 non incidono sugli incentivi già erogati, ma sono applicabili a decorrere dall'entrata di tale decreto-legge e unicamente agli incentivi previsti, ma non ancora dovuti.

    La Corte, pertanto, dichiara che, fatte salve le verifiche che spetta al giudice del rinvio effettuare tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti, l'articolo 3, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2009/28 e gli articoli 16 e 17 della Carta, letti alla luce dei principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede la riduzione o il rinvio del pagamento degli incentivi per l'energia prodotta dagli impianti solari fotovoltaici, incentivi precedentemente concessi mediante decisioni amministrative e confermati da apposite convenzioni concluse tra gli operatori di tali impianti e una società pubblica, qualora tale normativa riguardi gli incentivi già previsti, ma non ancora dovuti.

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